RecensioniBaldi Massimo, Dopoguerra delle vertebre (2.1.09)
Massimo Baldi, Dopoguerra delle vertebre (I Quaderni del Battello Ebbro, 2008) Noi in piedi rispetto alle rovine Con il titolo Dopoguerra delle vertebre Massimo Baldi sceglie di cominciare a parlarci disarcionandoci subito dalla sella del senso comune e sceglie di prendere il suo primo fiato dalla grande carcassa spolpata del passato che da un certo punto campeggia nel libro con il suo portato di mistero, maceria e numerazione: una conta che cerca di elencare, ordinare, porre una ragionevolezza matematica sopra il silenzio e sopra le rovine. Qualche cosa è già avvenuto, mentre noi ancora non eravamo qui, in questo libro-mondo, forse tutto. Entriamo. Immediatamente incontriamo tre padri nella parola: Carifi, al quale il libro è dedicato, Benjamin con la sua sferzata antifascista e Celan con il suo disperato anelito a essere, pronunciato forse a nome dei suoi consimili braccati e forse a nome della specie umana: da parte dei non ancora nati al bene, da parte dei ridotti al silenzio per efferata mano umana. Lo sguardo dell’autore Baldi si avvicina e si allontana di continuo da un plurale che pare contenere uno strano genere disumano [Rallentano il passo / hanno rose bianche nelle mani / hanno volti illuminati], allarga il campo su una folla nebulosa che sta sotto uno zenith e lo stringe in zoomate improvvise sui dettagli di un corpo e di una stanza – ma visti con lo sguardo di un non-simile, di uno straniero, quasi in una conversione lirica e cristologica delle utopie di immortalità di Blade Runner [Ho visto gli umani convertirsi in cose / la donna stava stretta in un’insenatura della stanza / l’uomo, ugualmente stretto, nell’altra / il soffitto squarciato da una larga venatura; / il vino depositato si tramutò in sangue / il pane in corpo / il legno in calcinacci sgretolati / l’uomo e la donna in ceneri distanti / ho visto gli umani convertirsi in cose / le cose in selvaggina da sacrificio]. In queste parole c’è uno sguardo esule, androide, “umanoide”, come dice lo stesso Baldi a proposito di un crepuscolo, c’è una malinconia di esseri che osservano la specie e lo sguardo dell’autore, tranne alcune accensioni sui dettagli che dichiarano lampi di esistenza, sembra appartenere a questo genere di creatura vitrea e lontana. L’ “armistizio” che avanzando vediamo apparire è l’amore, sebbene disamato, con la sua esperienza di perfezione e senso dato al mondo [Da lì in poi tutto è stato pienamente se stesso, / tutto portava il suo corpo / come una veste di lino], con i nomi femminili di un organismo pur destinato a sparire e alcune illuminanti parole pronunciate in “settembre”: “Io credo che le anime siano / occhi, e gli occhi / oggetti di uno sguardo immane”. Ora, entrati nella “foresta nera”, troviamo un io su semina e maceria – e “nutria” si nomina infine qui il poeta, nutria con anima primigenia “di ingorghi, ingranaggi, periferie domenicali”. Anche qui tutto è senza Dio (il sacro, se c’è, sta nella compassione dell’effimero), anche qui tutto è solo e mortale, tutto è postumo, anatomico e industriale, siamo nella archeologia semiviva della parola che nell’anima riscontra la meccanica e la matassa di valvole di uno stabilimento postpostmoderno nel vuoto urbano: tutto anche qui sospeso, “domenicale”. Siamo sempre un passo dopo l’umano – un passo dopo il linguaggio convenuto. Abbiamo appreso molte lezioni per arrivare a parlare questa lingua esattissima, lezioni offerte (dalla poesia che ci ha preceduti) e inferte (senza che lo volessimo, dalla storia, che assumiamo come se fosse un valore nostro). In questo libro c’è una profonda adesione al dolore degli altri e le parole, che hanno attraversato tanta distanza, si accostano perché fra loro c’è una contrazione, una sorta di attrazione materiale – ma il tessuto semantico resta all’apparenza coerente, ovvero c’è un universo precostituito che come dentro un sogno ancora regge, le leggi che comunemente sostengono la frase vengono mantenute: così, sembra che tutto stia in piedi su un tessuto comune di erba (metaforica) ma in realtà non c’è terra dove tornare a posare, siamo immersi in una navigazione incessante, ovvero: siamo in moto tra provvisori ormeggi come piccole orbite dotate di autonomia e intelligenza. Il libro usa a piene mani del suo lettore come strumento di senso e come bussola, così come faceva Celan, che volta continuamente a sé la faccia del lettore per scrutarne l’anima e molto raramente lo lascia riposare nelle carezze liriche che vorrebbe ricevere anche l’amante più abituato ai viaggi intergalattici che si fanno scindendo le molecole della lingua. Questo libro infatti è densissimo al pari di una stella collassata, le parole rimaste erano separate da vuoti e traiettorie ora implosi e alcuni nodi rimangono a stillare la loro luce nera: due tra le parole-chiave del libro sono semina e divisione con tutti i suoi sinonimi. La figura, il sorriso, il cranio, l’universo, fin dall’inizio del libro si presentano divisi e l’io è quello di un mezzo uomo che trova ogni tanto pace e spiegazione – se non proprio unità – in alcuni ponti celaniani, dove la spaccatura sembra diventare il solco dell’aratura che aspetta la semina. Bene dunque suggerisce Mecacci nella sua bella postfazione: Celan è la guida magistrale di Baldi nel mondo della poesia e, pare, nel mondo “vero” che, come abbiamo detto, gode di una sua cerea qualità onirica: Celan è onnipresente, negli interstizi tra le parole e nei luoghi fisici che vengono visitati (la sua tomba, primo fra tutti a comparire, dove il poeta vivo con mani vive è accomunato al respiro avaro del morto dalla benedizione e dalla pietra). È la parola del poeta a guidarci nel mondo e a illuminarlo. E la poesia dice che siamo tutti, a ben vedere, in un “armistizio”, in una “tregua”, per usare la parola intuita da Antonella Anedda nelle sue notti di pace apparente. Le vertebre sono allora la struttura linguistica di un essere umano, la colonna che lo tiene eretto rispetto alla rovina. E allora la foresta e le avversità sono del linguaggio che non spiega più il mondo né tanto meno lo rinnova stillante sulla pagina, la “foresta nera” è quella dei segni d’inchiostro e dei malinconici elenchi di caduti e superstiti (boschi, nomi) e nulla veramente più esiste, caduto come un albero che rovina in pace il codice elementare della comunicazione tra gli umani. Rimaniamo così sospesi alla fine del libro in una oscillazione acquatica sulla soglia-parola e aspettiamo che Baldi con il prossimo libro ci dica quale voce o quale nome siano emersi, se l’acqua-dopoguerra, livida e limacciosa e disabitata sia diventata o meno nel suo mondo di segni una pozza amniotica di senso, se la fratturata semina di sillabe sparsa per tutto questo libro assai bello sia confluita nella grande pace di un richiamo che è stato destinato dall’inizio dei tempi proprio a noi, se quell’unica nominata primavera abbia dato i suoi nomi, se la ruggine dei fucili e del marmo abbia iniziato a splendere e il canto sia diventato davvero e per sempre diga al non-senso, se quell’umano e quella vicinanza che si annunciano nell’ultima sezione per barbagli [Eppure c’era, non la vedesti, / la vita – quella nostra invisibile occasione] prenda corpo e sostanza o se almeno le cose che sono nulla e non sono dove sono vengono sostituite da qualcosa che non ci lasci con quest’amarezza di esuli a bagno nella splendida allucinazione mondana, perché qualcosa si capisce che ci salverà, qualcosa rimane aperto, qualcosa di vivo osa parole come la verità (trattino) il bene (trattino) il bello (trattino). Sono parole definitive, parole parlanti. La poesia a questo serve: a ridarci fiato nel momento esatto in cui ci rivela che stiamo soffocando. Baldi non ha paura di dirci che siamo soli e mortali, ma siamo tutti soli e mortali, dunque non siamo soli e non abbiamo nulla da nasconderci. Leggiamo ancora, dunque siamo vivi, non abbiamo nascosto le rovine. Aggiungi commento
Battaglini Raffaella (alfabeta2, 23.12.18)
Raffaella Battaglini, tre vite interrotte (alfabeta2, 23 dicembre 218 ) E io sono la freccia è abitato da un tema, svolto in tre exempla: tre donne, tre storie. In comune, c’è solo la fine. La prima è una poetessa dimidiata, a volte bionda e frizzante come uno spumantino giovane, a volte castana come la lana dei pullover: una figura poliedrica che rimanda alle tante persone raccolte sotto il nome Sylvia Plath. Raccolte e disperse nello stesso momento, come mostra la somma delle testimonianze, che non arrivano a comporre l’integrità di un essere, ma solo piccole parti, un prisma aneddotico, la cui superficie spesso riflette quasi soltanto il volto di chi narra. La seconda donna, Marina, paga con la vita la propria sfolgorante bellezza e la propria libertà sessuale. La sua opera d’arte pare essere la sua propria anarchia. E immancabilmente, a cose fatte, verrà pronunciata la frase che tutti aspettavamo: «quella povera ragazza se l’è proprio cercata». La terza donna è una riscrittura di Ingeborg Bachmann, spiata dallo sguardo timidissimo e innamorato di quello che, con orribile termine moderno, potremmo definire il suo stalker. Tre donne che vanno anzitempo a morire. E però non si tratta di vittime o di prigioniere, ma di figure-vita interrotte: la prima e la terza hanno già operato da vive un distacco, straziante ma autonomo, dalla vita, abitano da vive un altrove, creativo e insieme autodistruttivo. Le loro figure emettono radiazioni vitali – lacrime, rabbia, desiderio, sorrisi – alla fine ostruite: la prima e la terza per propria volontà (e così è davvero finita la vita di Plath e, ipoteticamente, anche quella di Bachmann), la figura centrale, per mano del più insospettabile dei colpevoli. Il racconto centrale segue l’iniziazione di due proustiane «fanciulle in fiore», con tutti i turbamenti, le gelosie, i sensi di colpa e le controversie che accompagnano le educazioni sentimentali. L’oscura e sorridente preadolescenza ricorda l’aerea ripresa sereniana di Proust, appuntata anch’essa da un posto di vacanza: «Tornerà il caldo. / Guizza frattanto uno stormo di nuove ragazze in fiore / lasciandosi dietro un motivo: / dolcetto con una punta di amaro / tra gli arenili e i moli ritorna, non smette mai, / come ogni cosa qui / si rigira si arrotola su sé». Pure in Battaglini il transito delle fanciulle è il provvisorio umano che si rinnova, nell’immutabile impassibilità della natura, che sempre si richiude sul nostro passaggio. Le grandi figure che si stagliano contro il fondale dei racconti alla fine vengono ridimensionate, non sono che polvere transitoria: «Eravamo immersi in uno scenario primordiale, circondati da elementi primitivi e purissimi, che esistevano fin dall’origine del mondo. Noi, lì sdraiati, eravamo transitori; non c’eravamo prima, e non ci saremmo stati poi, quando tutto fosse tornato deserto e indisturbato come all’inizio dei tempi». Non siamo insomma che accidenti, nella maestosa pace della natura. O delle rovine, perché questo pensiero che, pur appassionato, guarda dall’alto le nostre esistenze, è simile al filosofo che contempla un intero paesaggio di rovine, provvisoriamente vive. Ma in queste pagine lo stile è impastato a fondo con la forma e tira il lettore dalla parte dei vivi: la pregressa confidenza di Battaglini con la scrittura teatrale si manifesta negli affondi vivaci e composti, anche nella struttura, da scarti improvvisi e pieni di suspense. Battaglini simula il parlato e il fluire ininterrotto dei pensieri, la velocità e la frammentazione di discorsi diretti e indiretti. Nel primo racconto, in particolare, gli interventi dell’interlocutore non vengono registrati, viene offerto al lettore un monologo continuamente interrotto, dove lo spazio per l’intuizione di chi legge equivale a quella di chi ha scritto e la voce scrivente è la voce guida di un viaggio nei fatti che compongono una vita e dai quali si spera di poter dedurre la profondità della vita stessa, del femminile singolare che viene pronunciato, con tono chiaro e concreto, moraviano, sebbene del tutto privo dell’umor nero di Moravia. Battaglini è infatti un’innamorata del mondo e della vita, fa un uso pittorico delle parole per descrivere luce e odore del mondo, spesso s’incanta davanti alla bellezza (uno dei suoi personaggi lo confessa: «in realtà non stavo pensando a nulla, semplicemente m’incantavo a guardare le cose»), si tratti degli spigoli degli oggetti che si stagliano nella luce nettissima dell’inverno o del bronzeo provvisorio del tramonto: «la cucina è invasa da una luce rossastra, gli oggetti sopra il tavolo e la figura di Marianna si trasfigurano come in una pala d’altare, brillano dolcemente nel bagno d’oro brunito di quell’ultimo raggio», o del «nitore invernale» degli ospedali, «programmaticamente estraneo alla tiepida sera». Il generoso amore per la vita di Battaglini si esprime nell’amore per la lingua che dice la vita, forgiata in frasi come «l’estate si spalanca senza misericordia», che ricorda il cielo «senza scudo di nuvola» di Antonella Anedda, o «l’odore profondo della terra», con l’aggettivo così viscerale e concreto o, ancora, la descrizione della casa della pseudoPlath come «luogo separato dal mondo da cui si dominava la vita». Ma, del femminile che abita il libro, viene detto soprattutto in un passaggio a mio parere cruciale, quando Battaglini descrive la fatica della ricostruzione di sé, l’impegno a ritrovare il vuoto che arresti la tempesta, la frana, il disastro amoroso. Bisogna dunque farsi vuoto, per ritrovare «casa», come scrive anche Bachmann in A un passo da Gomorra: «No, soltanto dopo essersi buttata tutto dietro le spalle, dopo aver bruciato tutto dietro a sé, solo allora sarebbe potuta entrare nella sua propria casa. Sarebbe venuto il suo regno e quel giorno lei non sarebbe più stata misurabile, valutabile secondo un metro estraneo. Nel suo regno valeva un nuovo metro. Non sarebbe più stato lecito dire: Lei è così e così, attraente, poco attraente, ragionevole, irragionevole, fedele, infedele, onesta o senza scrupoli, riservata o spregiudicata. […] Aveva sempre detestato quel linguaggio, ogni marchio con cui era stata bollata e per mezzo del quale era stata costretta a bollare gli altri – un vero attentato alla verità». Il regno della verità, dunque, secondo Bachmann, prevede un abbandono radicale. E il primo personaggio di Battaglini sembra mettere in scena la lezione di Bachmann, in un sorprendente intreccio di trama letteraria, vita e nuova trama letteraria: una poetessa, dunque una donna che ha preso la parola, viene comunque «bollata» dalla visione altrui, riletta dall’altrui punto di vista. Sigillata nella sua febbre: più che mai inconoscibile, più che mai fraintesa. Infine, della pseudoPlath protagonista del primo racconto, Battaglini scrive: «non direi che sembrasse infelice – piuttosto, era come una stanza in cui avessero spento la luce». Più che dal vuoto della terra abbandonata (che, come abbiamo appena appreso, pare necessario), è dallo spegnimento, che deriva il futuro di queste tre donne, l’incombenza del buio sulle loro vite, portato dalla violenza altrui, ma anche autoindotto, voluto, in parte emancipato in un’arte, che non basta a salvare. È forse la stessa Plath a suggerire un possibile motivo, in Mirror, testo datato 23 ottobre 1961, nel quale lo specchio dice: «Ora sono un lago. Una donna si china su di me, / cercando nella mia distesa ciò che essa è veramente. / […] / Ogni mattina è sua la faccia che prende il posto del buio. / In me ha annegato una ragazza e in me una vecchia / sale verso di lei giorno dopo giorno come un pesce tremendo» Né Sylvia Plath né Ingeborg Bachmann si sono concesse di arrivare a consegnare allo specchio l’ipotetico mostro che sarebbero diventate. Entrambe gli hanno forse preferito il buio. E io sono la freccia, come tutti i libri potenti, apre una visibile e continua interrogazione sul presente: le due figure femminili creative sono avvinte a un risucchio autodistruttivo, sviluppato in entrambe da un’occasione amorosa, come se entrambe queste donne intelligentissime avessero deciso di delegare a una figura maschile quasi materna la tenuta della propria persona. Nessuna delle due è riuscita ad agire come la Donna sola in cammino di Blaga Dimitrova, che non ha «messo il piede su alcuno / come su un ponte o un trampolino». La terza donna, l’unica che viva gioiosamente la propria sessualità, viene punita. Fino a una spicciolata d’anni fa le poetesse (come Plath e Bachmann qui evocate, ma pensiamo, tra le nostre, ad Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, Nadia Campana), hanno spesso pagato con la vita la propria adesione incondizionata all’arte. E oggi? Limitiamoci all’Occidente, perché in altri paesi la poesia ha ancora una funzione sociale, dunque il piglio realista salva forse le autrici dai gorghi delle interiorità. Ma una donna occidentale, può ormai vivere la propria creatività e la propria sessualità in maniera libera, senza dover mettere nelle mani di un amante la compattezza della propria identità, o pagare la libertà con la vita o con l’autodistruzione? Possiamo infine considerare stabili alcune delle conquiste fatte dalle altre donne per noi, donne del loro futuro, o è necessario riconquistare – o almeno riconfermare – le posizioni a ogni tornata di generazione? La domanda è seria. Benedetti Mario, Pitture nere su carta (Poesia, 1.2008)
QUELLO CHE MI PRONUNCIA È IL NOME DI TUTTI
su Poesia, gennaio 2008 e Carmilla on line
http://www.carmillaonline.com/
Mario Benedetti, Pitture nere su carta, Mondadori, 2008
QUELLO CHE MI PRONUNCIA È IL NOME DI TUTTI Per essere poeti bisogna avere un eccezionale costrutto psichico, in primo luogo saper portare un immenso carico di dolore con assoluta levità – così, come se non fosse, mentre si scambiano informazioni sul parco-giochi che abbiamo in comune. E poi tradurre la ferita in una radiazione più decisiva del dolore, ovvero il chiaro della fratellanza. Bonnefoy Yves, intervista a (il Mattino, 28.10.11)
INTERVISTA A BONNEFOY, su Napoli
su il mattino, 28 ottobre 2011
MGC
I poeti vanno felici dietro le parole perché sanno che le parole hanno più intelligenza di loro nel fiutare la strada della conoscenza. Oggi sappiamo dalle neuroscienze che il cervello dei poeti è fatto diversamente da quello dei non poeti, che l’uso della parola poetica sviluppa diverse sinapsi, dunque possiamo azzardare, sostenuti da un certo rigore scientifico, che nella mente di un poeta la realtà del mondo è differente, diremmo più filosoficamente “essenziale”. Per esempio Zanzotto, ancora ragazzo, cercava tra i suoi boschi le voci degli immortali. Quando scompare un poeta che porta nel mondo una grandezza originaria e originale come quella di Zanzotto io credo soffra la respirazione globale. Forse lo spegnersi della sua mente sulla terra ha la stessa importanza del disseccamento di una foresta, perché la mente di ogni poeta opera quella sua speciale sintesi analogica, la fulminea congiunzione di parti del mondo che prima di lui erano sconnesse o inimmaginabili insieme. Il pianeta pensato da Zanzotto muore con l’uomo Zanzotto. Cosa si secca, cosa si disunisce nell’anima grande di Bonnefoy e nell’anima mundi con la scomparsa di Andrea Zanzotto? YB MGC YB MGC YB MGC YB MGC YB Bonnefoy Yves, intervista a (il manifesto, 3.9.11)
INTERVISTA A BONNEFOY, OVVERO: DELLA BELLEZZA ESTREMA E SUFFICIENTE
su il manifesto, 3 settembre 2011
1. La poesia, in bilico tra il mondo e il suo sogno metafisico, lancia codici e impulsi tra gli organi della persona scrivente e la cosa. Io leggo le sue parole come parti della commovente (e mai compiaciuta di sé) evidenza del mondo. Desidero dunque chiederle se lei scrive per provare la gioia di questa speciale grazia o per continuare a tentare di avvicinare la spigolosa inafferrabilità dell’oggetto. Ovvero, lei scrive felicemente riassorbito dal di dentro della cosa o provando la nostalgia dell’esule? La nostalgia dell’esule è un buon modo di definire il mio rapporto col mondo, almeno con le esperienze che la poesia non permette di trasfigurare. “Noi non siamo al mondo”, ha scritto Rimbaud. Hofmannsthal ha detto pressappoco la stessa cosa ne La lettera di Lord Chandos. Ed è vero: il “pensiero concettuale” si approssima solamente ad alcuni aspetti degli eventi e delle cose e produce rappresentazioni schematiche degli oggetti. Attraverso il “pensiero concettuale” noi risultiamo separati dalla realtà nella sua immediata totalità e separati anche da noi stessi, che siamo parte della piena realtà. Ecco cosa significa sentirsi in esilio. Ma la poesia è rifiutare questa condizione di esule, è cercare parole che non si lascino ridurre a concetti, che rendano la piena presenza degli esseri e delle cose nella nostra vita. 2. La sua poesia è piena di gratitudine e approvazione e meraviglia davanti allo spettacolo del mondo. La parola entra nella Genesi attraverso la bocca del serpente, nella domanda che egli rivolge a Eva. La sua parola contiene la tentazione di riformare un Eden dopo lo smacco della separazione, la tentazione di una conoscenza originaria e atemporale? In effetti le parole ci permettono di riprendere quota in questa piena realtà. Nel discorso ordinario si estinguono, poiché designano cose ridotte a idee, a quanto i filosofi antichi chiamavano “quiddità”. In poesia il ritmo, le allitterazioni, le assonanze, rendono alle parole la sonorità, priva di rapporti con i significati concettuali, e così le parole, che davano un’immagine del mondo astratta e parziale, sono ora libere di prestarsi ai nostri affetti e possono farsi nuovamente rappresentanti della cosa com’è al di là della sua rappresentazione. Le parole riformano allora attorno a noi e per noi – e per quelli che amiamo – un mondo di presenze che sarebbe la vita vera, come afferma ancora Rimbaud. La poesia rende alle parole la capacità sommersa di indicarci l’evidenza in ciò che è, fa apparire le cose come presenze (la loro ecceità). Le parole del serpente, che la poesia combatte, non sono le grandi parole semplici della poesia, ma i concetti, che, dopo la cacciata dall’Eden, sono strumenti di una conoscenza astratta e generica. 3. Lei ha dichiarato di scrivere come proseguendo un sogno notturno, lasciando intendere la scrittura poetica come una mera posizione di ascolto. Apprezzando profondamente la modestia della sua affermazione, desidero però chiederle di quanta cavità dell’anima, di quanta scomparsa del proprio io biografico e singolare un essere umano abbia bisogno per restare in ascolto della voce che gli “ditta dentro”. Infatti. Scrivere per me non è la messa in scena di un “io biografico”, che è espressione del nostro “io” di facciata, la nostra costruzione di noi stessi sul piano del “pensiero concettuale” e che si oppone all’ “Io”, alla voce profonda che non si accontenta di negare la finitudine. Scrivere è il rifiuto di un “io” aneddotico, fantasmatico, in favore di un ascolto dell’ “Io”, ed è anche ascolto della parte inconscia del nostro rapporto con noi stessi. L’io rigetta l’Io nell’inconscio, ma la poesia cerca un contatto con questo Io rimosso. Ciò può avvenire con naturalezza attraverso una attenzione al sogno. Intendo dire al sogno notturno, poiché la poesia diffida delle fantasticherie diurne, che sono spesso solo espressione dell’io, di desideri riorganizzati dal “pensiero concettuale”. La poesia non è l’immaginazione, ne è bensì l’esame severo, il giudice. 4. Quale granello di sabbia al fondo, che impurità forma la perla della sua parola, quale imperfezione del mondo la costringe a scrivere? Lei mi assimila a un’ostrica! È certo che la scrittura poetica, questa espansione delle nostre intuizioni più intime nel discorso stereotipato del gruppo sociale, è ossessionata dal ricordo di avvenimenti, spesso della nostra infanzia, che furono per noi degli chocs, perché ci rivelarono che “non siamo che vane forme della materia”, come dice Mallarmé. Ma, per stabilirsi durevolmente nella nostra memoria e nella nostra scrittura, non è necessario che questi avvenimenti siano stati drammatici. Uno dei miei “granelli di sabbia” è il ricordo di un albero che ho visto, da bambino, drizzarsi solitario sulla cima di una collina. 5. La poesia è una postura morale della persona-poeta? Assolutamente. La poesia ridà alla persona la propria qualità di essere, mentre il discorso della conoscenza tende a ridurla alla condizione di oggetto. Possiamo dunque considerare che la poesia ricerchi il bene e sia nostro dovere volgerci verso questo suo bene. La poesia ha un pensiero del bene e del male, ma il suo imperativo morale non ha niente a che vedere con le preoccupazioni e i principi della morale sociale tradizionale. 6. Quale ritiene sia il suo compito? Chi desidera raggiungere, toccare, perturbare o consolare con la sua opera? Perturbare sì, trasgredire le rappresentazioni alienanti, ma non consolare. Le poesie non sono fatte per distoglierci dal mondo, ma per prepararci all’azione. Ciò comporta che esse siano in rapporto con la politica, a patto però che la poesia non accetti parole d'ordine dalla politica. 7. Dopo il passaggio di un grande poeta la natura del mondo rimane la stessa o ne viene, impercettibilmente o radicalmente, modificata? Diciamo che la grande poesia non cambia la figura del mondo, ma vuole restituirle il bagliore originale, quello che aveva ai nostri occhi all’inizio, nell’infanzia. Questo bagliore si perde se la poesia non è lì a preservarlo. Pensi a Intimations of Immortality, il grande componimento di Wordsworth: “The things which I have seen I now can see no more” (“Le cose che ho visto ora non posso vederle più”). E pensi anche ai primi versi de La sera del dì di festa: “Dolce e chiara è la notte e senza vento”. I versi di Leopardi ristabiliscono l’evidenza che quelli di Wordsworth rimpiangono di avere perduta. 8. Lei è un grande amante ed esperto di arte. In particolare, è stato legato da amicizia ad Alberto Giacometti. Quali similitudini o quali forme di completamento reciproco sono nel mondo immaginato da un poeta e da un artista figurativo? Il problema dell’ “ut pictura poesis” è infinitamente complesso e non è possibile affrontarlo in così poco spazio. Diciamo che ci sono pittori che cercano di vedere le cose alla luce dell’evidenza originaria della quale abbiamo parlato: essi vedono il mondo oltre le figure con le quali il “pensiero concettuale” lo sostituisce. A prima vista le loro immagini non sembrano differire troppo dai risultati di una mimesis ordinaria, ma si viene presto investiti dalla luminosità misteriosa che essi percepiscono nelle profondità di tutto ciò che è. Queste opere sono un aiuto per i poeti e li incoraggiano a vedere, ma Giacometti è un’altra cosa: egli non desidera mostrarci la piena figura delle cose, come fa per esempio Vermeer de Delft, vuole invece riprodurre un avvenimento nel quale il modello si mette in piedi nel corpo per gridare che egli stesso è di più di quel corpo, che egli è qui e ora un essere mortale e nello stesso tempo assoluto. 9. In Le assi curve – che sono appunto le assi della barca di un gigantesco traghettatore lunare – lei scrive Per essere un padre, bisogna avere una casa. Poco più avanti scrive che bisogna dimenticare le parole. Al momento di passare dall’una all’altra sponda, quali sono le parole che ci trattengono più delle altre? Possiamo andarcene comunque in pace senza avere avuto da dimenticare le due parole umane originarie: “padre” e “madre”? Non posso commentare la mia opera “Les planches courbes”, perché non l’ho pensata, prima di scriverla, l’ho semplicemente scritta, lasciandomi spesso sorprendere da quello che il mio inconscio mi dettava. Certamente ho compreso molte cose mentre scrivevo, ma non tutte, e sono dunque poco armato davanti a questo testo. Sì, ho scritto bisogna dimenticare le parole. Ma perché? Ci rifletto… ma rifletterci è ancora dalla parte della scrittura, qualcosa che resta ancora da interpretare. 10. La nostalgia di Dio per la nostra vita, addirittura per il nostro corpo mortale, fa sì che Dio cada in particole e schegge nella vita di tutti. Il Cristo risorto di Rilke non era in pace alla destra del Padre perché avvertiva un richiamo terrestre, la lacuna straziante di sua madre. Con la morte di Maria egli torna appagato e il cielo si ricolma e si richiude. Il cielo di Yves Bonnefoy rimane invece condannato a uno strazio elementare. Secondo lei Dio forse si è incarnato, oltre che per salvarci, anche per guarire la sua vertigine di non essere “questa” materia? L’incarnazione secondo me spetta a noi, è un atto di adesione senza riserve alla nostra finitudine. È questo il nostro cielo. Non conosco trascendenza se non nelle profondità della cosa semplice, quando la percepiamo oltre la figura schematica che la conoscenza “concettuale” le attribuisce. Attraverso la poesia possiamo sperare, semplificare, chiarificare e approfondire il nostro essere in un mondo che sarebbe nostro se la nostra incarnazione fosse profonda: sarebbe la nuova terra, che potremmo dire “divina”. Dio è solamente l’ “oltre” di noi, una speranza che l’umanità non si è ancora dimostrata capace di realizzare. Non credo a un dio esistente al di fuori di noi. Il divino puro, il focolare di tutte le trascendenze è la parola. Non il linguaggio, sempre relativo e infermo, ma la nostra parola che lo rinnova. 11. Infine (purtroppo!), per citare un suo bellissimo saggio sull’Italia, L’entroterra, avviene che talvolta si sia immanenti al mondo come la luce delle proprie parole, che non si venga scacciati altrove dal proprio desiderio di conoscere, avviene che il sapere e la pace talvolta siano “semplici”, siano semplicemente tutt’uno? Nello stare al mondo del quale parlo, accessibile attraverso la totale accettazione della nostra finitudine, l’essere parlante sarebbe in una relazione d’immanenza con tutto ciò che è: tutto sarebbe luce, la conoscenza dell’esterno coinciderebbe con la conoscenza della interiorità… Ma dire questo è formulare un’utopia. La poesia in questo mondo è un’utopia; il luogo della sua realizzazione è in un avvenire che alleggerisca il peso sul nostro spirito di un “pensiero concettuale” che non cessa di produrre i suoi sistemi chiusi e le sue ideologie. Ma ecco, la poesia è l’utopia che ci dà il coraggio di vivere. Brodskij Iosif, appunti (Casa delle Letterature, 30.11.10)
appunti per un convegno su Iosif Brodskij
Il secondo testo è un capolavoro cristallino intorno al dono equivoco della poesia. Li abbiamo messi insieme a significare la pochezza nostra, anche dell’uomo poeta. Con la sua garbatissima ironia Brodskij disse che Ogni carriera letteraria inizia da una aspirazione alla santità. Nel processo della creazione risulta, molto spesso, che la vostra penna sia di gran lunga più dotata di talento della vostra anima. Naturalmente il se stesso poeta era il primo verso il quale egli rivolgeva la sua propria celia. Brodskij sperimentava che l’essere umano tende ad ampliarsi sempre più, che la spinta propulsiva che dapprima vorrebbe riportarlo alla casa, agli affetti – parliamo appunto propriamente di un esule – viene sempre di più sostituita da una sorta di squarcio cosmico nel petto, dalla mano slargatamente aperta del Rilke delle Elegie. Brodskij voleva farsi coincidere tutto con il tempo, spingere dapprima sopra i corpi dei suoi lettori una sorta di carro armato di parole e, più tardi nella vita, attrarre magneticamente senza alzare la voce i suoi lettori verso una apertura che non si può dire ma semplicemente manifestare con la musica che fanno i versi, suggestionarci come un pifferaio magico con la musica dello spalancamento. I versi, scriveva, non sono che il mezzo di trasporto della poesia. Trasporto verso una ampiezza di sguardo che – questa, perdonatemi, è la mia parola-ossessione – ci fa pieni di “compassione”. Mi permetto di usare di me perché lo stesso Brodskij, nel suo resoconto poetico del 1972, parlava della perdita come del principio di eguaglianza tra Dio e i mortali (ecco perché alla fine della descrizione degli impassibili oggetti parla la voce di Maria, la donna che si è fatta oggetto e terra calpestabile per il passo di Dio). Dunque Brodskij dilata il principio di uguaglianza tra la mortalità e il divino emblema della immortalità. In questo ordine di pensiero viene alla mente la grandissima Lispector, la sua non-storia di GH, donna-cosa presa dalla passione per la infernale neutralità del Dio che ha scovato, nello sgabuzzino di casa, dentro la morte ottusamente indifferente, infinitamente povera, di una blatta. In quella neutra inerzia naturale la GHdi Clarice Lispector trova Dio. E allora se uomini e cose sono uguali e se uomini e Dio sono uguali, spingiamoci fin qui: Dio è la cosa e la cosa è Dio. Tutti i grandi parlano di questa eguaglianza radicale, della equanimità dei viventi e dei non vivi (non più, non ancora vivi). Così anche Brodskij. L’arte ripete da millenni e nelle sue mille forme questa cosa divina: tu sei Dio e sei una cosa, sei talmente una cosa da possedere perfettamente e inesorabilmente la perfettissima inerzia di Dio, la mancanza di moto del motore primo. L’amor che move il sole e l’altre stelle di Dante: perfettamente immobile, perfettamente umano. i testi da NATURA MORTA, 1971 ("Anterem", traduzione di Elena Corsino) Verrà la morte e avrà i tuoi occhi Buffoni Franco, Jucci (CorSera, 2.6.15)
leggi su la27ora del CorSera (2.6.15) Mi piace aprire queste brevi note su Jucci di Franco Buffoni con una narrazione fuori testo, a sottolineare la sovrapposizione tra vita e poesia: durante la presentazione romana del suo libro, dedicato fin dal titolo all’amata Jucci, Franco Buffoni ha affermato: “non capii subito l’impatto di quell’incontro, era troppo: ho rilasciato gli effetti dell’amore di Jucci per tutti gli anni della mia vita futura". Questo libro è arrivato a dimostrarlo: l’amore di Jucci è durato tanto da diventare, dopo oltre quarant’anni: poesia, un bellissimo libro di poesia, questa cosa che dura oltre il tempo mortale di qualunque amante. Buffoni Franco, Guerra (www.alleo.it, 06)
BUFFONI, GUERRA
in “alleo.it – discovering contemporary cultures”, maggio 2006
http://www.alleo.it/
Franco Buffoni, Guerra, Mondadori 2005
La Guerra di Franco Buffoni si tiene sulla cresta di un monte imbrattato di sangue e dettagli del sangue, si tiene in alto dove stanno lo sguardo e la petrosità severissima della parola che attengono alla radice zoologica della res tremenda, della nostra cupa faccenda bellica fatta di carne impalcata a fatica cellula dopo cellula e mandata a morire. Da una parte e dall'altra di questi occhi veri e fissi, occhi che quasi non hanno palpebra per tanto che sono aperti, c'è una dura materia occidentale vista esplorata quasi toccata – ma con riserbo, l'ossessione intermittente dei corpi, pietra e terra ammalata da un estremo spargimento di un male che è vero, la prestoria e la storia ininterrotta della ferocia umana.
E pure in questo l'occhio del poeta coglie lampi di bellezza, una involontaria postura atletica, una fibbia che luccica, una lacca. Lo sguardo cade con la naturalezza di un frutto su istinti architettonici e corporali attraverso i quali passano gioia attenzione e normalità, passa il mondo com'è nei nostri occhi in pace e si forza l'effetto dell'orrore a contrasto.
Fino a che è in scena l'uomo la neutralità della descrizione condanna più del giudizio, si sente addosso quel sangue come mercanzia scorrere privo di direzione e senza che niente se non il moto discendente, la gravità assoluta della storia lo renda codice che si maneggia: siamo di fronte al sangue analfabeta di chi non sa perché muore. Il tepore di una pietà fisica balugina quando si parla delle bestie e si conferma al poeta che ci sta accompagnando nell'insonnia della visione continua la naturalità biologica dello scempio che è stato fin qui descritto nella sua forma di scienza dell'assassinio e dei traffici. In ogni sezione di questo libro bianchissimo ogni parola è vista che diventa segno e si trasmette, viene sollevata da un calderone dove fonde la storia ma non tutte le parole a disposizione di un poeta vengono usate così che si senta sotto la trasparenza il bollore a vivo della cronaca e si lasci non detto, dunque non sublimato, non mitigato, il dolore del "troppo brutto": qui il bianco fermissimo, l'incisione del verbo sul candore, è il risultato della estrema mescolanza di affetto, ideale e realtà. Siamo davanti a un uomo, questo è un uomo – che scrivendo diventa il proprio padre in guerra e che tramite il padre assume su di sé ogni guerra del mondo, è il fenomeno della natura per cui un uomo attraverso un affetto diventa un altro uomo e infine tutti i simili, è il fenomeno esatto della poesia. E' questo ricordare al posto di un altro che permette di essere così sfrontato ed essenziale, necessario e tremendo come un grido etico spietatamente affilato che raggiunge anche le imperdonabili caste che in terra hanno rappresentato Dio con larghe macchie di omicidio e hanno manomesso la fiducia nelle sue leggi sulla compensazione delle vittime alla fine dei tempi, tema sul quale amaramente insiste la lingua poetica di Franco Buffoni, qui che batte per tutti sul dolore e la mancanza di tutti. Altri articoli...
|
Cerca nel sito
|