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Riviste e quotidiani nazionali
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Pubblicato Mercoledì, 07 Febbraio 2018 06:31
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Pubblicato Domenica, 03 Dicembre 2017 07:33
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anticipazione de Il bene morale
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Pubblicato Lunedì, 03 Ottobre 2016 05:39
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in "Poesia" n. 319 - CANTI PER I SENZA PATRIA
queste mani tenevano la loro creatura sopra l’indifferenziato del mare Secondo il più recente rilevamento sugli arrivi via mare in Europa, reso noto dall'Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), il numero di rifugiati e migranti che, dall'inizio del 2016, ha attraversato il Mar Mediterraneo per sbarcare in Europa ha ormai raggiunto quota 288.005. Tra questi, 121.155 sono arrivati in Italia e circa 164.146 in Grecia. Il numero di morti e dispersi in mare è stimato in 3.171. I dati sono aggiornati al 4 settembre 2016. Un poeta è profondamente coinvolto con le cose del mondo. Il suo compito è mantenere la memoria della comunità umana. Il suo compito è ricordare la grandezza possibile della nostra persona. "Quando entrano in gioco le pulsioni di auto-conservazione dell'io, il principio del piacere viene sostituito dal principio della realtà. Quest'ultimo […] mette in atto la temporanea sopportazione del dispiacere, come tappa nel lungo e contorto cammino verso il piacere." (Freud) Il temporaneo dispiacere è vedere le cose come stanno, cioè che siamo creature sofferenti, crudeli e sole in misura variabile. Il massimo piacere, l’utopia del piacere, è la circolazione fluida dell’amore umano. Per ciò abbiamo inventato il paradiso. Dato l’assunto che il poeta conservi in sé la memoria e lo slancio sufficienti per risuscitare anche negli animi più disillusi e oppressi il desiderio e il coraggio di sperare in una “comunità umana”, possiamo dire che la poesia risusciti l’utopia del piacere. E che, per ciò, sia la spina nel fianco, che ci ricorda come vorremmo che le cose fossero. Oltre il più quotidiano disincanto. Per ciò viene pensata tanto distante dalla faccenda umana: guardata con sospetto e rifiutata, perché riguarda il nostro sogno più alto e troppo pericolosamente amato, è il “seme fecondo e disperato” di De Angelis, incarna la nostra paura di illuderci come bambini. Per fortuna i poeti sono vivi, abitualmente adulti, e fanno le cose. Questa excusatio non petita mi pare una premessa doverosa, che, mentre cerca di oltrepassarlo, documenta l’imbarazzo di chi scrive, di fronte ai risultati della crudeltà umana. Provo molto imbarazzo a fare poesia su tutte queste creature prese dal mare per colpa della parte peggiore dell’umanità, che è quella che osservo e ripudio. In primo luogo, dentro me stessa, quando la rintraccio: nella mia paura, nella mia volontà di prevalere, ma soprattutto nella mia indifferenza. E allora, mi domando: dalle sponde di questo morto occidente, sotto la più leggibile paura, sale forse un rancore nostro, nei confronti di chi coltiva un sogno? davanti al mare è questo orfanotrofio senza utopia, la forza armata di questa inespugnabile infelicità che non ha più nessuno da aspettare e invidia la vita siamo noi gli ignavi, abbiamo vite armate per non riconoscere la nostra paura nella paura degli altri, il nostro respiro nel respiro degli altri – il singolo respiro nella massa di quel respiro umano che si gonfia e non basta a fermare l’ondata immagina che sia tua la vita che chiede asilo immaginiamo che sia nostra la disperata utopia di questo gigantesco voler rinascere immaginiamo siano i nostri corpi questi corpi lasciati a cadere nell’indifferenziato come orfani l’assoluto abbandono della nascita di un orfano è senz’altro paragonabile all’abbandono nel quale è gettata ognuna di queste vite che chiede di rinascere quando sono i figli a morire, non esiste nemmeno la parola per dirlo. anche la liturgia, in quei rari, emblematici casi, si avvale di perifrasi : O Maria cum filio tuo mortuo… biancore sovraumano di legno morto – figlio mio fatto di carne umana combustibile, marcescibile figlio mio nel bruciare del sale, riconosco il tuo odore di selva e di laboratorio solare, quel profumo sensibile di pelle fresca e cotone lavato – poi per un attimo, riconosco lo sguardo dei tuoi occhi che ho portato con me, in questa vita che non arriva più Roma, 24 giugno 2016
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Pubblicato Domenica, 18 Giugno 2017 06:40
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da Lo stupore di cui eravamo fatti dieci frammenti sull’evoluzione 1. verbo originariamente la parola aiutò una delle diverse specie preumane a formare piccole società e a orientarsi nel mondo: fu un gesto di compassione che agiva sulla biologia fissando nella laringe di una specie due bianche pliche vocali originariamente la parola fu un gesto morale della biologia nel punto dove la scimmia si è staccata dall’albero non c’è sangue né dolore ma l’impronta morale di una parola 2. elevazione vedo una prevalenza di grano e gioia e un commosso desiderio di vivere nella carne che pascola tra grandi rettili al fondo del cratere o sta a galla sui posatoi del cielo con veli di calcare sulla pagina inferiore delle ali certe figure carponi assumono la posizione eretta per vedere il pericolo oltre l’erba alta certe altre figure meno superbe certi tranquilli animali bianchi simili a capre, continuano a ruminare e la natura li lavora dentro come il sangue terrestre lavora le vene del marmo. mentre appaiono distratti, essi comunicano attraverso il sangue la loro obbedienza consiste nell’appartenenza alla neve che esalta il sapore del sangue quelli che si alzano in piedi nella preistoria saranno umani: snaturati e avulsi essi sono la specie conscia del tempo che urge fuori dall’erba vedo quanto somigliavamo alla terra. poi alle capre. infine eccoci storia, eccoci tempo e crimine 3. crimine io vedo sollevarsi la mia specie e vedo sollevarsi la scheggia d’osso mentre una vibrazione diversa dalla parola trema dentro la mano di quello che la solleva e la vibra: la prima idea di crimine un nuovo bivio della specie tra bene e male staccati come figurine di fango dal fondo secco della terra dopo, nella storia, saremo le uniche creature affette da un disturbo di specie: eliminare i simili a causa di astrazioni, contravvenire alla nostra origine 4. amore vedo il proseguire nella stazione eretta e vedo il flettersi di uno sul corpo dell’altra come su un campo arato, su una messe biondissima lui dissipa la sua anima tutta nuova e tutto il suo piccolo ambiente spirituale su un corpo di sonnambula lui s’inchina al cospetto di una creatura bianca dove quella è immensa e piena di illusione e di grazia è fatta di futuro ma quello teme d’essere punito per avere goduto la nudità di una dea – bruciò ma il cuore rimaneva intatto – freddo come l’avvento e la statua era immensa, finiva dove l’aria conduceva i suoni cardinali di uccelli anch’essi dal cuore incombustibile che volavano nitidi e contrari all’azzurro e ancora una volta – oltre l’umana sopportazione del dolore, ancora una volta – amore – a questa che ti viene consegnata da un dio selvaggio che le divarica le vertebre, apre la sua cassa toracica come un ventaglio, una rosa dei venti, già pronta a fare un’altra carne con la sua carne come un essere in volo ma decaduto nella forma chiusa di un corpo (sì, lei era tutta inerme dopo, scivolava in un sonno artificiale con corone di ghiaccio sulle ciglia) 6. cittadinanza vederti in questa inerme prospettiva, Roma, la lacca gialla del sole sul marmo dei mausolei e tu aperta come una sposa sei una faccenda stregata una insubordinazione del passato sulla piana dei fori, dove l’opera dell’uomo scintilla come scintillano le stelle sul mare e i volumi di tutte le arcate depositano la loro gloria seria, appena sgretolata, sul manto nero della nera terra il Tempo qui non è lineare, ha la grazia dell’ultimo volo di un gabbiano sul mare capovolto di Massenzio, con le cinghie che ne tengono eretta la rovina sul fondale di fuoco della terra poi ci siamo assuefatti ai gabbiani, a questa contraddizione ricevuta dal mare, a questa muta foce sui celesti ricorsi metropolitani e le lune chiare della consolare 10. scimmia lunare la poesia non è che questo rimbalzare del suono tra angoli bianchi di crateri preistorici – un vuoto calcinato avvitato al fondo dell’orecchio umano come pelle con osso il cantiere è la vita, l’oro della pazzia, tutta l’umana gioia il poeta è la scimmia lunare. il suo corpo non è mai solo: traslocato dal favo fiottante della parola nella cella vuota della parola, il suo corpo prende in sé – fisicamente tra i suoi occhi divisi – il centro della terra, metallo liquido composto dalla pena e dalla gioia di tutti egli sa solo trasformare in canto il sangue della specie sebbene il suo corpo sia una comune entità chiusa, in trasparenza la sua massa risulta sciolta all’interno per un fenomeno di combustione mentre attinge alla lingua comune della specie, a quella lingua in allontanamento come un arcobaleno lunare che risorge dai luoghi dell’origine, dove la lingua serve a stare insieme per dire le cose, è solo compassione Roma, 22-24 novembre 2012
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