l'antologia contiene testi di: Martino Baldi, Vanni Bianconi, Vito Bonito, Domenico Brancale, Maria Grazia Calandrone, Grazia Calanna, Azzurra D'Agostino, Federico Federici, Francesca Genti, Paolo Gentiluomo, Massimo Gezzi, Paolo Fabrizio Iacuzzi, Andrea Inglese, Franca Mancinelli, Matteo Marchesini, Francesca Matteoni, Renata Morresi, Valerio Nardoni, Natalia Paci, Giovanni Previdi, Lucilio Santoni, Luigi Socci, Luigia Sorrentino, Italo Testa, Silvia Vecchini
Mi presento
Vivo a Roma e ho due figli. Mi piace parlare di poesia nelle scuole e nelle carceri, perché la parola poetica rende visibile qualcosa che è invisibile e che unisce, è parola d’amore che lotta, dicendo del mondo come vorremmo che fosse.
Scrivo da quando ho imparato a scrivere, ma a immaginare ho iniziato prima. I miei figli mi hanno aiutata a desiderare di comunicare con la poesia. Quando ero ragazza ricercavo furiosamente una pure stonata armonia, la perfezione linguistica. Volevo che la lingua fosse all’altezza dei miei sogni.
Ora desidero che la mia vita sia all’altezza dei miei sogni. E uso la mia vita per la poesia. Non per parlare di me, ma per mettere le mie parole a disposizione di chi sente gli stessi sentimenti. Ridotti all’essenziale, siamo tutti uguali.
Ecco, io voglio raggiungere chi mi legge proprio nel punto elementare, nel punto dove chiunque somiglia a me, ovvero dove io somiglio a chiunque. Chiunque io stessa sia.
Primo incontro con la poesia
Il mio primo incontro scolastico con la poesia si localizza nella quarta ginnasio. Ma sono andata a scuola a cinque anni, dunque vale come una terza media.
La professoressa Paola Moretti lesse il Notturno di Alcmane nella traduzione di Salvatore Quasimodo (“Dormono le cime dei monti / e le vallate intorno, / i declivi e i burroni; / dormono i rettili, quanti nella specie / la nera terra alleva, / le fiere di selva, le varie forme di api, / i mostri nel fondo cupo del mare; /dormono le generazioni degli uccelli dalle lunghe ali.”). Lesse e basta, senza commento, come lei sapeva leggere. E avvenne il contatto. Si spalancò il mondo dove avrei voluto vivere.
Quelle parole, così scelte, così composte, così vere (il poeta descrive un paesaggio notturno scegliendo nel panorama alcuni indimenticabili oggetti naturali) e nello stesso tempo così immaginifiche (il poeta descrive i fondali marini, che certamente non aveva esplorato) costruivano una realtà alla quale sentivo di appartenere profondamente.
Quella musica fatta di parole (non mi ponevo ancora il problema della traduzione) era la mia terra. Terra fisica, intendo, ché la poesia, quando è poesia, è vero corpo.
Il mio testo per voi
Ho scritto questo testo perchéla sola cosa che mi viene in mente di dire ai bambini è che la vita è bella e molto spaziosa. E noi, che conteniamo questa vita spaziosa, siamo molto spaziosi...
un semplice esercizio di libertà
una a una le antere dei fiori dicono sì nelle giornate dolci di settembre guarda, il mondo è perfetto, non avremmo saputo farlo meglio guarda le cose con dolcezza e con dolcezza tu verrai guardato dalle cose: con la tua anima imita le cose tu, che sei mondo, guarda i fiori come se fossi un fiore e poi guarda le api come se fossi un’ape poi guarda i fiori con gli occhi dell’ape e vedi rosse, gialle, azzurre, bianche tazze di nutrimento fatte per te bevi, diventa forte allora guardi in alto la radiazione azzurra e sei cielo sei la dolce giornata di settembre che durerà per sempre 20.9.14
Roberto Galaverni, "La Lettura" del "Corriere della Sera", 23 luglio 2017
MARILYN NON ESISTE (in Umana, troppo umana - Aragno, 2016) 1. goodnight honey avresti dovuto presentarti nuda come una bambina, nuda veramente al compleanno del Presidente avresti dovuto imbarazzare tutti, essere quell’onirico metro e sessantasei di nudità lunare, stordire il potere con il tuo odore perturbante di corpo vivo il tuo corpo era già un eccesso di generosità – e sarebbe bastato a non essere sola ma tu, la prima vittima della tua bellezza, mandavi avanti Marilyn come un’icona di pura obbedienza quale idea ti reggeva? quale illesa innocenza o che malinconia teneva eretta davanti a te l’invulnerabile marionetta, che sfoggiava il tuo volto più amabile quale scarica elettromagnetica, che raggio gamma, venuto da quale solitudine stellare teneva teso l’involucro perfetto del tuo sorriso quale? disperazione dietro il sorriso aperto, che studiavi di rendere il più fatuo e il più radioso filo di perle sopra la luccicante, sopra quell’ancheggiante confezione soprannominata Marilyn Monroe Marilyn non esiste, è una maschera come Arlecchino, una montatura del carnevale onirico americano, un’icona circense, un costume di platino calzato a pelle Marilyn è il sarcofago d’oro sopra un corpo scomparso e – dentro – sta rannicchiato il fossile di una bambina con gli occhi chiusi la bambina, se ancora parlasse, direbbe solo abbracciami perché io non ho anima, solo un’infanzia rimandata fino alla morte
2. I am just a small girl in a big world trying to find someone to love io non so che vuol dire provare il microfono del Madison Square Garden con una schicchera svagata, poi spostare il microfono all’esterno del leggio, perché tutti mi possiate vedere soffiarvi contro, con smagata dolcezza, una filastrocca infantile per l’uomo più potente degli Stati Uniti io non so che vuol dire vacillare sui tacchi fino a sparire con quell’aria smarrita. io non so che vuol dire calcare la mano su ogni dettaglio del corpo fino a farsi male, atteggiare le labbra come fossero sempre sul punto di parlare, poi rinunciare, come se il cuore non avesse forza io non so che vuol dire scoprire che la propria radiosità infiamma folle di soldati, io non so che vuol dire sentirsi morire quando uomini e donne che ti hanno voluta ti scrollano via, io non so che vuol dire quando ti chiamano bambola e la bambola è la tua stessa carne. io non so che vuol dire voler essere amata, io non so che vuol dire voler essere amata ed essere merce ma so che vuol dire: faccio tutto, purché tu mi veda so che vuol dire dire e non dire: non lasciarmi cadere. per favore
3. documenti. e la morte sarebbe avvenuta nelle prime ore della sera – “io sono cresciuta in modo decisamente diverso dalla maggior parte dei bambini. per i bambini è una cosa scontata essere felici”, ma io ero un’orfana di madre viva il dottor R. G. [Ralph Greenson, psichiatra], tempestivamente accorso, sembra piantasse una siringa cardiaca tra la sesta e la settima costola di Marilyn Monroe, nel disperato tentativo di rianimarla. o di finirla, come sostengono alcuni – “ora tutti vogliono Marilyn Monroe, ma io ricordo quando ero un’indesiderata, quando nessuno voleva vedere la piccola Norma Jeane. neppure sua madre” il dottor R. G., non riuscendo a infilare l’ago nel petto della donna, che respirava appena, sembra abbia posato tutto il proprio peso sulla siringa, rompendo una costola e insinuando finalmente l’ago sotto il cuore di Marilyn – “sono priva di ogni sentimento umano. l’unica cosa che uscì fu della segatura finissima come da una bambola, che si versò per tutto il pavimento” basandosi sulle ipostasi (ampie zone di ristagno del sangue, che non viene più fatto circolare dal cuore fermo) rinvenute sul lato ventrale e registrate dal dottor T.N. [Thomas Noguchi, vicecoroner] nella documentazione autoptica del 5.8.1962, il dottor G.U.R. [Giancarlo Umani Ronchi, medico legale] non ritiene che il corpo di Marilyn sia mai stato spostato. smentisce così l’ipotesi omicidiaria – “il paziente vive in un vuoto completo” Los Angeles, domenica 5 agosto 1962. nel sangue viene rinvenuta una quantità di principio tossico pari al contenuto di quarantasette compresse di Nembutal. nello stomaco o nel duodeno, però, non c’è traccia di capsule, né alcuna traccia di perforazione d’ago sull’intero corpo. i leucociti, soldati del sangue, che cercano di ripristinare lo stato di equilibrio organico dopo un trauma, sono presenti in quantità normale: nessun allarme è stato registrato dal corpo vivo di Marilyn. inoltre, nella camera non si trova neanche un bicchiere – “non farmi diventare una barzelletta. per favore”
4. ridi pagliaccio Norma Jeane Baker non coincideva in nulla con Marilyn Monroe. credo sia stata questa dissociazione, durissima da sopportare, a ucciderla, sia che sia morta per mano propria, sia che sia morta per mano altrui, come alcune prove sembrano evidenziare. ai fini non procedurali, per noi, è lo stesso: per noi Norma Jeane Baker è stata uccisa, anche se si fosse suicidata. Norma Jeane Baker, che negli ultimi anni della propria vita aveva assunto anche all’anagrafe il nome Marilyn Monroe, è morta perché chiunque le incontrasse finiva per amare Marilyn, la maschera, e non Norma, la persona. la piccola Norma, cresciuta in condizione di subbuglio e miseria, impossibilitata a diventare adulta da un mondo di relazioni transitorie e abusi, pur intuita e intravista da chi le era accanto, è rimasta sola fino alla fine, nascosta dietro la maschera prorompente di Marilyn, intrappolata nella propria bellezza come dentro un sarcofago. svuotamento e dissociazione: un io-bambola-perfetta abita il mondo e – dentro, inascoltata, o ascoltata male: medicalizzata, psicofarmacizzata – la spelonca echeggiante e vuota del disamore. la cava, del disamore. la femminilità spontaneamente finta di Marilyn, caricatura del sogno maschile americano, che dapprima Norma Jeane indossava con disinvoltura e ironia, ma che finì per incarnare con obbedienza infantile e feroce, la maschera feroce, modellata sui desideri degli yankee degli anni Cinquanta, ha divorato l’attrice che la indossava, a cominciare dal principio primo dell’identità: il bellissimo corpo, enfatizzato fino a diventare un prodotto, una merce in bilico tra icona e caricatura. così, Marilyn si presentava sempre simbolicamente in bilico sui tacchi. e rideva, come fosse sempre sul punto di piangere. nota – alcune delle frasi tra virgolette sono state pronunciate da Marilyn Monroe durante l’ultima intervista, rilasciata due giorni prima di morire a Richard Meryman del settimanale “Life”. altre frasi sono tratte dal racconto della stessa Marilyn Monroe Il dottor Strasberg. Roma, 6 settembre 2016
Così verrai, completamente povero: uno stornello mandato a piena gola con le scarpe slacciate sul vivaio tranquillo delle strade. L’anno lascia cadere dai solchi fra dito e dito frutti e sottrazioni: il tempo ci setaccia dai campi dalle case e dalle strade. Nella terra laconica è sepolto di traverso un eluso possibile. Sopra siedono i grandi animali senza ali, prende coraggio uno snervato impianto di stecchi intorno al quale scodetta la lustra contrattura dei rettili inanellati al rossovivo dei lamponi, delle campagne al crepuscolo e delle nostre ciglia di popolo spurio. Se anche dal nostro impasto e dal nostro fiato esistesse la possibilità di far nascere staremmo in piedi
uguali agli dèi, non come l’erba che addolcisce e piega sul suo respiro zolle e miracoli che non crediamo di compiere. Il tuo corpo affiora dall’interno come i sogni notturni e i ritratti dei cavalieri dal buio esultare della foresta, sfiora l’altra faccia del corpo che cerca la terra per deporti. La falciatura della terra semplicemente comanda la morte e risponde al canto degli uccelli a una fonte, a un belato. Sarai sotto il morente mezzogiorno – con me e con tutta l’altra contemplante voragine di pula. Stiamo nella schermatura vegetante dei campi col viso evaporato da cortine di acqua. Ascoltiamo l’invocazione della terra bagnata. Malva silenziatrice dei passi, il brusìo delle opere su quei tratti protési alla veglia che straluce. Gli alberi accanto alla penombra del giardino passano di ramo in ramo la maretta del tempo per- duto: la voce della natura è colmata dai succhi che il passaggio rettiliano dei corpi le ha pre- muto dai cardini arborei nelle concluse ere. Ma in un vano di acqua corrente sorprendiamo il suo volto scostare da sé una disperata tenerezza. La pietà è al contatto – e finirà che tutto il mondo parli all’indietro con la tua voce e la luce di ogni mattino spiccherà come un dogma dai tuoi occhi iniziali. La frontiera
del tuo primo inverno ha accumulato in essi la poligonazione dei cavi lungo la chiacchiera del cielo aperto dai portoni e dalle apostrofi in travertino dei davanzali perché anche il tuo corpo vada a segno dal telaio del grembo alla vista del cielo che per impregnazione ricorda l’incominciare echeggiante delle tue ossa di volatile eredità umana. Sei dilazione nel quieto ondulamento della trama terramarina degli anni; il tuo corpo è sostanza termica tenuta in pugno – dal tempo che si allontana lungo la natura – dalla specie separata da un dubbio di lucentezza (se siamo fatti di esistenza e pure abbiamo sogni trasparenti, di andare da Occidente verso l’amore non sapendo che cosa ci congiunge): l’infanzia è l’organo respiratorio della terra. 14 gennaio 2001
da La macchina responsabile
Azzurro ventre di Maria Su per altari di granito e aria il sedimento dei sentieri scosta lembi di tessuto refrattario con cespugli di sorbo e sanguinelle – orienta i ciuffi delle isole nell'inzuppo del porto privo di antimateria dove rifulge un cigolìo di pescherecci, il basso cabotaggio dei gabbiani. Rissa ferma nell’aria di vele e ali e colmi arrotolati. Cherosene striscia nell’acqua come un ostaggio chimico. Il mare è questa macchina esiliata che funziona col vento e s'inarca in fiumane di abbandono sulla linea di distorsione sonora della costa. La tinta azzurra che i volti assumono dal mare fa dei volti un'esequia tranquilla.
da Serie fossile
lettera immaginaria dov’ero carne essa era avorio (Pier Paolo Pasolini) alba di tenera carne, stretta nell’esoscheletro della Legge nel tragico mese di novembre piangeva tutto tienimi forte, fuori dal limite umano tienimi come una madre che abbraccia in sogno 22.12.13
1.7.12 / 12.1.13 Rami Youness A.MARJI & M.ARIA Grazia Calandrone (autotraduzione dall’arabo all’italiano di Amarji, revisione di Maria Grazia Calandrone)
[...] M. l’organo azzurro dell’amore e del pianto adesso è un vaso di macerie. il cuore oggi è un fulgido disco di veleni. sta tracimando l’acido e la schiuma dal mio petto. cosa chiedo all’amore? se non questo mai bastare, se non questo tutto volere. l’impianto d’ossa delle tue mani aperte che non diventano ali. questo? deve bastarmi. l’azzurro irrazionale, l’oscena fame degli innamorati? il blu di tutti i fiumi della terra sarà meno selvaggio delle nostre lacrime. ma tu fammi vedere cos’è un uomo, da quale fondo di disastro raccoglie l’ombra della sua donna. Non ti voltare, non dar retta al mio pianto. Solo, guidami. Io forse avrò fiducia nella tua schiena, nei muscoli flessori delle gambe, nella forma dei glutei mentre tutto il tuo corpo risale alla luce e io dietro, seguo con l’innocenza di una bestia ferita la ferita matura del tuo canto A. Ecco il mio petto, un suolo sfavillante e fertile: aralo con le unghie, curve come la falce di un dio barbarico, seminalo dei tuoi garofani neri e sonanti – lascia che su di esso le tue labbra siano aceto sul nitro\ c’è un nido nel mio petto, sempre aperto per l’uovo di un uccello Magio – [la fenice là dentro cresce in silenzio]. c’è nel mio petto un lago che aumenta il suo calore grazie alla saliva delle stelle, è l’occhio muscoso amaro della terra dove i morti sono abbandonati nel loro esilio verde. nel petto un bosco vago, in cui le ninfe pizzicano le ribeche del vento e fanno tremare il nervo blu della notte –, la tua tempia sul mio petto – matura frutti pesanti e incisi, che compiono la loro rotazione nella mia tempia. M.
sale del pianto e sale dell’innocenza. sale dal pianto l’innocenza dei morti, che sono capre dall’occhio selvaggio, fisso in Dio, sono innocenti come l’animale. tra noi e i morti sono avvenute parole che ci hanno cambiati per sempre: ora vediamo: questa stalla è una sala di compassione, questa bestia dal corpo bianco e monumentale emana misericordia. mater velata, dura madre del velario, rossa come la terra damascena e perturbante come la sua rosa, io ti prego perché attraverso il corpo di un ragazzo sono arrivata al regno del silenzio: sento solo il rumore degli dei che masticano l’erba, solo questo lontano ruminare di pianeti, un battere di sfere, la vastità dei muscoli orbitali tesi oltremisura per sorridere A. ti stringo a me\ la stella si arrugginisce nel mio petto, palpitano invece i corimbi a tromba degli agnocasti – sotto le scosse del sale stillato dalla tua ammoniaca verso il mio corpo hai riempito la mia entità di termiti e timo semiterrestre, ho riempito la tua di cavolaie e rosolacci luminosi – perciò parli a volte con la bocca del vento e io parlo con quella del fango: perciò i tuoi papaveri neri nuotano nel fosforo del mio cuore e il mio sole mette radici nel tuo concime. è lo spaccarsi del surmaschile nell’unità del surfemminile, non il contrario –, così ti dico la perdita,nella mia lingua, è fusione la gioia è spaccamento M. nel giogo dell’impero occidentale l’etimologia del demonio è separazione. solo quando Mosè divise le acque fu opera di salvezza. solo l’acqua può essere divisa senza rimpianto. altrimenti, dove è separazione, ecco il cupo sgomento della solitudine. Dio ha gettato Lucifero nelle profondità del creato perché la scheggia di luce rimasta nel suo cuore dall’origine non rispondesse al grido di dolore dell’umanità intera. Lucifero è il corpo bellissimo e sordo, il corpo rovesciato nell’antinatura, la sua sostanza spirituale coincide con una legione di bestie che paiono rocce e lucernai in disuso, ha il sentore di zolfo di una perfezione inservibile. nelle zone profonde della sua pelle c’è una luce perfetta e inservibile. la sua nullità molecolare è un fenomeno pieno di rimpianto. essere buio così, essere nessuno. mentre il giusto ha una nullità di luce, tutto il suo corpo è un adattamento, tutto il suo corpo è adempimento, dice io sono niente come io sono l’opera completa dei vivi. che tu non veda, disse Dio al serpente, perché hai mostrato agli uomini la vergogna di essere nudi e questo è stato il seme della diaspora. che tu non senta, perché hai insegnato agli uomini a parlarsi e questo è stato il segno della loro improvvisa solitudine. prima, c’erano i Nomi. nella fusione edenica nessuna opacità forzava gli esseri a parlarsi: la solitudine è il comandamento dell’inferno e la poesia è un salto, unanime e disperato, dall’inferno alla compresenza perduta. allora io prego che ogni parola sia innocente come il silenzio di Eva, sia giusta come il nome delle cose, io prego che ogni dialogo equivalga al silenzio del corpo che si divide per moltiplicare la bellezza, la gloria e l’obbedienza, che imprima nella carne l’opera piena di gratitudine del primo Nome. A. il silenzio! Oh, il silenzio! ... quel diapason bianco e unico, quando posa il suo sperma nel mio cuore, quando mi corrode come un nuovo Giuseppe marmoreo e ammutolisce per sempre – il fragore delle ali degli arcangeli, il clamore degli dei e lo strepito degli scontri violenti fra i pianeti? può la tua anfora contenere un astro contradditorio che si separa lasciando dietro di sé la sua roccaforte aerea – per scendere nell’indole di una lenta neutralità? lasciami entrare, con fuoco e acciaio, le mie porte sono già scomposte e i miei semi costruiscono nel non-tempo, le mie discendenze si arrampicano come edere sul muro dell’oblio disteso lungo il nulla, lasciami entrare nell’orfanità dell’acqua: un feto di amarezza e dolcezza uguali, nella sua bocca l’aderenza dei giorni e sulle sue spalle i rottami del cielo [...] così ho sognato dall’inizio: che tu sia l’anfora stabilita dal suo stesso biancore – dove si calma la ruota delle tre grazie e gli impulsi astrali del mio cuore si allentano\ M. oggi sei la mia resa, la bandiera bianca davanti alla massa verdesanta del mare, alla saldezza muscolare delle onde, agli spruzzi dell'acqua illuminata e dispersa come un crimine nella catena delle conseguenze. ma tu mi cadi tra le braccia come cade in mare il più alto sole e il tuo nome tocca la mia bocca con tutta la generosità dell'estate. i corpi dei poeti sono incalcolabili fiori di ciliegio, una flotta celeste, un sospiro di muscoli fossili e conchiglie. ogni loro parola è un reato, uno strumento alieno come il raggio verde che ci attraversa quando scende il buio sulla città. ma ora tutto è verde, tutto è buono, tutto è una locanda a cielo aperto. è estremamente estate, appena oltre la china di agosto. santo bruciore della pelle, santa oscillazione di frange d'ombra al vento e ossido di ottone sulla curva dei fianchi. sale da terra questo quieto coro di corpi, bellissimi e distesi nell'oro. il sole estrae oro dalle nostre viscere. dalla pianta chiara dei tuoi piedi sale una preghiera, questa mia religione
estratti critici
Andrea Breda Minello in Avanti on-line 16.1.15 - Trasformare in canto il sangue della specie
“La rosa dell’animale” rappresenta – oggi, tanto più dopo i fatti di Charlie Hebdo – un punto d’incontro, un luogo comune, dove due voci, appartenenti a culture e sensibilità diverse, si riconoscono e si ascoltano a vicenda. Questa è la funzione precipua della poesia: attraverso la parola dis-velare un mondo, renderlo noto, testimoniarlo. E come farlo se non tramite l’oggetto amoroso? Ecco qui sta il crinale, lo snodo cruciale: la libertà di dire, sussurrare: amore e renderlo respiro. Comprendere il soffio della cosa vocata, detta ed azzerare le differenze. Occidente e mondo arabo si sfiorano e compenetrano.
Scritto a quattro mani da Amarji, pseudonimo di Rami Youness, poeta di Damasco, studioso di letteratura italiana (ha tradotto in arabo Leopardi, Campana, D’Annunzio), e da Maria Grazia Calandrone, performer, drammaturga e soprattutto poeta tra i più rilevanti di questa nostra contemporaneità, “Rosa dell’animale” risulta essere un libro particolare. Uscito prima in Siria nel 2014, presso l’editore Attakwin, poi in Italia a fine anno per l’instancabile editore Zona, presenta un’importante prefazione di Adonis: Interrogare la domanda. Nell’introduzione si ricorda che: “Dentro l’Amore – poesia e dentro la Poesia – amore si cancellano le diversità legate alle notizie e agli eventi di ogni giorno. L’amore come la poesia è creato per essere accomunato allo stesso livello dell’esistenza, ed ha la capacità di oltrepassare le appartenenze etniche, linguistiche e politiche”.
Un moto, quello dei due lirici, di avvicinamento e di avvicendamento, un dialogo amoroso in cui stilemi e campi semantici si ritrovano: due lingue differenti, che diventano scandaglio di preghiere e riti. Universi e lessemi svariati per dire la stessa cosa: il fine ultimo è il riconoscimento dell’anima dell’altro, vegetale e animale al contempo, per approdare- come sostiene di nuovo Adonis – a “una presenza superiore, separarsi per ricongiungersi in modo più profondo, più ricco e più solido. È la distruzione dell’essenza del singolare per innalzare l’essenza dell’amore e del singolare-duale”.
Ci troviamo di fronte a un contrasto medievale rovesciato, dove la lingua si eleva e suggerisce, diventa trasmutazione lirica del desiderio fisico.
L’uomo si rivolge alla donna in questo modo: “il frutto del tuo corpo / è un grappolo di pendagli bianchi\ che cade / tutto in una volta / nella sorgente del tempo, ostruendo / gli sbocchi della conversione. / passi / nuda / tra linfa e corteccia / il tuo corpo il mio corpo / è sul fiore della notte sul neurocranio del bahamut”. La sorgente del tempo non travolge, petrarcamente, la donna verso l’oblio, anzi attesta la sua corporeità e fusione, dando vita all’alterità. La risposta è la seguente: “sono la feritoia e l’ultima cosa / della notte, sono il soffio iniziale / dalla bocca di un demone / solare, ipersensibile / come una molecola, sono un bianco organismo / infinitesimale e il mio passare / sotto la nudità della corteccia / diventa il canto delle capre e dei boschi”.
Attraverso la celebrazione della rosa dell’animale si celebra nella fusione il creato, i poeti fondano un cantico laico e privato, che si apre all’universalità e che coinvolge il mondo minerale e vegetale: ortiche, ruta, gladioli, e ancor di più quello animale: cerve, api, capre, mule (tutto un cosmo femminile) e si estende all’intero universo con le galassie alle origini del Tutto: “Mi presento a te come a una nascita”, afferma Maria Grazia, durante un’alba che restituisce la perdita e la gioia, la gioia innestata nel dolore della separazione. “Sul labbro dell’alba”, risponde Amarji.
Alla fine resta l’inno, il canto con cui si trasforma “il sangue della specie”. E tutto può ricominciare.
[...] Davanti ai dattiloscritti che mi sono stati sottoposti ho provato l’imbarazzo che si prova a sorprendere involontariamente qualcuno in una sua posa intima. Qui, pareva di spiare una poetessa davanti a una sua materia verbale disarginata. Nemmeno in una bozza di laboratorio, bensì nell’out-of-order, nella irresponsabile disorganizzazione di una materia umana sottoposta a certe micidiali scosse elettriche. La vigilanza di Merini sulle proprie parole, normalmente già scarsa, qui risulta completamente in disuso: la poetessa è preda di una lingua più che mai dilaniata e oscura, ma, nello stesso tempo, questa cattiva riuscita poetica ci consegna in regalo un’evidenza: l’imperversare della follia e le relative cure fanno di lei una triste paranoica, le cure le disvelano l’angusto reale che ella non sopporta e dal quale era sempre fuggita grazie alla candela accesa in permanenza nella sua anima che aveva nome Poesia. Poesia di luce e trasfigurazione, parola-verbo di rinnovamento e di benedizione: dove il suo grido era sempre altissimo e teso in una pure disperata forma di speranza, gli elettrochoc le schiacciano la testa sulla superficie polverosa e fredda delle cose.
Ne rimane dunque il prezioso documento di un’evidenza: la “follia” poetica, il mal della parola, è di qualità radicalmente opposta a quella clinica, la quale è cinica, depauperata, angosciata. Sotto la pressa farmacologica le anime sanno di vuoto, sanno di calma chimica e di oppressione. La gestione psichiatrica era una sottile e ferocissima dittatura perché privava addirittura i corpi del rispetto dovuto: nei reparti vegetavano creature dissanguate da uno spreco mortale, prive di libertà, si spostavano grumi di materia distonica e stonata, caduta nella propria solitudine, nella infezione di una solitudine senza rimedio, dove invece la poesia ficca letteralmente le piume nelle clavicole dei poeti, mette in loro una libertà essenziale e l’intensissima qualità morale del prendere la parola a nome del coro umano.
L’internato psichiatrico è solo come il più solo degli uomini. Il poeta prende la parola in vece dell’intera umanità. Questa la differenza. Questa la qualità della gioia senza rimedio dei poeti. Questa la forse involontaria denuncia politica della parolacorpo Alda Merini.
[...]
chronica IV poi sui navigli si aggirano certi politicanti da strapazzo che diffamano le donne per nascondere un’interna avarizia del cuore – e tutti gli invisibili tradimenti mio marito affermava sovente che si tratta di cialtroni, gentaglia che colonizza la mente degli altri con ciarlatanerie, come chi senta urgenza di defecare sugli appezzamenti del possidente e gli eriga sugli orti il suo monumento di sterco come un Evangelo che condanna il ricco epulone ma dell’epulone abbia tutta la veste morale, tutta la crapula, ma lo schiaccerebbe volentieri perché come lui non è comunista; e poi questi ce l’hanno con la chiesa perché la chiesa è ricca e promuove la castità come ideale del genio. ne consegue che mettere in dubbio la castità significhi mandare al diavolo l’intelligenza nemica
chronica IX e poi ci sono anime irraggiungibili, scempie e scomposte, che si rifanno al giudizio di altri, poi che non si fidano dei propri baiocchi, come direbbe Pinocchio, quell’esterrefatto aggeggio della memoria di nome Pinocchio, il quale rappresenta un divenire altro nelle mani di altri. ma alcuni hanno mani che fabbricano e versano i veleni di un potere saltuario in un tremendo desiderio di continuare
chronica XI grazie a quelli che hanno creduto alla mia versione e ai ricordi dell’ormai povera mente di questa donna, grazie perché mi hanno salvato per lo meno la vita, ma non sono stati tanto generosi da lasciarmi gli amori, che mi avrebbero consolata e mi avrebbero fatto compagnia. giuliano, che è ridotto a un omuncolo di paglia, adesso gira intorno alle ragazzine come un vile lupo di tane private che esibisce i suoi spasimi amorosi tal quali capretti infissi a una parete. io dico: certo che mi fa pena, ma non so perdonarlo, perché colui che semina dolore non può e non deve uscirne che zoppo e dolorante, perché guai se in una donna o in un uomo l’uomo non riconosce un simile, il proprio stesso fratello