PAGINE (Zona, 2006)
![]() Data uscita: autunno 2006
PAGINE anno XVI n. 48 (agosto - ottobre 2006)
Roma è un ultrasuono che si allarga in un punto abbastanza vicino al mare e tende al suolo fra le sue propaggini un reticolo di civiltà: la vestizione nordeuropea dei viali diritti sotto l'architettura donchisciottesca dei lampioni, le losanghe d'avorio del giubileo tra i lastrici, la torsione nella schiena del pescivendolo che sciacqua le interiora nei rioni, lo spalancamento paesano dei sagrati ancora rasi da quel fiato di sole estivo sulle velette chiare delle spose, quella rudezza femmina dai fianchi ampi come aratri, il portamento cinico dell'acqua larga che le serpeggia al centro e porta i suoi rifiuti e i suoi lamenti nell'imbuto di una vasta foce che alza la voce dalla mia prestoria per restituire i corpi di due che dalla metà degli anni Sessanta hanno dato peso e gravità al mio chiamare per essere. Tutta Roma mantiene quella voce col timbro solare di commiato agricolo ficcata nel cuore dell'Europa. Tutte le strade svoltano in un tempo reale non atteso, ora un tempo operaio fatto di pane e portapranzi aperti su impalcature che non smontano mai, ora un tempo archeologico che è la macchia di vuoto che divampa nel traffico – e si sente il silenzio consolare in un tempio di strada tra i palloni accalcati nello scudo azzurro. E la villa che fa ressa di alberi intorno è un pedalare calmo e domenicale di famiglie, è la catena di ragazzi saliti senza cuore verso quel niente sulla mongolfiera che prepara alla vista enorme di dopo – come la spaccatura che dal Pincio si puntella sui fari delle automobili in quel moto ordinario della vita viva che sta sotto la vita di quelli che siamo quando siamo dall'alto.
L'alto è una categoria geografica di Roma, così gonfiata sulla fascia verde dei colli, ed è una categoria del suo cessato spirito: l'alto di dentro, l'alto di sotto, l'umido, il buio corporale delle catacombe con la Cecilia viva dopo il decollamento, il bozzolo incorrotto del suo corpo che spiega l'altra santa spalancata e barocca, Teresa che divarica le braccia per eccesso d'amore nell'amore di oro dell'angelo – e la luce dardeggia sui sacri amanti dalle vesti avariate dal contatto col cielo specialmente di lei. In questo senso Roma con il suo sacro e la sua ironia con la grandezza letterale delle sue facciate con gli squarci di sole da vigna con i suoi cani e le vedute d'oro si è infilata dentro le mie parole. Ma soprattutto si è eletta a loro custode mia mamma con il suo dogma d'insegnante. Nei dopocena dell'infanzia era mio compito domestico registrare su carta la traccia del giorno come un sismografo che non oscillasse solo ai moti visibili. E lei correggeva il visibile e l'altro. Dunque dentro tutta la mia poesia c'è un fiume con dentro una madre morta e a cavallo del fiume una seconda madre che mi abitua a formarne un racconto, a riportare alla superficie il fardello eccellente, l'ipertrofia romantica dei morti. Inoltre il mio papà era un eroe di quelli veri: da giovane era partito volontario per combattere contro il caudillo Franco nella guerra di Spagna, e di mestiere raccontava dei suoi giorni di fuori, della storia che splende alla luce del sole. Lui viveva camminando la forma vera del mondo e teneva la cronaca delle brigate, del sindacato dei metalmeccanici e della successiva esperienza politica in Italia come deputato del PCI. Non ho mai smesso di ubbidire alla coscienza familiare e l'incontro all'Università con Biancamaria Frabotta pone il sigillo dell'autocritica sulla mia solitaria gestualità di versificatrice quotidianamente arresa al geyser del suo dettato e apre la strada a un progressivo svelamento di poeti che per me sono fatti con le ali aperte: Pasternak, Mandel'stam, Rilke per tutti. A me che abito la stessa casa e probabilmente le stesse ossessioni da quando avevo otto mesi non fu lieve capire il senso di scanzonata provvisorietà dei coinquilini romani, anche dei poeti che amano le periferie della città, l'inquinato multirazziale altrove dell'impero che ha sparso ovunque questo corpo effimero di luce che all'apice si sgretola. Ma la mia poesia è non essere me e fatico dicendo. Continua a essere un modo di respirare, la parte sottile di un corpo che cerca il bene e fumiga dal petto di altri, una sorta di sacerdozio superfluo, è comparirsi di lato dalle profondità del sogno e abbandonare tutte le mattine la propria orma sulla riva del fiume e pescare dal fiume tutti i morti, i sorrisi radiosi dei morti, le maggiorate in prendisole col profilo di aquila sapiente come un frutto, le masse dei tuffatori gagliardi di Pasolini, le ombre dei bambini che creano intorno il buffo indispensabile caos della bella vita, ed è infine un modo clandestino per localizzare e tenere nel raggio del proprio amore alcuni – rari – santi contemporanei. Non avrai che la vita
Le scarpe non vennero ritrovate. Ardeva come un'ostia nella materia Lo scheletro del ponte
La rimozione delle spoglie gialle degli insetti e del grano da parte del Cose che fanno respirare. La magnitudine. Lontana Le conseguenze e i mezzi della scomparsa: polvere La doratura sistematica delle cupole Lanelle di pollini sui lastrici capitolini e altre migrazioni L'ingegno patibolare degli aranceti, celle coperte di luce. Sole Serre bianche nei campi Vento da La scimmia randagia
L’umano ha il disincanto minerale dei tetti da Una vivacità monumentale
con la freccia mirata nel petto fai che la bocca affiori dal cielo lei aveva confidenza con le fiamme ora il cielo le piega la bocca *** i primi sogni della morte si formano come fiammelle sul dorso delle mani ora il cielo le chiede una supplica lo spazio tra le dita muta nel suo calore sono piegata a te con la lingua era come formasse una pozza prendi |
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