Stranieri. Cosa possono fare i poeti? (VersanteRipido, 1.5.18)
STRANIERI – cosa possono fare i poeti? I poeti, a mio parere, possono e devono smetterla di fare l’arte per l’arte, non è più tempo: il mondo chiama, la realtà s’impone. La geografia del mondo sta cambiando sotto i nostri occhi e la poesia deve cambiare di conseguenza. Sul concetto di “straniero”, “estraneo”, “diverso”, la prima e la terza delle poesie che vi propongo risponderanno meglio di qualunque mia prosa. Approfitto di questa prima affermazione per affermare un secondo pensiero, che può sembrare una provocazione, ma non lo è: la poesia si capisce meglio della prosa, al contrario di quello che si pensa, perché ci raggiunge più immediatamente e più in profondità, adopera nello stesso tempo molti canali di comunicazione: la musica, il rapimento emotivo e, insieme, il lusso di una doppia intelligenza, etimologica e dotta insieme. I poeti producono questo effetto multiplo avvalendosi del silenzio e dei salti logici, mentre la prosa, per come comunemente la intendiamo, non suggestiona ma racconta, dunque lavora sulla conseguenzialità del pensiero e del pensiero sintattico. Il pensiero poetico, anche quello espresso in forma argomentativa filosofica, è comunque pensiero cantato e circondato da un luogo muto, l’aria messa nel bianco intorno alle parole. Se è vero che i poeti sono creature sensibili, al mondo contemporaneo non basta che dedichino la propria sensibilità esclusivamente alla lingua – non basta che siano i custodi dell’identità linguistica del paese, anche perché l’identità linguistica del paese è prossima a cambiare: secondo i demografi, alla fine del Secolo Ventunesimo tutto il mondo sarà abitato da cittadini creoli, proprio come avvenne nell’Alto Medioevo, l’epoca “devastata dai barbari”, dalla quale, però, è nata l’Europa. Ora siamo in un nuovo mutamento epocale e sarebbe utilissimo al mondo se tutti ci mostrassimo disponibili a formare una coscienza mondialista, se ci preparassimo con serenità al meticciato, della lingua e del sangue (ammesso che tra lingua e sangue ci sia differenza). Mescolarsi non significa perdere la propria identità, significa aumentarla, aggiungere qualcosa a quello che già si è, come avviene ogni volta che si impara. Riporto, a questo proposito, le parole della scrittrice somalo-italiana Ùbax Cristina Àli Fàrah che, nella sua breve introduzione ai propri testi, descrive con parole illuminanti la confluenza di esperienza e suono nella lingua adottata, l’italiano: “Scrivere e utilizzare l'italiano nel tentativo di conciliare un linguaggio solamente letto con le sonorità e le strutture del somalo, è stato un reiventarmi un mondo al quale sentivo finalmente di appartenere, un riappropriarmi di tutto ciò che nella realtà non poteva coesistere…” Far confluire in sé i molti aspetti della propria vita, dunque, attraverso la scelta della lingua nella quale scrivere. Un’operazione che ha a che fare con la cosiddetta realtà e con la nostra propria biologia. E infine: in quanto partecipante al progetto “La Frontiera”, ideato da Elena Stancanelli e Alessandro Leogrande, e come componente dell’Associazione “Piccoli Maestri” (lettori volontari di libri altrui nelle scuole), ho posto alla linguista Valeria Della Valle una domanda a proposito della prossima possibile contaminazione del nostro italiano, che provocatoriamente definivo “asfittico e letterario”, con le lingue arabe e africane – e la domanda ha indotto Della Valle a una riflessione utilissima a tutti: a parte “kebab”, tutte le parole arabe che sono entrate nel suo e nel nostro uso (“jihad”, “burqa”), sono parole negative. Questo processo va radicalmente invertito. da Il bene morale (Crocetti, 2017) poi, ci siamo sedute queste mani tenevano la loro creatura sopra l’indifferenziato del mare Secondo il più recente rilevamento sugli arrivi via mare in Europa, reso noto dall'Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), il numero di rifugiati e migranti che, dall'inizio del 2016, ha attraversato il Mar Mediterraneo per sbarcare in Europa ha ormai raggiunto quota 288.005. Tra questi, 121.155 sono arrivati in Italia e circa 164.146 in Grecia. Il numero di morti e dispersi in mare è stimato in 3.171. I dati sono aggiornati al 4 settembre 2016. Un poeta è profondamente coinvolto con le cose del mondo. Il suo compito è mantenere la memoria della comunità umana. Il suo compito è ricordare la grandezza possibile della nostra persona. "Quando entrano in gioco le pulsioni di auto-conservazione dell'io, il principio del piacere viene sostituito dal principio della realtà. Quest'ultimo […] mette in atto la temporanea sopportazione del dispiacere, come tappa nel lungo e contorto cammino verso il piacere." (Freud) Il temporaneo dispiacere è vedere le cose come stanno, cioè che siamo creature sofferenti, crudeli e sole in misura variabile. Il massimo piacere, l’utopia del piacere, è la circolazione fluida dell’amore umano. Per ciò abbiamo inventato il paradiso. Dato l’assunto che il poeta conservi in sé la memoria e lo slancio sufficienti per risuscitare anche negli animi più disillusi e oppressi il desiderio e il coraggio di sperare in una “comunità umana”, possiamo dire che la poesia risusciti l’utopia del piacere. E che, per ciò, sia la spina nel fianco, che ci ricorda come vorremmo che le cose fossero. Oltre il più quotidiano disincanto. Per ciò viene pensata tanto distante dalla faccenda umana: guardata con sospetto e rifiutata, perché riguarda il nostro sogno più alto e troppo pericolosamente amato, è il “seme fecondo e disperato” di De Angelis, incarna la nostra paura di illuderci come bambini. Per fortuna i poeti sono vivi, abitualmente adulti, e fanno le cose. Questa excusatio non petita mi pare una premessa doverosa, che, mentre cerca di oltrepassarlo, documenta l’imbarazzo di chi scrive, di fronte ai risultati della crudeltà umana. Provo molto imbarazzo a fare poesia su tutte queste creature prese dal mare per colpa della parte peggiore dell’umanità, che è quella che osservo e ripudio. In primo luogo, dentro me stessa, quando la rintraccio: nella mia paura, nella mia volontà di prevalere, ma soprattutto nella mia indifferenza. E allora, mi domando: dalle sponde di questo morto occidente, sotto la più leggibile paura, sale forse un rancore nostro, nei confronti di chi coltiva un sogno? davanti al mare è questo orfanotrofio Canto bosniaco o Della maldicenza |
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