IntervisteIl pubblico della poesia (Sanbaradio 31.5.20)
«Col passare degli anni e, soprattutto, con la necessità di mettere in mano ai miei figli e ai ragazzi delle scuole un timone solido per navigare l’illusorio e mutevole mondo cosiddetto «reale», è cresciuta la mia necessità di intervento diretto sulle cose. [...] Non mettiamoci a scrivere, se non abbiamo il coraggio di affrontare e reggere il vuoto delle cose.» Leggi l'intervista integrale di Adriano Cataldo Aggiungi commento
Accademia Mondiale della Poesia live 30.4.20
Il giornalista del «Corriere della Sera» Ottavio Rossani intervista Maria Grazia Calandrone per "Accademia Mondiale della Poesia", 30 aprile 2020 - introduce Alfonso de Filippis - da un'idea di Michele Afferrante e Laura Troisi - domande del pubblico
A casa del poeta (settembre 2018)
Fabrizio Buratto a casa di M. Grazia Calandrone per dire di poesia, politica, social e realtà
Università "la Sapienza" (24.1.20)
Marco Corsi dialoga con Maria Grazia Calandrone
Primo incontro del ciclo di seminari 2020 organizzati dalla redazione di «Polisemie - rivista di poesia iper-contemporanea» (Università di Roma Sapienza)
Michele Mari e Elena Ferrante (poesiaeletteratura 25.1.20)
intervista di Francesca Rita Rombolà Michele Mari e Elena Ferrante. Due agganci diversi delle nostre persone che, per fortuna, sono ancora intere. Un'intervista. D - Maria Grazia Calandrone, ho visto dal suo CV che la Poesia le è come familiare. Iniziamo, dunque, questa conversazione proprio parlando di poesia? La Poesia e il poetare per lei. La poesia è il mio mezzo per conoscere me stessa, poi gli altri, infine il mondo. Mi è indispensabile come respirare. Credo che questo valga per tutti gli artisti di tutte le arti. D - Realizzare un reportage per la televisione (so che lei ne ha realizzati) non è come scrivere un libro, vero? Decisamente no. Sono due linguaggi molto diversi: il reportage televisivo è destinato a una ricezione immediata (sebbene ormai tutto possa essere visto e rivisto a volontà in rete). Il libro, viceversa, è pensato per una lettura meditata, generalmente solitaria, dunque la scrittura può permettersi di essere più complessa e lavorare di più sullo stile. Con questo non voglio dire che la scrittura di un reportage non debba porsi il problema dello stile, ma certamente deve essere più immediatamente chiara. D - Scrivere un romanzo oggi, secondo lei, può significare davvero fare letteratura? Talvolta anche dell'ottima letteratura? Certo che sì. Un esempio su tutti: Leggenda privata di Michele Mari. O il caso clamoroso di Elena Ferrante, che è riuscita a scrivere una saga mozzafiato. D - Mi parli un po’ dell'Haiku, dell'idea che ha di questo modo tutto giapponese di scrivere poesia. Sintesi assoluta. Ogni parola incisiva come una lama, ma leggera come una goccia. Parole-katana, che ti tagliano senza che tu te ne accorga. D - Chi ama, chi sente, chi recepisce davvero la Poesia nel 2020, in Italia in primis? I fedeli della poesia sono molti, anzi moltissimi. Ama, sente e recepisce la poesia chiunque abbia dimenticato la noia e l’inattualità con le quali l’insegnamento scolastico sommerge e porta a fraintendere la novità e l’attualità della poesia. Dante scrive della nostra contemporaneità. Purtroppo i professori spesso lo ignorano. D - Spesso mi sembra che il poeta è ormai una figura banale, scaduta, inattuale, inutile. E' così? Direi proprio di no. E lo testimonia la quantità di domande “esistenziali” che mi vengono rivolte a ogni lettura o presentazione. In ogni caso, “banale” spesso è l’opposto esatto di “inattuale”: credo che pecchi di banalità più chi vuole essere a tutti i costi “attuale”, che chi segue la propria passione scavalcando la moda del momento. D - Ma una poesia può cambiare ancora l'uomo e il mondo... Dipende da chi la legge. A me una poesia (il Notturno di Alcmane) ha cambiato la vita. E, tra i moltissimi ascoltatori dei laboratori che negli anni ho fatto in scuole e carceri, addirittura due detenuti, due ex spacciatori, hanno trovato un nuovo scopo alla loro vita grazie alla poesia. È una semina al vento, non è capitalismo. Ogni tanto, qualcosa fiorisce. E va bene così. QCode Magazine (7.1.20)
Maria Grazia Calandrone (Milano 1964) è poetessa, scrittrice, giornalista, drammaturga, artista visiva, autrice e conduttrice per la Rai, scrive sul «Corriere della Sera» e tiene laboratori di poesia nelle scuole e nelle carceri. Vincitrice del premio Montale per l’inedito nel 1993, ha pubblicato numerosi libri di poesia, tra i quali – per Crocetti – La scimmia randagia (2003, premio Pasolini Opera Prima), La macchina responsabile (2007), Sulla bocca di tutti (2010, premio Napoli), Serie fossile (2015), Il bene morale (2017) e – per Mondadori – Giardino della gioia (2019). Con Gli Scomparsi (pordenonelegge 2016) ha vinto il premio Dessì. Il suo sito è www.mariagraziacalandrone.it · Che cos’è la verità, in poesia? La parola “verità” è pericolosa, perché chi ha creduto o sentito di possedere la verità, lungo tutta la storia umana, ha teso a imporla ad altri, sia in buona fede che no. La verità della poesia è però una verità che non oppone uomo a uomo. Non ho scritto la verità dei poeti, perché molti autori contemporanei, cui piace autodefinirsi poeti, hanno provato a imporre la legge del proprio stile come unico stile praticabile da parte di una poesia prodotta in una società agonizzante e ingiusta. A mio parere, non è più tempo di trascrivere in poesia la nostra solitudine e la nostra sconfitta, è tempo di lanciare il nostro cuore di autori oltre l’ostacolo, perché incontri per noi e prima di noi nuovi orizzonti di senso. Che sono i più antichi e remoti orizzonti di senso, visto che per poesia intendo un sentimento di collettività attiva. · Si dice che ogni essere umano sia innumerevole. E che gli innumerevoli si possano riconoscere in ogni essere umano. È questo che fa la poesia? Precisamente. Il poeta, mentre scrive, scavalca sé stesso e raggiunge lo stato di identificazione, il punto dove gli esseri (umani e non solo, in verità) non sono “simili”, sono “identici”, radicalmente identici. Aggiungo che il nostro essere ciascuno innumerevole ci pone davanti alla responsabilità morale della scelta tra le parti di noi da lasciar agire nella società. I miei due ultimi libri, Il bene morale e Giardino della gioia, sono stati messi al mondo come uno dei molti promemoria della nostra complessità e come invito a prestare attenzione alle nostre responsabilità nel disamore e nello sfacelo, come nell’amore e nella gioia. Non esiste gioia che non abbia guardato dritto in faccia il dolore. · Il senso del possibile, come si alleva nella poesia? Come pratica il futuro? Se la poesia è quella che ho descritto sopra, i poeti possono contribuire a costruire il futuro attraverso il linguaggio. Il linguaggio è il nostro modo di pensare il mondo, l’attenzione alle parole cambia la materia fisica del nostro cervello, sviluppa nuovi collegamenti, mette in comunicazione aree complesse. Chi legge impara, si modifica, allena la sua mente alla novità. E la novità avviene ogni giorno, è sempre avvenuta. Altrimenti, siamo fermi come fossili. E, per svegliare il fossile, non c’è altro che la magnifica intuizione dantesca dell’Intelletto d’Amore. · La Storia e le storie. Cosa raccoglie la poesia per i venturi? Nel senso della storia grande e di quella nostra, microscopica, la poesia può anche avere valore di testimonianza. Ma non basta, se un poeta immenso come Paul Celan non si limita a descrivere la Shoah, ma compie un salto quasi impossibile, che all’atterrito Adorno non riusciva neanche di immaginare. Celan fonda sulla corona di spine dell’umanità la fiducia nella parola, nel canto. Il Salmo di Paul Celan è una delle poesie più importanti che siano mai state scritte, perché canta dal fondo dell’orrore con esiti poetici altissimi. · Chi è l’altro oggi? Come lo si incontra? Incontrare l’altro è un esercizio quotidiano. Avere la consapevolezza dell’esistenza dell’altro, identico a noi e così diverso da noi, non è affatto scontato. Simone Weil sostiene, anzi, che accorgerci dell’altro sia la conquista più grande. L’altro è chiunque ed è nessuno, siamo anche noi per noi, così difficili da comprendere e spesso estranei a noi stessi, invasi da pensieri e desideri altrui che dobbiamo, con pazienza, districare dai nostri. Allo stesso modo, qualcuno che abiti fisicamente un altro corpo, può risultare più innamorato di noi di quanto lo siamo noi stessi. Eppure, l’amore per sé stessi è indispensabile per amare un altro. Dunque, se vogliamo davvero andare incontro all’altro, dobbiamo prima sapere e accogliere quello che siamo, altrimenti portiamo al mondo il risuonare di un linguaggio vuoto dietro una maschera, e dovremmo portare un abbraccio. · La poesia rende giustizia? Può essere il suo ruolo, oggi? La poesia può dare voce a chi non ne ha, e questa è una forma di giustizia. Ma non può fare davvero giustizia sociale. Può portare il suo contributo alla giustizia sociale, questo sì. Ricordando cosa ci aspettiamo dal mondo quando nasciamo. Un’attesa e un desiderio trasversali al tempo e al luogo: essere, appunto, amati. Sfamati, protetti, compresi. Perché possiamo farlo, a nostra volta. · La poesia può essere anche reazione al reale? Come lo agisce? La poesia nasce dalla realtà, dunque reagisce certamente alla realtà. Se però stiamo dando alla parola “reale” la connotazione lacaniana del più autentico “vero”, la risposta è doppiamente sì, perché la poesia smaschera gli inganni della “realtà” e ci conficca (uso di proposito una parola sgradevole e quasi violenta, perché la poesia spesso lo è) dentro il “reale”, fatto di quello che siamo, dell’essenza profonda del desiderio. Dunque la poesia agisce il reale smascherandolo e facendo da specchio, a volte violento, alla nostra faccia segreta. · Dare un nome alle cose le mette al mondo. Come dobbiamo raccontare il bene comune, oggi? Con fiducia. L’idiozia o lo splendore della bellezza, un testo del 2011 contenuto nel Bene morale, comincia con queste parole: «Adesso credo necessario un ottuso atto di fiducia nella bellezza. Agire come non fossimo mai stati. Come non fossimo mai stati traditi». La penso ancora così. Credo che il solo modo di stare al mondo sia quello che Gramsci definisce “ottimismo della volontà”: vedere le cose, ma non limitarsi a vederle, lottare con fiducia affinché quelli che verranno dopo di noi possano abitare un mondo più abitabile. Gli adolescenti (Greta Thunberg, il neonato movimento, apartitico ma non apolitico, delle “sardine”) stanno agendo bene, per sé stessi e per tutti. · Quali sono le domande alle quali collettivamente è necessario iniziare a rispondere? Una, sopra tutte: da che parte stai? In questo momento è assolutamente necessario esporsi, se non si vuole essere, in futuro, tra i complici del disastro antidemocratico mondiale che certa politica sta mettendo in atto per egemonizzare il potere economico, usando mezzi di propaganda capillare e invisibile, dai quali stiamo però imparando a difenderci. · Versi a commiato? Desidero salutare ripetendo in versi quello che ho risposto a queste belle domande. La poesia è tratta da Giardino della gioia (Mondadori 2019) Intelletto d’amore
intervista (2.1.20)
Intervista a Maria Grazia Calandrone di Sonia Ciuffetelli 1) Il giardino della gioia è il luogo in cui la tua poesia attraversa zone di luce e d’ombra; la gioia è l’altra parte del dolore, è il saper guardare “il luccicare a perdita d’occhio della mia vita”. Il libro è anche una riflessione sul dolore e sulla perdita, si compone di zone diverse ed è pieno di vita. Cos’è la gioia da te poeticamente pensata-sentita-riflessa? La vera gioia, la gioia profonda e permanente, non può che essere consapevole. Necessita di aver affrontato il dolore a viso aperto, faccia a faccia, non averlo evitato, non essersi nascosti. Attraverso il dolore, se ne facciamo buon uso, possiamo comprendere molto, di noi stessi e del mondo. Scrivendo questo non intendo fare l’apologia del dolore, ma dire che, poiché esso è inevitabile, il solo modo di vincerlo è viverlo. 2) “Non vediamo le cose come sono, vediamo le cose come siamo”. Il nostro modo di percepire la realtà riflette, proietta il nostro ego sulla realtà stessa? Esiste una realtà intellegibile al di là di noi, libera dallo sguardo narcisistico e dalla necessità di ritrovarsi nelle cose del mondo? Più che di necessità narcisistica di trovare nel mondo frammenti e specchi di noi, scrivo che, data la nostra possibilità di percezione, limitata dalla psicologia – ma anche da biografia e biologia – la realtà esiste certamente in sé, ma raramente il nostro sguardo riesce a coglierla intera. La realtà è un poliedro, ogni osservatore ne percepisce una delle facce. Esiste infinita filosofia e letteratura, specialmente teatrale, sull’argomento. La tensione di molti poeti è rendere l’oggetto per quel che è. Non è certo questa l’intenzione di Pasolini o Whitman, che impongono coscientemente a cose e persone la propria visione di cose e persone: fascinosa, mitologica o di moltitudine dei sé. Ma è quello che tentano autori come Francis Ponge e George Oppen. Sapendo di non riuscire, come dichiarano esplicitamente quasi tutti i poeti, per esempio il melanconico Vittorio Sereni o l’allegorico Giorgio Caproni. 3) “Mentre il mondo cambiava […] tu come gli animali stavi senza domande. Senza dolore. Semplicemente esistere. Esistere e basta. Essere casa come sono casa i corpi, gli abbandoni, le guarigioni”. L’esistere evocato nella poesia dal titolo Interiore invernale è un esistere oltre il limite, “per curare il disamore che sarebbe arrivato”. In quel testo dico di un esistere umano animale, quasi arboreo. Esistere nel sapere di non sapere, nella coscienza serena della propria ignoranza, tema che riprendo nel testo dedicato a mia figlia Anna. Sapere di non sapere, alla fine, ci salva. 4) La violenza e la superiorità razziale, il male sono temi che affronti nel libro. La nostra specie ha storicamente dimostrato miseria umana, crudeltà. Come conciliare questo aspetto con la vitalità della gioia? Come ho scritto nella prima risposta, non credo alla gioia come rimozione del male ma come attraversamento del male. Siamo una specie orribile e meravigliosa e dobbiamo convivere con il nostro orrore, anche per poter essere meravigliosi. Se cancelliamo la cognizione della crudeltà, la nostra gioia è mutilata e precaria. E, soprattutto, se ignoriamo la nostra stessa capacità di violenza, se assolviamo noi stessi dal male che possiamo compiere, rischiamo di compierlo inconsapevolmente. Il Giardino della gioia, infatti, vuole anche essere un avvertimento perché ciascuno di noi osservi da vicino la propria crudeltà, si identifichi con l’assassino e inorridisca. 5) Saper trasformare la materia povera in poesia. Di questo scrivi in Corsivi di Anna, un componimento in cui tu parli di grandezza della realtà, di belle cose per cui vale la pena essere nati. La realtà ha in sé del bello e dell’utile: conoscerla, entrarci in relazione per capirla è necessario per raggiungere la consapevolezza della bellezza dell’esistere? Oppure basta coglierla, odorarla, sapere che c’è? Dipende dall’inclinazione psicologica e dalla fortuna. C’è chi riesce a godere spontaneamente del mondo e chi arriva al mondo per via intellettiva. Unire queste due attitudini significa scrivere come Dante e dipingere come Van Gogh. Capire la realtà significa forse capire il sistema umano che la ingabbia. Il resto, è vivo. 6) Chi è oggi il poeta? Che ruolo ha nel mondo intellettuale e culturale? Ho sostenuto molte volte che la poesia è un controcanto all’ondata di odio e paura che, al momento, sembra aver trovato qualche diga. Penso a Greta Thunberg, penso alle sardine. Greta e le sardine compiono azioni poetiche: dicono la verità e arginano l’odio. Rivelano, cioè, la nudità non solo del «re», ma del mondo. 7) Se tu fossi una parola come ti chiameresti? Musica. 8) E se dovessi scegliere un mito tra i miti di ogni tempo quale salveresti? Antigone. La legge morale del legame affettivo contro la burocrazia e il potere. 9) Il poeta o la poetessa più incisiva, irrinunciabile, qual è? Scelgo Pier Paolo Pasolini, per il suo essere poeta in ogni aspetto e arte e attività. Grazie davvero, è un piacere ascoltarti ogni volta. Grazie a te. «L’Altrove» (6.3.20)
Intervista di Daniela Leone, «L’Altrove» 6 marzo 2020 1. Domanda tanto facile quanto difficile: Che cos'è per voi la poesia? Un tramite per conoscere il mondo. 2. E come definireste la vostra? Uno dei molti tentativi umani di indagare un mistero che – immagino – non sarà mai svelato. 3. Quale eredità vi ha lasciato la poesia femminile italiana? La strada fatte dalle donne prima di noi ha aperto la nostra: la nostra possibilità di pubblicare, la nostra possibilità di dirigere collane e, soprattutto, ha sgomberato il campo dall’associazione immediata e immeditata tra poesia “femminile” e mielosa effusività sentimentale. Penso a donne come Rossana Ombres o Nella Nobili, da me recentemente riscoperta, soprattutto ad Amelia Rosselli, che ha fatto esplodere il linguaggio e ci ha autorizzate all’invenzione, all’innovazione e al coraggio. 4. Ed esiste un poesia prettamente femminile in Italia? No. 5. Poesia e social. Qual è la vostra opinione al riguardo? I social sono il fast-food della poesia, l’ho già detto. Possono servire come esca istantanea, con la stessa funzione di uno spot pubblicitario. Ma poi il “prodotto” poesia ha bisogno di tempo e spazio, di vuoto intorno, per emanare la sua radiazione e fare la sua musica. Essendo, come affermava Pasolini, «inconsumabile», si colloca all’opposto dell’immediatezza e del consumo. 6. Poesia come antidoto, si dice. Ma antidoto a cosa? Credo si intenda antidoto al dolore e alla solitudine umani. È in effetti anche questa una funzione della poesia, ma in senso opposto: non perché lenisca o consoli, ma perché dice la verità, non nasconde. Poiché la verità è spesso dolore e solitudine, la vicinanza del poeta, l’evidenza che un poeta abbia già attraversato quei territori desolati (pensiamo a Eliot, a Cvetaeva, a Celan, a Trakl) e ne abbia fatto bellezza, ci fa sentire compresi e ci incoraggia. Personalmente, più che a un antidoto, preferisco pensare alla poesia come a un controcanto collettivo, sociale, alla paura e all’odio. E così ho infatti intitolato il mio intervento a un convegno su poesia e politica. 7. Se doveste descrivere con tre parole le emozioni provate quando scrivete, quali utilizzereste? Vuoto, collettività, stupore. Altri articoli...
|
Cerca nel sito
|