Alla sua ultima musa (14.9.07, Sonia Bergamasco)
in AmiataPianoFestival 2007 DIONISUS
Cantina di ColleMassari ai Poggi del Sasso di Cinigiano, Grosseto, 14 settembre 2007
Sonia Bergamasco, voce recitante
Maurizio Baglini, pianoforte Gabriele Pieranunzi, violino Carlo Parazzoli, violino Francesco Fiore, viola Silvia Chiesa, violoncello Alberto Bocini, contrabbasso e in Università La Sapienza, Aula Magna, Roma, 5 febbraio 2011
voce recitante: Sonia Bergamasco
musica: Quartetto Michelangelo link correlati
ALLA SUA ULTIMA MUSA
[in La vita chiara (transeuropa, 2011)] – per la voce di Sonia Bergamasco – "Nulla sia noto di noi che il sorriso" F. Chopin Perché niente si vede sul mio volto Aurore, più nessuna Maria (lei la Wodzinska – corpo di ragazzina – da dove ho incominciato la mia Marcia Funebre) né ancora l'angelo, lo vedi Aurore, con i capelli sulla spalla seminuda che veglia sulle tracce di pioggia che sono i corpi dopo. Eravamo montagne egualmente futili quasi vicine sulla piana notturna ed era noto agli alberi il sorriso. Nient'altro eravamo che sorriso – e unisono muto di macchine d'amore, macchie sul cuore nudo della terra, brevi colpi di testa contro i fasci metallici dei cavi raggruppati per gravità e dolcezza. Degnatevi di accogliere con ironia e struggimento il mio sorriso Aurore, facilement. Mani e piedi legati con un filo e un peso di sostanze sconosciute, l'incauto che quasi ti spaventa nella mia musica domestica – ma io ti riverisco Aurore – io che diresti qualcosa di contento che riceve il tocco di una terra assente, corpo in terra straniera e il cuore ai piedi della crocefissione di Warszawa. Mi è indifferente il luogo, mia inappariscente piccola Musa da salotto, io ti servo per pochi, perchè scrivere è il lento affioramento del discorso in uno che non è di questa terra verso lei che non è di questa terra ma in una segreta doppiezza di sangue e grazia. Io metto nella grazia i lamenti selvaggi della Polonia abbandonata, scrive l'amico Liszt sulla Gazette – ma in verità io torno nella terra del Padre, io – per non dire io – trattengo i lupi della notte bianca nelle terze parti dell'Aria, apro l'impalcatura della mano come un ponte di ferro, piccola sovrastruttura di ossa che trattiene la storia della rivoluzione fuori e dentro la Musica qui, terra piccola più della mia mano e più nuda del gemito dell'uomo. Siamo già resti, Aurore – e sorridiamo. Più di questo io non avrei potuto con questo provvisorio delicato corpo che si scuoteva in tutta la lunghezza per il mycobacterium, una spora spugnosa di dolore che pronuncio con grazia e contrappunto di nascosto a crome di sangue. Quanta castità lirica da mantenere – quanta astinenza, sorella! quando da sveglio si materializza la pastura di muschio che tappezza i miei sogni e il singhiozzo il veleno di quell'unico salice sui gradini del cuore disumano di lei che pietosa e amorosa pur tremando nel proprio desiderio invano non diceva io ti amo. Roma, 5 giugno 2007 II Dolcemente io riprendo il soliloquio del cane che sta ai piedi sperando nella più alta delle carezze. Dolcemente sui tasti io protendo un muso di animale fino a che quel silenzio degli astri sotto ogni nota scende dall'aria e sfiora la mia testa di lupo attraverso elementi naturali quali la vista interiore dei laghi e sui laghi lentamente io mi piego come cala l'arcata sulle corde ad occhi chiusi lei che respira appena sulla cassa insieme a lui che sfiamma una traccia di latte e di culla ancora nella piccola ancia e la scenografia del cielo tra le gazze involontario e puro punta allo sterno e apre le gabbie che contengono il cuore: gli strumenti installano sui gessi della cattedrale l'insieme del firmamento e di un lontano popolo barbaro. Ogni nota è una stella battuta dai martelletti come un chiodo che sfolgora oltre la fine del mio corpo nella volta celeste. Io sono pronto per l'esecuzione – io mi allargo e scompaio – io vede. Vedo il suo petto fondere nel legno dello strumento con il cuore battente e l'esilità della gente di pianura. Vedo il suo corpo come una candela vedo questa candela, non vedo il corpo. Vedo il naso e la fronte luccicare della luce dei ceri – non vedo altra preghiera. Si attiva tra il limite dei loro corpi l'enorme metabolismo della terra che disfa i suoi frutti. Brevi fischi di altura e cacciagione una preghiera fatta con i segreti fiori dei boschi e le corse a perdifiato sulla montagna e da quei magazzini a cielo aperto e senza volere che stanno chiusi nel petto lui raccoglie palmi di vento sotto le travi della cattedrale e i muri bianchi sono mute volatili di cani e uccelli pronti a spiccare dai tracciati sommersi della montagna il frullo della polvere e del fieno. I bambini là fuori si coprono di questa bionda cenere terrestre, i più piccoli corrono a picchiare le dita sul mio Pleyel dal purissimo effetto di prolungare le ulne e le falangi nell'abete dei martelli e i budelli e le corde nei nervi, la fatica corporale della esecuzione nelle labbra serrate e nei coperchi aperti delle code – il sudore che non dovremmo mai mostrare, nemmeno nello scherzo prima che esploda di salute l'orchestra, né nella danza polacca che porta il tempo con le mani e il passato si innalza su di noi come un angelo con le ali aperte, spicca un astratto umore su questa nera macchina sonora di corpo e legno che ha la solitudine di una foglia ma al centro di ogni movimento ha una canzone infantile e Maria muta nel desiderio come un corpo celeste. Suono come lo sconosciuto sui binari ieri ripeteva quel nome, io suono la fantasticheria per il bel tempo – ma al chiaro sotto la terribile ulna della luna dove anche i cani parlano un'altra lingua e i laghi mossi come animali per il maltempo sondano la riva con le zampe liquide infette e nere. Dormono altrove – in me – i bianchi massi spirituali delle capre nella campagna canora, dormono i fuochi accesi nelle case posate in tutta la lontananza della terra e la zuffa dei cani. Tanto aperta e segreta era la notte, tanto era l'algore delle mie dita artiche e le mani quasi scomparse nel museo naturale di Parigi che luccica di acetilene e ghigliottina. Suono così per il mio amore, suono Maria come se ti cercassi al tuo vecchio indirizzo. Roma, 26 giugno 2007 |
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