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Pubblicato Venerdì, 24 Agosto 2012 13:24
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L’AMANTE EFFIMERO (definizione asiatica del vento) I Lei carezzava gli alberi del posto come si posa una mano sulla fronte, per dare conforto alla propria vita non vegetale, o ai moti capillari nella carie del legno, assopito e volubile come lei sottilmente malata, o in procinto di piegare in sentimento come un abito smesso, o come l’ultima abitudine impressa nella terra, che spiega l’ossessa durevolezza delle sue cime, una maglia di luce sventata nelle siepi in corsa nel maggio insonnato dall’alba, di un mattino fra i più primaverili lanciatori d’inezie detto patria, per una millimetrica contraddizione dell’animo già quasi commosso. O intese ella ricollegare per i rami la terra ai suoi angeli mietuti dalla notte, dal dio, dalla benevolenza semplice dei posteri, da noi. Casa, le si portava presto alla bocca, con una profondità propria, con un intero paesaggio di insenature decimali. Troppo splendore, e umido bene, e desiderio di benedizione, all’interno del corpo, che si deve dunque ricostruire su volontari esili, tegole e peso d’ombra estiva sfumante dalle soglie ove respira e spasima. Ultimo, le si chiuse il recinto del giudizio, che indovina in ogni primavera una primavera grave, male amata, e si assottiglia per assomigliarle come un amante. Gli amanti, disse, si sfiorano sotto le mani le notti bianche, sanno d’estate ai bordi del canneto rumoreggiato con una fosforescente irrequietudine da insetti. La vita è sempre un passo avanti a loro, col suo piccolo peso di paglia nel becco. Quelli che uno per l’altra saranno l’ultimo, calcano dignità senza diritti, una materia colma d’affetto come un coagulo di puerizia, sono pallide erbe di disgelo, non fabricanti che meridiane di dolcezza nei viali, un pacifico ostello del temperamento futuro del mondo, pigolanti cornici di presentimento sulla muta del corpo bifronte, della città. Poco vestiti, li sciolse a riva splendidamente la notte, col suo fiammante impeto di contenere, e di giustificare col suo alto avventure erranti e dolose, e le domenicali, smemorate in un voltarsi di capo, al primo intollerabile passaggio dell’amore che come vento nelle mani colme tiene l’acqua del pianto, nella sgranatura dell’etere sotto la tour, dove lei è sempre in punto di svanire. Ora il mondo, passando nell’imago di lui che se lo porta in petto con la sua cova di sconsolati oggetti, si fa astratto e vicino come la legge morale di un essereinciso, nell’oro dei portavoce, lì, dove essi sono, all’orlo del comune. Declama egli la propria paternità, vegliando e nutrendo lei che imita il pianto dei figli nel limbo augusto del nido. II Lo snervamento del bosco, la sua sfatante colmità conserta verso i piumati sedimenti del suo ingegno canoro, dello sfarzo svettante di quel basso continuo, d’organi assisi in miniature di luce solitaria, o elusiva, fino nell’ovattarsi abbandonato di un ruscello, preme, e circonda, l’agile germogliare di grazia, nelle persone dove l’amore è un solitario pretesto per l’amore. Certamente più a lungo il corpo si coordina per dimenticare, e conservare intatto il suo tesoro, di emule ferite. III Siamo in piedi in quest’anima timida e grande, da vincitori ansiosi, altrimenti colpevoli per la felicità che offriamo al ladrocinio temuto, di continuo tastandoci le tasche, per far discendere molta lenitiva concezione di destino sulle nostre figure apertamente avventate in giorni che lasciano lievi tracce d’aria nei solchi d’erba ubbidiente a una laica e gentile primavera di alati avamposti, e paglia alta, di ricrollo d’acque balzanti, e di cascine gonfie di sole, pennellato sui curvi sambuchi aromatici, alle finestre. L’acqua è in tutta l’alba traslucente, una profonda città-chiesa-di-morti dove spariamo nel soffio che decide il passo madido del bordone sommerso dei loro, e la cosa si ripete, dunque finisce nella pietà, stavolta è semplice memoria, di un compagno innocente, di animali imprevisti e mattutini oltre la chiara ellissi d’alberi, e bianco riso dell’oltrefrontiera sul tuo viso mancato dall’estate, o mio, nel cui traguardo d’alga, e di ciaramella garrula, l’involontaria economia giornaliera della smemoratezza, pure bisogna che ascendendo cada. Azzurro e pieno di calce è infatti il viandante, il decaduto dalle cose, colui che sta in esse solo come un richiamo, e si dà a esse come il destino umano, cagionevole, delle altitudini con il loro essere nel proprio miracolo segretamente. Dunque l’amore, per le proprie strade pure si ridesta, e allora tutta la creatura ricorda il proprio tersore, il pensiero assordante della casualità del tempo in cui non ci incontrammo, né restammo aggrappati nei nostri occhi aperti, da ragazzi fuganti l’acerbo sottobosco di orti predati, quando gemeva intorno l’arsa vigna del vento, fin che acquisissimo l’ozio cieco e sereno dei nativi credenti, fin che potessimo giungere in quest’ora distesa di veggenti, migrati nei pomeriggi interi di fruttuosa, abbagliante riconoscenza, reciproca fra i sonanti volumi delle cose mature, nella profilata cantica dei pendii verdissimi sotto le nostre anime ora innocue, canore anch’esse, conformi alfine gioiosamente al peccato superfluo, necessario alla levità sola dei percossi steccati dalle risse del buon umore, in cui tutta la terra celestiale è indaffarata. E di lei ora infissa nello spazio sull’asse del vociare solidamente vasto del presente, nelle verdeboschiva declinazione d’acqua pescosa, nulla può essere disfatto senza dolore, non sapendo nessuno, non sapendolo prima, quanto dentro e nell’orbita di noi felicemente cadano le cose amate, nei luoghi dove battere le ali sarebbe stato silente, esile persino. Per questo si apre l’animo quasi subito, alla disobbedienza. IV Nel giardino d’inverno, oltre l’elementare edificio, la natura affrontava spensierata il suo piccolo parco, s’impalcava sull’immatura infiorata dei vicoli dei padiglioni, lungo il canto impietoso della realtà seminante e splendente salvia, nella rete solare di un disuso, rampicava sbocciante, promuoveva rugginose ringhiere nell’aperto, dove l’atomica pressione del vento sulle pareti dei prefabbricati era il testo echeggiante di un dio dimenticato fra i cespugli, come la bambola distratta dalla corrente dalle mani incompiute di una bambina che subitaneamente riaffluì dal rapimento a sé finitamente nota in forma d’acqua perpetua di malinconia e amore. La copertura o l’abbellimento, della sua specie spirituale spaventosa e languida, consisteva nell’estroversa insistenza del sole intorno doloroso e dolce, come nei doni usati di un amore che si fosse interrotto, un poco prima di una ubicazione afona in ciò che le era accanto, e già moriva, restava profondo e lieve, senza libertà, sterile ovvero puro, completamente infecondo. V I fiori aperti delle vostre anime affidate a corpi esili, dolci come steli, e poi lo squillo querulo e madido di un garrito calante all’inseguire il sole, o pure fu il collasso di un monte d’occhi appena accennanti a mirare l’archivio provvisorio della terra nel giudizio dei cani che fugano il presente dal fragoroso odore di fascina matura frugando la catasta dell’afosa foresta di bel tempo, o il dividersi in volo degli eroi del buon pianto nel buio, vostro afono custode mosso da amori di creature piccole, prive come angeli di relatività, a rivelare voi del mare poco fondo, di cortile, con l’abbracciante evoluzione stanca del vento scolastico sulla fascia dei campi stretta al sole estremo e ai cancelli, ritrosa nella menta come una vergine, in quel recinto suo mercanteggiare, con la mente impressa sugli infissi quaderni di una notte pietosa e terrena, che appena abbia incominciato a temersi, se quasi s’offende alla crescenza lunare del corpo, e tutta in sé, a se stessa inassaggiata, risalga, più inquietata nell’alto lume dell’occhio seme e epistolario, così tutto il riflettere del capo su pensieri solitamente chiari, scompartimenti vibrati tra il gioco e il poco allegro compitare, ora si aggrappa, nel deragliamento di leggerezza, alle impressioni familiari del giorno che lascia sé nel dubbio d’esistere fra i muri, altalenando nell’ora ultima tra foglie in luce, e subito è con esso inspirata, premuta agli angoli, succhiata via con l’edera che lisciamente vira in una calma carezza versante nell’ovest e si sostenta sulla libecciata che ai capelli vi sale sottilmente, risollevata a ciuffi, escursionale, completamente avventurata in voi dai piedi salsi del mondo come un poscritto augurio di vacanza, o forse è stata solo la campanella, la stessa ronzante ortografia del tempo che vi sugge, strugge anche voi talmente nuovi, col suo peccato, l’ape puntuale dell’intelligenza recante in ogni sera quest’attimo fecondo che non piega nel caso, nell’odore asessuato e sereno dei sigilli, o la meccanica fragilità del corpo già non è più che un vostro breve turno di dolore quasi incosciente, nella continua beatitudine di crescervi invece al riparo, come in questo conforto di sentirvi premere. Del buio i puri ascendono l’intelletto, la corrente chiara, lo sfrangiato sovvolo che ne è il volto affacciato sul risveglio.
nota critica di Alberto Bertoni


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Pubblicato Venerdì, 24 Agosto 2012 13:10
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I. ILLUSTRAZIONI Quando qualcuno parla, fa più chiaro (Sigmund Freud, "Introduzione allo studio della psicoanalisi") Nel viale fra i campi si solleva il brusìo di un liberato movimento di attesa, scendendo verso l'argine ai ventosi mancamenti del suolo il gruppo dei dispersi osservatori. Sulle pietraie fluviali inturbinate involtolano argilla le correnti.
Promemoria Poi che si mette il refolo marino fra le sparse muraglie salgono con la guazza estiva sùbite voci dal delta: sostano in terramare contemplanti gli ultimi nuotatori la riposta deriva di chi fra gli argini ha estinto la terra. * Fra le canne si risentono gli echi delle acque costiere e il dondolìo del pino mediatore che inclinava a occidente: cambiava il tempo ogni sera in quel farsi delle vele più basse e noi, le sopraggiunte, con le spalle alla terra ci disponiamo a sciogliere gli ormeggi. * Tacciono le due rive affollate di voci lungamente chiamanti nell'estate marittima: l'apparenza del sole ventilando s'involta nel canneto dove le ombre dei traghettatori sostano astrali sul margine narrante non altro suono che un cantilenante specchiamento di luminosità.
Gli angeli
Per un tratto involuta fra le storte rotte forme del bosco la freddezza dell'acqua si arrovella sul tuo piede influviato. Giorni che non si spostano dal centro di uno zefiro lento, poi che azzurra galleggia degli aquiloni l'ombra in volo sul muro del giardino dove vanno apparenze prese da incantamento a trasognare.
II. SOPRALLUOGHI Mal d'Africa
Immobile sottovento, qualcuno che sia sopravvenuto a salutarti in misura di un cenno della testa minimo e che quel cenno fosse poi il pretesto del raggiungere figure morte nei tuoi sonni ancora pieni di africa - poiché tu eri un'anima innocente , lui si è fatto vedere - e in quel punto che era mancamento carnale fra gli sterpi, fra i molti per il sole involuti in fioriture complesse.
Preludio
La serata s'involve verso un punto di bianco e noi sediamo inerti senza indagare. Certamente gli sguardi non si danno la pena di eclissare, seguono le partenze con il riverbero dei sopravvissuti. Lei veniva - parlando un'altra lingua meridiana - ci diceva dell'argine, della villa fiorita e dei limoni nati fra le macerie. * Lo incontravamo nella primavera: ci porgeva un saluto frettoloso, come di incamminato, di partente che s'imbatta nell'ubbia del congedo e con gli occhi rimarchi certi punti lontani già caduti in rimpianto. L'ora che approfondisce le scomparse ci induceva al silenzio, sebbene nulla fosse ancora sottratto dalla campagna e noi ci preparassimo a tornare, discorrendo dell'acqua e dei suoi piccoli intervalli di quiete.
Sopralluoghi (L'umana reticenza)
La prima sponda fu raggiunta dalle navi venute da Nord: dall'entroterra i campi confondevano l'occhio abituato all'equidistanza del mare - sopravvento pronunciamo parole che subito dimentichiamo: dicono che la terra sia il racconto di luoghi parzialmente conosciuti e nel racconto lungamente si torce la materia che non ho contemplato - Uscite sottobordo, le figure rivolte verso l'acqua fanno luce sui lunghi involontari vuoti del cieli umani.
Prefigurazioni
Fra le rocce cadute camminiamo in continuo sollievo e abbandoniamo i luoghi delle opere lente, predisposti a tacere le ragioni della nostra scomparsa - le parole, col dirle, ci hanno mutato in niente: ombre di naviganti lungo l'ombra del fiume da decifrare - ma sull'ombra permane la figura della terra e del mare.
III Nel varcare le soglie si risente l'impronta di altri ingressi e di altri ancora che avverranno ritorni in questo largo nell'astratto silenzio della fine di un viaggio. * Lo sterposo e solare pomeriggio dei giochi era disfatto dal sudore di un magro apparato minore ma il tramonto soleva invorticargli certe ombre di foglie sufficiente una notte per rivoltarle in mente come frasi piene di sottintesi.
I La mano che percorre la materia sta specchiando, poiché fra essa e il mondo non c'è un solo elemento da levare o da aggiungere: si tratta di un incognito sciogliersi per restare e fidare, lentamente sentire che si perde una mano, un dito, un nonnulla nella terra, fra cose che contemplano se stesse e uno sguardo che indaga, dall'esterno, la stasi.
II Il mondo ha un peso per provare il senso della sua rotazione in qualunque misura, poiché ovunque le ombre a volte si spalancano in eccessi di visibilità, ed allora tradiscono il profondo muoversi della materia, che ha il rumore di un cosmo riducibile alla indivisibilità della grazia stellare.
Adriatico
Sulla nuda riviera fra gli insabbiati sterpi il sole dà un bagliore di frontiera e un più vivo raggiare dei fruscianti sempreverdi sul mare. In piena luce naviga la costa fra strida di gabbiani ubiquamente volanti sugli avvicendamenti delle rotte frequentate da passeggeri sguardi di commiato che dai ponti vivamente salutano, clandestini mirando l'orizzonte. (1993)
nota di Maria Luisa Spaziani


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