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Pubblicato Lunedì, 20 Ottobre 2014 10:21
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qui PONIAMO IL CASO DELLA GRATITUDINE
Grappoli di pere con piccoli spacchi Penso che con questo magnifico sole freddo l'unica cosa ragionevole da fare sia argomentare intorno a piccole pere verdi dopo averne osservato nei giorni lo strutturarsi e il gonfiarsi in forme che si presentano come di consueto tondeggianti in basso (che è verso la gravità della terra) e allungate verso la cima (che è dove pendiamo dal ramo). Ogni piccolo fiore, se non cade per la stanchezza del ramo – che riesce a portare a compimento solo i più robusti tra i propri frutti – e se non viene trascinato dal vento sulla terra – che origina una vita simile a se stessa solo dalla matrice dei semi, mentre dall’altra materia organica produce differenti specie di larve – asciuga lentamente e si traduce in frutto. La buccia – fredda, liscia e lucente – a volte cede alla secchezza dell’aria invernale e si forma uno spacco – i bordi del quale anneriscono con il trascorrere dei giorni e delle notti a causa dell’ossidamento del ferro contenuto nella polpa. Osservando nella ferita si rivela il vivo della polpa, granulare e bianca come la traccia dei morti. Nella pera c’è un cuore molto bianco che in realtà rimanda alla nostra morte e allo splendore (conseguenza del male che lo precedette e che è anche già stato lavorato – ma tu sei giovane e hai ancora tempo da perdere col dolore – oh, vorrei anch’io subire ancora l’offesa della giovinezza!) Intorno a questa traccia c’è la ruggine, che possiamo considerare come la parte del corpo vivo che ha reagito all’aria, come la scia di una emorragia nel passaggio che avviene tra regno (dei vivi) e regno (dei morti). Raramente infatti passiamo intatti dall’essere una pera liscia e impassibile a essere una pera parlante cioè dotata di ferita aperta. Tutto quello che possiamo immaginare avvenga al di là dei sensi nella formazione della pera, esorta a una serena pulizia dello sguardo, esorta a eliminare il superfluo e le scorie mentre si forma l’agglomerato dolce che diciamo frutto. Ma alle volte, come vale per tutti gli altri frutti, avviene che il biancore sia insidiato dalla fame di un essere vivente. E la pera serenamente ospita il suo ospite – che si nutre di lei e della sua bianca morte – così com’è, illuminata dalla gioia del ridicolo. Roma, 9 novembre 2009
Per motivi estranei ai cani Vede cani, campane e altre cose aperte sulla campagna. Vede cose trascolorare: una certa avversione, un certo silenzio, certi corpi smisurati. Gambe e attrezzi, cose che smettono di lamentarsi e lasciano scie di luce nei ghiacci, vede loro innalzarsi come radici di gioia poi si mette a baciare la consolazione di quella bellezza sulla faccia di lui nudo come la battitura del miglio. Sulla faccia di lui bacia la terra e tutta l’acqua di vegetazione bacia la tramontana e l’avere portato questa possibilità di baciare fino al mattino, bacia le masse ancora addormentate in uno smisurato sconforto le onde fatte di graniglia azzurra e di cobalto, bacia anche il corpo che si secca tra rovi di more con un rumore molle di mucose, come un fiore spiccato, una leggera anomalia del giardino, bacia il giacere del corpo tra i semi delle rosacee e il suo calmo saldarsi alla terra con un suono di fiori schiacciati e di congiungimenti, bacia il cielo in ognuno dei corpi che lo attraversano fermi nelle carlinghe; le pulegge e gli spalti del frumento bacia e lo bacia invisibilmente con il dolore e l’oro della lisca, con l’aria che ruota intorno ai corpi con coincidenze elettriche, bacia la continenza di quei corpi che, trascurati, diventano santi bacia chi ha immaginato di morire per mancanza di luce e poi ha detto sia benedetto il giorno che ti ha vista nascere, bacia la perla delle cartilagini e l’obice degli omeri abbassati sul petto, bacia il cuore che vistosamente declina, bacia chi le ha portato l’equilibrio, questo modo di mettere insieme cosa con cosa e poiché ho attraversato con la bocca indenne tutto il disequilibrio della notte, so che è stato per questo poter baciare in te ogni fenomeno, perché giungesse l’Ora Immaginaria con macchine terrestri nel fango naturale e fosse appariscente tutta la gioia e tutta la crescente riconoscenza perché, ecco, io ti amo senza dolore. Roma, 27 dicembre 2010
Poniamo il caso della gratitudine
Chiamiamo A il donatore. Chiamiamo B il destinatario del dono. A cammina verso la casa di B portando in dono a B una cosa severa, concentrica e importante: qualcosa di equivalente a una possibilità di dilatarsi, a un liquido per la compassione e per ciò A sente il petto come una nave ferma nella luce. A prevede la gioia che darà a B, anticipa l’abbraccio che solleverà ciascuno dei due amici più in alto di se stesso quando è solo. A si avvicina alla casa di B e sorride da solo. A non sa che nella bocca di B si è formata una sacca di silenzio, dura come la capsula di un dente, infetta come la sua inattesa suppurazione. Niente ha ancora guarito quel male. Non i ragionamenti sulle opportunità. Non l’amore che, dopo, è venuto a salvare: se l’amore non salva e non guarisce, se l’amore può solo indicare la direzione. Ora o mai più: dove puntava la scaglia d’oro dell’unica freccia. La tua vita è quello che mi hai fatto. Lo splendente disastro che hai fatto di me. Un follicolo inerte che ha manifestato il suo sorriso una volta. All’insaputa di A nella bocca di B si nasconde una infermità: sulle salivari di B preme una ghiandola di fallimento la cova velenosa di un ascesso. A non sa che il cuore di B è una bilancia e che B ha mandato a memoria il minuzioso elenco degli oggetti dati. Tutto il cuore di B è in abbandono. Questo è senza rimedio. Questo fossile nel mio petto sanguina le sue pareti colano rimpianto. Il bene che mi porti è solo eco del mio amore perduto. Io sono della specie che non dimentica – dunque perde natura. A non sa che B è incapace di privarsi di qualcosa e poi dimenticare, di trasformare tutta la mancanza in combustione. Dunque B non riconosce la gratuità del dono e nel dono di A legge una inumana perturbazione e una cruda, una acidula affermazione di potere da parte di A. B intravede l’aguzzo di una chiglia che separa la calma del mare. Ci è voluto tutto il mare, per coprire la solitudine di B. Così, avviene che: 1. B allontani con rancore A dalla propria casa, B si disfi con violento disprezzo di A, che lo ama; dopo avere smantellato l’ingombro del dono di A, B si impegni nel denigrare A per affermare la propria libertà dal bisogno che il dono di A gli ha rivelato. A ha involontariamente dimostrato di sapere cose sul passato di B che B non vorrà conoscere mai più. B sa che adesso è tardi per l’amore. B rimarrà fedele alla siccità. B ha posato una copertura nera senza fiamme dove stava tutta la fioritura. Il silenzio del cuore rassicura B. Il nero gotico delle albe, la spelonca vuota, il muto concerto dei morti. Il vuoto è privo di contrasto: una completa assenza di contrasto circola nella linfa dei fantasmi. Il fantasma ha espressioni circolari. Il fantasma è soggetto come un arbusto di dolore al sole incostante del capriccio di B. B non mette nella bocca del fantasma il tralcio aguzzo della parola: l’esca viva. La parola farebbe sanguinare anche il fantasma. B mette nella bocca del fantasma una ruota bianca di silenzio. A vedeva i fantasmi di B stretti e muti sul cuore di Buio. Uno scenario esangue. A è composto di fango e di pastura. A è del tutto compromesso con la vita. Il suo cuore è un fattore algebrico sanguinante. Rosso come un’appoggiatura patetica. Ogni vita lo culla e lo tradisce. A prova rabbia, umiliazione, gioia e spavento. Canta, piange, è soprattutto nascente. Germinativo. Amore porta in dono Amore. Amore porta nudità trasparenza e umiltà di Amore. Niente altro. Da principio Buio ammirava il perpetuo devolversi di Amore. Prima che la moltiplicazione di Amore cominciasse a manifestare la sottrazione di Buio. Scacciando Amore con malanimo Buio richiude la crepa, asciuga la paurosa infiltrazione del sangue, quel profumo di nettare che piegherebbe il capo sulla terra e piegherebbe le ginocchia nell’odore dei tigli, riconferma un’avara superiorità sul proprio deserto: scempio, se vogliamo chiamarlo col suo nome. Buio non desidera desiderare. Buio non intende essere turbato dal vano impulso alla generazione. Buio, dopo quella notte di impassibili mantici di sangue rovesciati a sfiatare nel buio esoterico dell’isola, dice a se stesso che a generare sono buoni tutti i pedissequi e gli inetti, triste animule prive di libertà e coraggio, spiriti facili e senza spessori che si tirano dietro il mondo secondo la legge di attrazione dell’ovvio. Giogo della natura. Niente di più insipiente. Buio si ritiene molto esotico. Buio dice che solo Buio è veramente libero. A questo punto A dovrebbe morsicare B con sapido trasporto e mostrargli il sedere. Ma qui si vuole dimostrare come perdonare una ingratitudine. Sembra niente ricevere un dono ed esserne grati. La vita, per dire. E invece. Così avviene che: 2. Spaccato il primo guscio di dolore tutta la cera del cuore di A venga accesa da una compassione per il cuore di B, così privo di questa compresenza ronzante e buona di fiori e api, della plastica altezza della fiducia. A piange per il petto di B che ospita un sordo magma – e così definitivamente solo. Dunque: 1. A non ha smesso di amare B. Eppure 2. B non smetterà di essere solo. Buio ha appena richiuso la porta alle spalle di Amore e per un breve istante dice questo. Poi dimentica. Detto di Buio: Amore, se spacchi il mio cuore con il tuo dono intravedi le tracce della vita che lo attraversava. Questo è senza rimedio. Via da me questo scempio! Vattene, lasciami rimarginare: questo fossile sanguina nel mio petto – tutto il costato cola dall’interno il suo rimorso – stalattiti di lacrime ghiacciate da quell’ultima notte di modestia, quando ero ancora così docile devoto e naturale da ricevere tutti i tuoi baci come una logica consolazione. Con quale senso di opportunità e di cosa ben fatta io ricevevo in tutto il corpo la consolazione dei tuoi baci. Allontana da me il graffito di bestia del tuo nome: l’incisione che sgocciola sul piatto un tatuaggio di diavoli e di angeli compenetrati. Allontana da me! questa incoerente liquefazione, questa tardiva attesa, questa impressione di meritare ancora la feroce bellezza della vita: disattenta e incostante. Lo vedi: il risultato di ogni cosa è che muore. Solo il lutto è rassicurante e perfetto. Divino. Solo il lutto è immutabile e fedele. Tutto il bene che porti è buia eco del bene perduto. Disamorata eco. Niente regge il confronto con il morto. Il Dio morto, il Dio vero, il Dio divino, il più Dio di te, Eros, indecoroso caprone! Mendicante! Sei un’infelice emorragia di nuvole, il groviglio di un parto di bestia che sfonda gli sterpi. Membra insolenti, zampe che affondano in quote di fango, striscia di sangue sulla pelliccia, versamento di organi vivi dall’interno del corpo: fertilità che prova la prevaricazione di una specie dannata. Sei l’indugio che non permette al morto di morire, il picco in basso della sua idiozia. E quello urla e non ha più giustizia. Non riconosce il ferro della legge. Stacca! dalla lingua del morto il residuo fetale della combustione di un melo che fu nutriente. La mia lingua era tutta fiammeggiante. Stupido, ridicolo, languido amore: tutto tremante, tutto sospiroso, tutto illuso di essere vivo. Vattene, lasciami rimarginare! Chiudi la terra! Chiudi l’imboccatura alle tue spalle. Mondami! Tutte le rose hanno esasperato il loro male sul mio corpo soggetto alla rosa letale del tempo. Vattene! e io dimentico. Io non sono più vivo. Roma, 1-3 giugno 2011
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Pubblicato Lunedì, 20 Ottobre 2014 10:17
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io mi fido di te
quando l’alba era un coro levato da una terra radiosa quando eri iniziale e dal tuo labbro gocciava l’amnio del troppo amore non sarà troppo? tutto questo amore fra le tue braccia ricominciava il grido delle rondini in aprile e l’odore di muschio e di rosa canina della casa sulla pietra viva, l’impeto della pietra e il rumore del ferro delle biciclette tra le piante di fico ad altezza umana a volte avevi sapore di sale come il deserto, a volte la logica della merce abbandonata in un porto tra i fischi delle navi e dei cormorani allora ripassavo con lo sguardo il bassorilievo delle tue belle vene, il delta che affiorava sulla tua fronte quando sotto la volta dell’intelletto strisciava il branco silenzioso e illogico del desiderio, allora un’iridescenza di mante si levava dal fondo sabbioso del tuo essere e immaginavo gli affluenti perduti nell’opacità del corpo come ombre idroelettriche qualunque raggio, qualunque bene e male tu incarnassi, riconoscevo il suono delle tue scarpe azzurre la gioia dura del fiore nel giallo del chiostro poi la nebbia depone il suo silenzio sul lavoro invisibile della crescita e dei transiti umani poi, avviene sul mare: la tua figura si ammorbidisce sotto il mio sguardo cobalto profondo in silenzio mi dici rimani perché non ho finito di fiorire 20.7.14
http://www.atelierpoesia.it/portal/poesia/poesia-italiana/maria-grazia-calandrone/117
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Pubblicato Lunedì, 16 Settembre 2013 07:42
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LO STUPORE DI CUI ERAVAMO FATTI (dieci frammenti sull'evoluzione)
1. verbo
originariamente la parola aiutò una delle diverse specie preumane a formare piccole società e a orientarsi nel mondo: fu un gesto di compassione che agiva sulla biologia fissando nella laringe di una specie due bianche pliche vocali originariamente la parola fu un gesto morale della biologia nel punto dove la scimmia si è staccata dall’albero non c’è sangue né dolore ma l’impronta morale di una parola
2. elevazione
vedo una prevalenza di grano e gioia e un commosso desiderio di vivere nella carne che pascola tra grandi rettili al fondo del cratere o sta a galla sui posatoi del cielo con veli di calcare sulla pagina inferiore delle ali
certe figure carponi assumono la posizione eretta per vedere il pericolo oltre l’erba alta
certe altre figure meno superbe certi tranquilli animali bianchi simili a capre, continuano a ruminare e la natura li lavora dentro come il sangue terrestre lavora le vene del marmo. mentre appaiono distratti, essi comunicano attraverso il sangue
la loro obbedienza consiste nell’appartenenza alla neve che esalta il sapore del sangue
quelli che si alzano in piedi nella preistoria saranno umani: snaturati e avulsi essi sono la specie conscia del tempo che urge fuori dall’erba
vedo quanto somigliavamo alla terra. poi alle capre. infine eccoci storia, eccoci tempo e crimine 3. crimine
io vedo sollevarsi la mia specie e vedo sollevarsi la scheggia d’osso mentre una vibrazione diversa dalla parola trema dentro la mano di quello che la solleva e la vibra: la prima idea di crimine un nuovo bivio della specie tra bene e male
staccati come figurine di fango dal fondo secco della terra
dopo, nella storia, saremo le uniche creature affette da un disturbo di specie: eliminare i simili a causa di astrazioni, contravvenire alla nostra origine
4. amore
vedo il proseguire nella stazione eretta e vedo il flettersi di uno sul corpo dell’altra come su un campo arato, su una messe biondissima
lui dissipa la sua anima tutta nuova e tutto il suo piccolo ambiente spirituale su un corpo di sonnambula
lui s’inchina al cospetto di una creatura bianca dove quella è immensa e piena di illusione e di grazia è fatta di futuro
ma quello teme d’essere punito per avere goduto la nudità di una dea – bruciò ma il cuore rimaneva intatto – freddo come l’avvento e la statua era immensa, finiva
dove l’aria conduceva i suoni cardinali di uccelli anch’essi dal cuore incombustibile che volavano nitidi e contrari all’azzurro
e ancora una volta – oltre l’umana sopportazione del dolore, ancora una volta – amore – a questa che ti viene consegnata da un dio selvaggio che le divarica le vertebre, apre la sua cassa toracica come un ventaglio, una rosa dei venti, già pronta
a fare un’altra carne con la sua carne come un essere in volo ma decaduto nella forma chiusa di un corpo (sì, lei era tutta inerme dopo, scivolava in un sonno artificiale con corone di ghiaccio sulle ciglia)
5. parla la statua preverbale
io depongo ai tuoi piedi la mia corona e con essa depongo ai tuoi piedi la mia sommossa la commossa mia fronte e dai tuoi occhi mi guardano di nuovo tutti i morti di tutte le ere, inconsapevoli di tanto amore
sei così vigile e meraviglioso nella massa del sole sei la preda reversibile, cacciatore con urna, freccia e scure tra felci bianche fino alla muta forma di tutte le persone che non sono state
amore è lo struggente desiderio di non finire esalato da corpi riversi nella dolce imperfezione del tempo
6. cittadinanza
vederti in questa inerme prospettiva, Roma, la lacca gialla del sole sul marmo dei mausolei e tu aperta come una sposa sei una faccenda stregata una insubordinazione del passato
sulla piana dei fori, dove l’opera dell’uomo scintilla come scintillano le stelle sul mare
e i volumi di tutte le arcate depositano la loro gloria seria, appena sgretolata, sul manto nero della nera terra il Tempo qui non è lineare, ha la grazia dell’ultimo volo di un gabbiano sul mare capovolto di Massenzio, con le cinghie che ne tengono eretta la rovina sul fondale di fuoco della terra
poi ci siamo assuefatti ai gabbiani, a questa contraddizione ricevuta dal mare, a questa muta foce
sui celesti ricorsi metropolitani e le lune chiare della consolare
7. focus: materiali virtuali
je pense à toi, mia Cara, al cuore de la notte, sei Nessuno
Creatura della mente, la tua figura non impressionerebbe la pellicola. Pure la tua pupilla è l’ovulo dei morti ha un colore di latte purissimo, l’occhio che possiede il mio cuore come il mio cuore possiede l’opacità del bronzo, non riflette che la volta stellata della mente
Tu che ne sai del giorno mi diceva guarda la gru che provvisoriamente oscura il sole le ciminiere lo slancio verticale della figura ma è di me che parlava, anzi di come lei m’immaginava. Così rimango, vinto da quello che sono quando vengo creato dalla sua mente
sono metallico come sangue umano ovvero un’emissione razionale, eretta del sangue umano della terra lanciata fuori dal Tempo per raggiungerti, amore, chiunque tu sia
8. in uno spazio esiguo come il cuore umano
pur essendo la stella madre di un sistema, il Sole ha ricevuto dalla nostra specie un nome maschile: essendo l’oggetto più evidente e vitale del cielo, essa è stata classificata dalla mente degli abitanti della preistoria sotto specie divina – e dio, secondo la preistorica immaginazione, coltiva la felice consuetudine d’essere maschio
cani bianchi – assediati dal sole cani quasi fatti di sole nella segala amara crudi e regali e biancosommersi in campi di pallone come nel primo cielo del paradiso
cara luna, ambra bianca modificata dalla radiazione di una stella, faglia bianca che si è aperta nel cuore del tramonto
se il tramonto è un cigolio di giunti e di trivelle enormi, un trascinio di astri per i raggi ventosi efferati affondati nel fondo profondo del mare e se il mare è tuttavia più piccolo del tuo dolore, cara luna torna a essere ovale come l’impeto della generazione, torna come ritorna la rondella sulla punta dell’asse terrestre – o la terra si storce, si rovescia – o cade o vola – è lo stesso – verso i mari di fuoco del sole, che è deserto, inabitabile come la tua vita quando cadi di lato da un cielo di terra e maestrale sulla malva e la polvere di Circo Massimo mentre l’impronta di una scarpa umana calca la bianca cenere lunare e qualcosa si scioglie in uno spazio esiguo come il cuore umano ed è simile all’amore – ma corale
9. genere umano
ecco i risultati del lavoro espresso da un corpo dopo i fenomeni dell’evoluzione della specie, ecco a che punto di astrazione arriva la forza dei muscoli e l’impiego dell’intelligenza, applicata alle forme del mondo. ecco come si muove la vita di un essere umano, che segni lascia nel suo fine sulle bandelle di cemento e i canoni delle belle bandiere – e sempre quella serratura messa a difesa della sua messa privata, nel suo nucleo familiare-periodico
10. scimmia lunare
la poesia non è che questo rimbalzare del suono tra angoli bianchi di crateri preistorici – un vuoto calcinato avvitato al fondo dell’orecchio umano come pelle con osso
il cantiere è la vita, l’oro della pazzia, tutta l’umana gioia
il poeta è la scimmia lunare. il suo corpo non è mai solo: traslocato dal favo fiottante della parola nella cella vuota della parola, il suo corpo prende in sé – fisicamente tra i suoi occhi divisi – il centro della terra, metallo liquido composto dalla pena e dalla gioia di tutti
egli sa solo trasformare in canto il sangue della specie
sebbene il suo corpo sia una comune entità chiusa, in trasparenza la sua massa risulta sciolta all’interno per un fenomeno di combustione mentre attinge alla lingua comune della specie, a quella lingua in allontanamento come un arcobaleno lunare che risorge dai luoghi dell’origine, dove la lingua serve a stare insieme per dire le cose, è solo compassione
Roma, 22-24.11.2012
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Pubblicato Venerdì, 14 Febbraio 2014 13:26
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IL POEMETTO
sul disastro del Vajont realizzato per CALAMITA/À Project
su una foto di Evaristo Fusar, primo giorno di scuola dopo la tragedia del Vajont (“Corriere della Sera”, 1963)
con traduzione di Johanna BISHOP

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