Il giornalista del «Corriere della Sera» Ottavio Rossani intervista Maria Grazia Calandrone per "Accademia Mondiale della Poesia", 30 aprile 2020 - introduce Alfonso de Filippis - da un'idea di Michele Afferrante e Laura Troisi - domande del pubblico
ALCMANE,NOTTURNO (traduzione di Salvatore Quasimodo)
Dormono le cime dei monti
e le vallate intorno,
i declivi e i burroni;
dormono i rettili, quanti nella specie
la nera terra alleva,
le fiere di selva, le varie forme di api,
i mostri nel fondo cupo del mare;
dormono le generazioni degli uccelli dalle lunghe ali.
P – PERSONA (da Giardino della gioia Mondadori 2019)
«Una persona è quello che rimane quando è lontana», questo
l’ho già scritto. Io sono qui
e ti manco, perché ricordo
solo quello che fa bene
ricordare: ho setacciato l’oro
dalla mia vita, l’oro della sabbia
dell’infanzia, quando mia madre mi portava al mare e guardavo per ore
come luccica il mare dai promontori. Non serve ricordare
quando l’amore si trasforma in mostro. Non serve ricordare
quante volte io sono già morta
mentre ero viva. Non serve ricordare
l’abbandono. Una persona è quello che contiene
dopo che la vita
ha lavorato il legno della vita
fino alla midolla, fino a farne una barca leggerissima
che tiene il mare
sotto qualunque cielo. Io ricordo soltanto
il luccicare a perdita d’occhio
della mia vita. Se guardi bene,
vedi una cosa viva. Se guardi bene,
vedi che adesso finalmente sono
solo viva.
Roma, 31 dicembre 2018
LaZONA ROSSA (in «Antinomie», 15 marzo 2020)
a N.
Ho un’amica che continua a lavorare in fabbrica nella Zona Rossa. Alla pressa
il contatto forzato coi colleghi
è stretto. Dice: «Noi operai
siamo carne da macello. Nessuno parla
dei morti sul lavoro», ogni anno un conteggio
di prodotti stoccati e di mosche
morte nella regione della neve, dove l’orto è tagliato dai cancelli
e divide in porzioni disuguali
la terra. Tutto
finisce, per tutti, in due metri quadri
di terra, rivoltata da una benna
manovrata da un uomo reso muto
dal lavoro coi morti. Tutto
è messo a tacere
sotto uno strato di viridescenti muffe nobili
raggelate dal soffio della prima notte. Dice: «Non ho paura
per me». Non aggiunge: «Sarebbe quasi una liberazione». Anzi, emette una scintilla
di pura gioia
se le chiedo, in pensiero: «Hai mangiato?»
Roma, 12 marzo 2020
PIETRO MASO. SENZA EMOZIONE E SENZA RIMORSO (da Giardino della gioia Mondadori 2019)
Il 17 aprile 1991 Pietro Maso, dopo tre tentativi falliti, riesce a uccidere entrambi i genitori. Non esistono contrasti gravi in famiglia, lo scopo dichiarato del matriparricida è ottenere l’eredità.
Nel febbraio 1992, presso la discoteca «Modo» di Domegliara, nasce il «Pietro Maso Fans Club». I masiani indossano camicia azzurra infilata dentro pantaloni morbidi di colore grigio, a vita alta, blazer blu con bottoni dorati e foulard blu a pois bianchi; portano i capelli impomatati e pettinati all’indietro, la nuca rasata a V. Copiano lo stile lussuoso che Maso ha copiato da Don Johnson di Miami Vice.
I più estremisti legano alla vita grembiuli da macellaio schizzati di sangue e brandiscono finti coltellacci.
Nel marzo 1992, durante la partita contro la Cremonese, dalla curva Sud si alza il coro delle Brigate Gialloblu dell’Hellas Verona:«Nella vecchia Montecchìa, ia- ia-o, / Maso còpa anche sua zia, ia-ia-o, / con il cricco, cricco, crick, crick, cricco...».
La cosiddetta «massa» idolatra chi ha avuto la disinibizione di abilitare gli istinti più colpevoli e oscuri che, a istanti, abitano chiunque, ma solo in casi eccezionali come questo diventano progetti atti a modificare la realtà.
Io voglio tutto quello che voglio. Prima di tutto
il villino col giardinetto. Per avere il villino col giardinetto, devo rimuovere la famiglia che attualmente lo abita. Essa è la mia famiglia.
Per estinguere la mia famiglia, mi servono alcuni attrezzi:
due pentole, tre amici, un tubo in ferro e un bloccasterzo.
«Qui a Cchattanooga Tennessee qquando il ssole ti ssspaca in quatro…»
Poiché i miei genitori sono restii a morire, si renderanno necessari anche una matassa di cotone e un sacchetto di nylon.
Erano benvoluti, buoni, semplici. Erano da sopprimere.
«Più lo mandi giù, più ti tira su!»
Se tua madre non vuole essere cremata, il suo è un corpo che può essere riesumato. Per dire. L’omicidio va pensato, vanno valutate le concause. Avevo fallito altre volte, nell’ucciderli. La prima volta era stata colpa dell’inesperienza: avevo sistemato nel salone due bombole di gas e una centralina di luci psichedeliche, di quelle che si accendono coi rumori forti. Avevo puntato la sveglia alle 21.30, perché a quell’ora i miei guardavano la televisione. Suona la sveglia, si accende la luce e provoca la scintilla d’innesco. Sbam! Una buona idea. Avevo occluso la canna del camino con i vestiti, per aumentare la potenza d’urto dell’esplosione. Ma niente. Avevo tolto la sicura alle bombole, ma non avevo aperto le manopole e il gas non era uscito. Ingenuità. Ho dovuto spiegare a mia madre che ci facevano le bombole in salotto e i vestiti nella canna fumaria. Le sue continue richieste dovevano essere arginate. Quello che sfugge al mio controllo mi attacca. Lei, particolarmente.
«Se ho fame me la fate passare, se non ho fame me la fate venire…»
La seconda volta, il mio amico non se l’è sentita di uccidere mia madre in macchina con un batticarne.
Mi toccava farlo io. Chi non uccide il padre rimane una persona non emancipata.
«E la mamma lo sa?!»
Mi ero staccato completamente da loro, per portare a termine il mio piano. Si era ingenerato un distacco. Solo io esistevo. Gli altri erano
vuoto. Mondo deserto. Ero come le chiese che hanno i demoni all’esterno. Mi dovevo proteggere. Ero sacro.
«Io ce l’ho profumato!»
Leggevo i consigli di mia madre come occasioni per umiliarmi.
Mi sembrava di capire cosa volesse trasmettermi lanciandomi certe occhiate.
Occultarmi, voleva.
«Vivi ora, la vita è breve, il tempo è fortuna»
Mia madre capiva che la stavo uccidendo. Il suo sguardo non bastò
a fermarmi. Questa è un’affermazione da rettificare.
L’odore della carne aperta
non mi ha più abbandonato.
CONTRO L'ESILIO (da Giardino della gioia Mondadori 2019)
Siccome nasce
come poesia d’amore, questa poesia
è politica.
*
La prima volta
che incontrai la persona che avrei amato
quando ci salutammo
provai la povertà d’essere al mondo, uno stento
irreparabile
dell’intero
essere emerso. Fu
più che una mancanza
un mancamento:
lo scodamento di un nero
getto di plasma
attraversava la costellazione
MGC 1.9.6.4 (uno.nove.sei.quattro). Il bene
lo riconosci così, quando vedi quel microcosmo, capace
di ogni bene e male, allontanarsi
sulla strada assolata
e sai che, se ritorna, smetterà un dolore
lungo tutta la vita, la nostalgia
che non sapevi provare e stava
sconosciuta e vicina come l’ombra alle spalle,
tua in silenzio e miseria
come la gioia che con la neve dura.
Roma, 20 luglio 2018
’A DOLESCENTE (inedito)
dedicato a tutti i regazzini lagnosi
È ’no sport come ’n’artro, signorina: tiro ar secchione.
Che vòr di’ che er secchione nun è arto
e er sacco de monnezza ’n’è ’n pallone?
Nun te devi fissà co’ li dettaji, dài risarto
ar complesso. Tipo che semo vivi.
Ah, dici nun te basta? Dici che quasi quasi preferivi
nun dové vede ’sta gran mascherata, che te pare
’n racconto de Poe? Anvedi, fai caciare
ma sei colta! «Se fa quer che se po’» dicemo a Roma…
Ah, sei de Pisa. E perché, a voi ve piace finì ’n coma?
Nun semo morti, è gia ’na gran conquista
nun c’è bisogno de annà a core ’n pista.
Ah, dici m’abbastava ’n coridoio.
Dici che c’hai ’na camera e cucina,
ché si te metti lunga sur divano
co’ la capoccia tocchi er lavandino?
Sai che te dico? Mettece ’n cuscino
e fatte ’na dormita de ddu’ mesi. Quann’è luglio te sveji
prepari lo zainetto e vai a core a San Saba, sotto i tiji.
C’hai presente, er profumo che fa piagne
che ce dà ’na memoria de quarcosa
che nun sapemo? Mo’ da retta a ’sta scema, nun fa lagne