Articoli su cinema e arti figurativeMariangela Gualtieri, "Giuramenti" (CorSera, 24.3.18)
GUARDA COME RIDO ("Corriere della Sera", 24.3.18) “Guarda come rido, vedi? Viva sembro.” Con queste parole, pronunciate da un coro che sale intensamente di volume da dodici corpi seminudi, si chiude Giuramenti, il nuovo spettacolo di Mariangela Gualtieri e Cesare Ronconi. Si chiude con un attacco alla morte per insensibilità – dunque alla maschera contemporanea, che ci è parzialmente necessaria, stando anche alle parole di Ian Mc Ewan sulla quantità di compassione che siamo in grado di sopportare, in giorni pieni come i nostri del rosario di sangue che quotidianamente ci avvelena. La voce del poeta, che vorrebbe cantare libera, sciogliersi in una lucida fusione cosmica e protozoica, viene afferrata al volo e incanalata altrove, tra le pieghe rotte e insanguinate del mondo, dall’altra voce in sé: la voce del dovere umano e dell’istinto altrettanto vitale della fratellanza, che ci torce la faccia perché guardiamo in basso, a questa terra che bisogna amare. Rivoluzione, adesso, è amare ostinatamente, caparbiamente, ottusamente il mondo. Così, Gualtieri fa i nomi di morti e feriti, nel testo più politico e vicino al mondo che abbia mai scritto. Scrive: “Falla finita con la luna / e le stelle – guarda giù, i tuoi, / questa rovina di donna di uomo. // Questo sanguinare del mondo / guardala bene questa Salò”. La cosiddetta realtà chiama i poeti, squarcia loro gli occhi, li esorta a esortare, a chiedere empatia e rivoluzione: “rivolta” “per i fratelli o sorelle in catene” che masticano un cibo senza nome, “rivolta”, per “uscire da questo tiepido consenso / e dire no”: anche se il “no” ci fa male, ci causa il dolore della frattura, adesso occorre “spazzare via / la calma apparente della generazione mia”. “Guarda – ti dico”, scrive dunque Mariangela Gualtieri, evocando l’esortazione di Pound: “Strappa da te la vanità – ti dico – strappala!”: “Guarda ciò che non vuoi”, “Non fare finta che sia tutto / santo e buono” Gualtieri adesso testimonia e denuncia la violenza, testimonia e denuncia l’ormai esanime capitalismo, che però è ancora capace di costringerci a vivere lontani dal nucleo sensitivo e animale che dorme all’interno dei nostri corpi, dove apparentemente custodiamo solo stomaco e intestini e invece abita questo “qualcosa” sconosciuto e incontrollabile, piccolo e denso come pugno, che “dorme sempre e poi inaspettato / si sveglia e vive”. “Conosciamo noi stessi solo fin dove / siamo stati messi alla prova. /Ve lo dico / dal mio cuore sconosciuto.”, scrive anche Szymborska. Mariangela Gualtieri ha parole durissime, infatti, anche verso la gabbia dell’io, “il micidiale pronome. Il ladro, il divoratore”, chiama lettori e spettatori a una coabitazione intima con la natura, chiama a chiedere aiuto alla fermezza e alla concentrazione delle rocce e degli alberi, a ricordare che non sono soltanto le parole a portare nel mondo solidità e intelletto, sono anche le cose esistenti e mobili e rocciose, che stanno nel silenzio originario o nelle mille voci del vento, e ci dicono cose che dobbiamo imparare di nuovo ad ascoltare. Sulla scena si muovono dodici corpi, straordinariamente coordinati e coesi, di attori che sanno cantare, che sono acrobati e danzatori e che dicono i testi come dicono i testi i poeti, asciuttamente, senza l’enfasi di chi vuole far scena di sé. Dicono in coro e dicono da soli e il loro affiatamento è il risultato di una convivenza di tre mesi in un bosco, dove hanno assecondato, nella vita reale, la fisica primordiale che adesso riverbera nello spettacolo e nella sua bellissima, energica messa in scena: il sentimento animistico di nessuna predominanza umana. Mariangela Gualtieri parla infatti a nome della specie, una specie che da “zampe e musi” senza parola né pensiero è tuttora la ragazza che “non mollo una briciola neppure”. Nel fondo di noi stessi, avverte Gualtieri, siamo le “zampe e musi” che eravamo solo “un attimo fa”, lo spaventato branco che eravamo, terrorizzato dal “tonfo d’un ignoto tutto intero”. E allora, ciascuno faccia “il mio fare, / quello che mi tocca”. Nel caso dei poeti, scriva, perché quelli che hanno bisogno di parole delle quali nutrirsi escano cambiati da quel rito comune, tornino a essere la mano slargatamente aperta di Rilke, l’”immensa slabbratura” di Gualtieri. Perché – e questa è l’intuizione, il “fuoco centrale” dello spettacolo – noi facciamo agli altri quello che siamo. Lo sappiamo: conoscere un altro nella sua radice, significa avere la generosità di sparire, di dedicargli il tratto di tempo della nostra vita necessario a vederlo, a notare l’esistenza di un altro che non è noi. E allora, quando la piccola amazzone dice “Fatemi / quello che siete”, ci costringe a pensare a cosa siamo, come nella performance Rhythm 0 del 1974, dove Marina Abramović mette il suo corpo a disposizione degli spettatori, offrendo loro armi e strumenti di piacere che possono essere usati su di lei, e finisce per trovarsi in mano una pistola carica e, attorno, un gruppo di sconosciuti che fa cordone per difenderla. Ognuno pensa dell’altro e fa all’altro precisamente e solo quel che egli stesso è. Il bene e il male che è. E, soprattutto, l’inconsapevole pregiudizio, cioè l’inconsapevole paura che egli stesso è. Aggiungi commento
Riccardo va all'inferno (CorSera, 30.11.17)
Il potere secondo Roberta Torre (Nella terra dell’oltre) Commento al perturbante film di Roberta Torre sul Riccardo III di Shakespeare, ovvero sul tragico scontento del potere, con Sonia Bergamasco trasfigurata dalla maschera di madre anaffettiva e un magnifico Massimo Ranieri, disperato e spietato come chi vuol essere re leggi in "Corriere della Sera" (30.11.17)
Roberta Torre segue con fedeltà la mano armata che Shakespeare affonda nel cuore umano, ma, se possibile, spinge ancora più a fondo la lama nella pochezza del potere. Perché è passato tanto tempo dal tempo dei re, il potere non è neanche più smagliante e fascinoso, non è neanche più elegantemente sadico, è il potere tossico e smargiasso dello spaccio a Tiburtino Terzo e i personaggi sono cattivi e basta, senza che se ne indaghi la ragione. Tranne Riccardo, il bambino che non è stato amato. Per il tema del potere unito all’inferno, alla sgradevolezza e alla morte, per la discesa tra le bave e l’orrido dell’umano, Riccardo ricorda il superamento della misura, il grottesco filosofico del Faust di Sokurov: Roberta Torre è andata oltre il suo grottesco precedente, puro e goliardico, di Tano da morire, dove la morte era ancora un’opera buffa, e ha composto un’opera drammatica sulla realtà, nella quale Shakespeare viene traslocato – e viene offerto al gioiello trasparente, commosso e tagliente della sua poesia il palcoscenico di un presente più avido e più arido, dove “l’inverno del nostro scontento” diventa un musical sghembo, famelico, carnale e profondamente malinconico. La maschera è ancora una volta necessaria, per comporre un’opera politica sulla realtà. Anche gli attori, sostenuti e nascosti dalla nudità della maschera, sono andati un lungo passo oltre se stessi. Due per tutti: Sonia Bergamasco, una magnifica Regina Madre, ebete e indolente nella sua irresponsabile ferocia, arriva a saper recitare con le pieghe del naso e della gola, riesce a essere toccante nella sua radiosa, sovraesposta, bellissima innocenza e, nello stesso tempo, covare lo sguardo cupo di un’assassina, muoversi come avesse slegati o irrigiditi i legamenti del corpo, meditare l’inferno dietro l’impeccabilità della forma. Lo stesso fa Massimo Ranieri, un Riccardo calvo e storpio, un uomo disumano che chiede riscatto al potere perché, infine, ha rinunciato a essere amato, ma ancora resiste a fare della propria vita un relitto psichiatrico, lotta come una cellula cieca, per la sopravvivenza – e il volto bello e scavato di Ranieri è una perfetta, mobilissima, inclusiva sintesi tra spietatezza e disperazione. Gli attori si sono fidati, giustamente, dell’intuizione visionaria della regista, hanno compreso di essere in mani forti abbastanza per poter esplorare un altro centimetro del bene e del male che siamo. Roberta Torre osa molto: Riccardo va all’inferno è un film dove si vede moltissimo, dove lo sguardo è continuamente bombardato da immagini notevolissime, colorate e rumorose ma, nello stesso tempo, si vede poco, la macchina cancella i volti con la velocità della ripresa, o le sembianze vengono deformate dalla nebbia della memoria, slittano, scivolano via, s’intubano e sono ingoiate in una zona dove hanno abitato tutti, un mondo parallelo dove si può entrare solo se si ha coraggio. Per fortuna, lo hanno avuto. Tutti. Lievito Madre – Le ragazze del secolo scorso (CorSera, 3.11.17)
La (loro) libertà che anticipa la (nostra) libertà. Ritratti di donne non convenzionali leggi in "Corriere della Sera" (3.11.17) Premesso che non amo parlare o sentir parlare di "donne" come di una specie protetta – e premesso che so di dovere questa libertà a donne grandi e belle come quelle che stiamo per raccontare, so anche di essere uscita rinvigorita e ravvivata dalla visione di "Lievito Madre", riconoscendo la gioia di uno spettacolo brillante, di rara intelligenza, anticonformismo e ironia. Il documentario racconta quindici donne nate entro il primo cinquantennio del secolo scorso. Le vite raccontate sono diversissime una dall’altra: da quella dell’imprenditrice Giulia Maria Crespi a quella della mondina Esterina Respizzi, da quella di Nada, cantante di fama, a quella di Giovanna Tedde, contadina. E poi Dacia Maraini, Adele Cambria, Natalia Aspesi, Lea Vergine, Cecilia Mangini, Giovanna Marini, Emma Bonino, Piera Degli Esposti, Luciana Castellina, Benedetta Barzini, Inge Feltrinelli. Critiche d’arte, cantanti, politiche, modelle, lavoratrici stagionali, attrici, scrittrici, registe: il bellissimo mazzo di “operaie regine”, come direbbe Giorgio Caproni di ciascuna di loro, viene deposto con delicatezza e discrezione nelle nostre intelligenze da Concita De Gregorio ed Esmeralda Calabria. Altre due donne, dunque, che pongono domande spicce e vive, da donna a donna quando le donne si guardano negli occhi. Ma c’è di più, ed è che queste vite guardano e riguardano tanto anche noi, venute un po’ dopo, noi che usciamo dalla sala provando una profonda gratitudine per le donne che ci hanno precedute con tanta intelligenza, che hanno capito, prima di noi e per noi, come essere madri, intellettuali, amanti, artiste – pur continuando ad abitare un corpo solo. E hanno naturalmente lavorato anche a favore degli uomini: il cambiamento delle donne ha cambiato anche loro. Per i più intelligenti e curiosi è stato un inatteso arricchimento. Per gli altri, uno stato di fatto al quale lentamente abituarsi. Le protagoniste di “Lievito Madre” (bellissimo titolo-sintesi, significativo del fermento che tanta intelligenza, forza di volontà e autodeterminazione hanno portato nel nostro addormentato paese) sono donne che hanno reinventato il modo di stare al mondo delle donne: ciascuna in sé e per sé, ma soprattutto procedendo insieme, hanno fatto spazio a se stesse e alle altre, in un ideale lavorio comune, collettivo, il cui scopo era un riconoscimento sociale e intellettuale all’epoca niente affatto scontato. Per esempio Cecilia Mangini, che nel 1961 passa mesi sotto Ponte Mammolo per girare “La canta delle marane”, da Ragazzi di vita di Pasolini – o Lea Vergine, che trascorre una vita scrivendo di arte contemporanea, fino a scoprire che L’arte non è faccenda di persone perbene. Certamente, per prima cosa, tutte loro hanno dovuto abbattere pregiudizi e stereotipi sul femminile o sulla declinazione femminile di certi mestieri. Eppure, nonostante il lavoro millimetrico e quotidiano di decostruzione di modelli di donna troppi stretti per l’anima e per la realtà di ciascuna, nessuna di loro è caduta nella trappola della retorica dell’antiretorica, perché ciascuna di loro ha fatto un percorso reale, profondo, biologico, di consapevolezza. Adopero con coscienza la parola “biologico”, perché, naturalmente, il primo confronto di tutte è stato con il proprio genere, dunque con il proprio corpo: è stato necessario mettersi “davanti” e in relazione con il proprio corpo, sviluppando di conseguenza un insieme di affetti contraddittori: dalla rabbia preventiva (Castellina) allo stupore per la propria bellezza, tanto ignorata quanto evidente (Vergine), da una specie di sereno dislocamento (Nada) al bruciare quietamente nell’istante puro e chiaro del tutto-presente (Aspesi). Un esempio ci aiuta a comprendere la laboriosità dell’impresa evolutiva, spesso avvenuta per tappe: Luciana Castellina ammette di essere caduta nell’iniziale equivoco di credere di doversi comportare come un maschio, per ottenere il rispetto intellettuale. Ma poi no, poi ha compreso di dover contribuire al mondo con la propria differenza. Che senso avrebbe replicare un modello già esistente?, dev’essersi detta: quello che aggiunge vita (femminile) a vita (maschile) è il percorso soggettivo e dunque originale e unico di ogni creatura. Anche le donne che intervistano pongono domande pericolose, perché semplici e vere: viene chiesto di ricordare l’infanzia, la vita intera, viene chiesto di ricordare il futuro, l’idea passata e presente di futuro. Nessuna si sottrae, nessuna manifesta falsi pudori, tutte rispondono generosamente e intimamente: sono donne abituate alla riflessione e alla riscrittura di sé, dunque amano mettersi in gioco, non temono – o non più – di venire giudicate, si prendono il lusso di dire la verità, anche quando le verità sono scomode come quella espressa da Benedetta Barzini, quando definisce la famiglia “un insieme di sconosciuti”, o sono vivamente sincere come quella di Inge Feltrinelli, che dichiara di essere stata "una pessima madre, però divertente". Il tempo che queste donne hanno impiegato per inventare un equilibrio nuovo è tempo che hanno regalato a noi e alle nostre vite. Noi partiamo dalle loro conquiste e possiamo anche scoprire che alcune cose che per quelle vite sono state fondamentali, nelle nostre lo sono meno, o non più. Facciamo l’esempio della scrittura: Dacia Maraini racconta che, quando le donne iniziavano a veder pubblicato quello che scrivevano, sentivano anche il bisogno di scrollarsi di dosso la veste tremebonda e sentimentale che veniva attribuita alle signore con la penna in mano: essere definita “scrittrice” o “poetessa” evocava scrittoi odorosi di violetta e bagnati di lacrime. Eppure, c’erano già state le acutissime ondate dell’intelligenza analitica di Virginia Woolf, la ribellione e il rovesciamento della visione di mondo in Emily Dickinson, l’ardore incontenibile e autocritico di Saffo!, per pescare a caso tra i nomi più noti. Niente da fare, i ramoscelli in fiore e le facili rime in cuore-amore continuavano a sembrare proprie del femminile. Le donne che scrivevano preferivano dunque dirsi “scrittore”, rinunciando alla peculiarità di genere. È stata una rinuncia in quegli anni socialmente indispensabile e forse oggi non più necessaria: proprio grazie alla qualità dimostrata nei fatti dalla scrittura di donne come Dacia Maraini, Elsa Morante, Amelia Rosselli, le scrittrici e le poetesse di oggi non sentono forse più il bisogno di parlare di sé al maschile. Uscite dall’equivoco del sentimentalismo, forse possiamo concederci la libertà di riassumere in una sola parola il nostro corpo e il nostro mestiere, definirci scrittrici e poetesse senza che nella mente di chi legge si formi la figura di una signorinella instabilmente appesa ai pur saldi tendaggi del salotto borghese. Anche perché il mal d’amore delle donne è un male forte e crudo, non il decorativo piagnisteo che piaceva e dispiaceva agli inorgogliti amanti del secolo scorso. Allora, chiudiamo ringraziando questo coro di voci tutte diverse e le due direttrici d’orchestra, che hanno organizzato tessitura e impianto, perché l’esempio della ricerca della libertà aiuta gli uomini e le donne che siamo a essere, appunto, quello che siamo. Qualunque cosa siamo. Antonioni Michelangelo, omaggio a (rifrazioni, 1.13)
io sono qui, caduto davanti a una pietà tardiva e ridimensionata dalla sommossa mi sono giustiziato. quelle gambette in corsa nella neve fresca, ricordo ora che io non posso più aspettarti, muoio – oppure ma nell’occhio terribilmente aperto di Antonioni anche durante la frana delle promesse eterne splende il diamante perfetto e autosufficiente dell’immagine e, insieme a questo insostenuto dolore umano, ovunque in questo cinema c’è una terra che canta. una seconda terra, una seconda voce: prima, siamo davanti a uno scenario che vuole sembrarci fantascientifico – all’inizio artefatto e diluito di Deserto rosso – allo sconcerto di un essere umano di fronte al degrado. l’Antonioni della trilogia della malattia dei sentimenti proietta nel suo primo paesaggio a colori il disorientamento dell’anima, lo fa colare tra la materia grigia dei quartieri industriali, dove il fumo diventa rappresentazione della foschia interiore. Antonioni Michelangelo, Identificazione di una donna (Rifrazioni, 9.12)
Il corpo è bello e semplice come un albero. Quando è al sole gioisce come un albero. Sarebbe così semplice essere felici. Basterebbe guardare. Eppure. Sullo scarto doloroso e a tratti incomprensibile tra natura arborea e amore umano scivolano l’acqua e la nebbia di Identificazione di una donna di Antonioni. Useremo come manuale di istruzioni per la lettura di “questo” Antonioni lo splendido Fondamenta degli incurabili di Iosif Brodskij, 51 parti di prosa dedicate a Venezia. Presto sapremo il perché. Intanto, godiamoci queste prime righe di sempre esuberante parlar d’amore. Perché l’amore è un franco fenomeno di dislocazione delle nostre abitudini in un cielo senza segnali, quasi completamente bianco, al quale occorre dire idiotamente sì, non domandare niente: vi affiora solo il volto dell’amato. Nel film lo slittamento è approfondito dal lieve accento cubano di Tomas Milian/Niccolò. In amore occorre guardare l’altro – qui l’altro è una magnificente Daniela Silverio/Maria Vittoria – come una divinità primordiale che per ragioni a noi sconosciute si è infilata nel corpo tutta la nostra vita e soprattutto la nostra maraviglia, il nostro rimanere davanti a lei fermi a nostra insaputa come idoli. Il vuoto che ha preceduto il tuo corpo ora ha una sua incarnazione commossa, la solitudine che ti ha preceduta ha formato un serio lavoro manuale da compiere sopra e dentro il tuo corpo, che porta uno stemma di stupore sulla fronte, mentre affonda – continuamente solo davanti a me – nell’inspiegabile che avviene nelle profondità della tua carne. E io, Maria Vittoria, ricambio chi mi ha svelato il volto della mia stessa gratitudine. Il tuo corpo è stato definito, realizzato e circoscritto dal silenzio del mio amore. Qui c’è tutta la generosità dei fatti, una necessità buona. Io sono grata alla tua fermezza di idolo. Mentre il vuoto che viene valicato sul corpo di Maria Vittoria è un vuoto astrale: sono le piante dei piedi, i fari delle macchine, i segnali che vengono perduti, il vuoto urbano quando le leggi della natura non contano. Eccolo, Iosif Brodskij: l’amore è superiore, anch’esso è più grande di chi ama. L’oggetto alieno dell’amore immaginiamo sia anche rappresentato dalla formazione anomala sul ramo del pino davanti alla casa di Niccolò – che non è nido né alcuna altra cosa riconoscibile. Ma tra uomini e donne non funziona così. Per lo meno, non solo. A un tratto siamo nel deserto bianco di una nebbia boschiva, luogo popolato da abitatori traslucenti, ovattati, inenarrabili; da pericoli oscuri riassunti nell’incombere di una rapina. Ora stiamo scappando da un persecutore – perché, nel film, la metafora del pericolo chiuso come un uovo in ogni amore, la scoperta paurosa del pianeta-altro – con tutta la sua rete di relazioni fino a un momento fa sconosciute – viene coagulata nella vera persecuzione da parte di un rivale. Dunque la coppia intraprende il suo viaggio nella nebbia per raggiungere la casa comune, che però è una casa sul vuoto, vinta dal tempo che si è scavato i suoi canali sotto le fondamenta – ormai incurabili – della relazione, con i suoi abitatori selvaggi come uccelli: vicini e irraggiungibili. Se scappiamo l’amore è perduto. La nebbia nella quale si confonde la coppia – ora uno non riconosce l’altra ed è perseguitato dai propri sospetti – non somiglia alla nebbia onirica della Elegia orientale di Sokurov, dove ci si incammina a ritroso nei sogni della notte e si ritrova la casa amata della propria infanzia. Questa è una nebbia piena di inquietudine, di passi di sconosciuti e di notizie fosche, è una nebbia dove ci si è smarriti gravemente, un ottundimento rabbioso. Torniamo a Brodskij, che scrive della nebbia veneziana dove l’alto e il basso si scambiano posto (quanto appare appropriato!: qui la bassa, terrestre, psicologica paura sta vincendo su Eros) ma che soprattutto cancella tutto ciò che abbia forma. In Identificazione di una donna Milian/Niccolò è un regista cinematografico che sta cercando il volto ideale della incarnazione di un sentimento che abbia forme femminili in un mondo sempre più impenetrabile, che cambia mentre noi ci interroghiamo sulla sua essenza. Quanto veridicamente la nebbia di Brodskij che azzera la forma è quella che in Antonioni deforma i sentimenti: il tunnel della crisi e della perdita. Lei adesso è tutta esplicita, gli dice: “ho paura che tu rovini la mia vita”, poco prima di un ultimo guizzo di gioia, di una estrema manifestazione di fiducia: ancora in questa cecità, in questo ottuso rumore del cuore, il sesso viene dato come dialogo. Questo congiungimento a cose fatte porta ancora la sua gioia pulita, la sua riconoscenza, una bianca e gioiosa esposizione infantile (Bataille: la soddisfazione sessuale è come il ridere – o il comico – in rapporto con l’ingenuità e la deliziosa assurdità dell’infanzia). Eppure anch’essi, anche Maria Vittoria e Niccolò e la loro gioia amorosa, come i malati di Antonella Anedda, sono marea che si placa, vicinissimi al nodo che l’acqua finalmente distende, ormai così vicini a Le lacrime di Eros di Bataille: Parlare dell’erotismo significa parlare da amante – felice o infelice, al tempo stesso felice, infelice – della vita umana. Significa parlare come il santo parlerebbe di Dio – se potesse coglierne, al tempo stesso, lo splendore inintelligibile e l’assenza, e, nell’assenza, la cieca crudeltà. Perché infine questo amore – incarnato, per lo sguardo virile e bello di Milian, in una femmina fluida e mutevole – si sottrae. E, salpando a tentoni dalla sua nebbia rancorosa e terminale, Niccolò approda nella vita di un’altra donna, Ida/Christine Boisson, che non porta ebbrezza: una donna terrestre, per dirla con Marina Cvetaeva. Volevo che il mio amore non finisse – scrive Anedda – che resistesse intero – in disaccordo / perfino col ricordo e ignorasse il corpo / che da me si scostava. Forse l’amore di Niccolò, quell’amore più grande della sua psicologia umana, quella entità con il nome di un dio che gli ha svelato il suo stesso volto, è ancora insediato come una macchia d’oro nel suo sguardo, se egli ancora cerca di ripetere il miracolo umano. Ma ecco il paradosso, la vera crudeltà di Antonioni: tanto Maria Vittoria era l’opposto di Niccolò – lei aristocratica, scivolosa e attratta (anche) dalle donne – tanto il pensiero di Ida pare essere un inno alla natura semplice di lui. Lei sembrerebbe la risposta ideale: sotto la casa di Ida anzi che gli iniqui e inafferrabili volatili di Maria Vittoria c’è il solido spargimento di cavalli di prato che Ida vuole ci sia: “Io – dice Ida – sono d’accordo su tutto quello che mi capita”. Eppure. Ida per Niccolò non rappresenta mistero. Ida è cosa di terra e la terra è colei che non basta a chi “indaga”. L’amore non è altro che mistero. Ora Ida e Niccolò sono nel vuoto di una laguna. Ora il deserto è amaro e traboccante d’acqua, ha il colore invernale dell’acqua aperta appena fuori dall’enigma terrestre di Venezia (non è più il deserto rosso dei fumi industriali, dei conglomerati di tubature e delle discariche fumanti dei primi anni Sessanta: un primo vasto tradimento della natura è già stato digerito dal nostro inarrestabile adeguamento psicobiologico), ora siamo in un piattume d’acqua grigioazzurra, in una tetra vastità interiore, la piccola estensione dell’infinito possibile in terra. Ed ecco, finalmente dal vivo, la Venezia di Brodskij: acqua è uguale a tempo, e l’acqua offre alla bellezza il suo doppio. Queste parole furono scritte nel 1989 e non posso non usarle come chiosa d’autore alla soffocante, agorafobica scena lagunare girata da Antonioni nel 1982: qui siamo nella replica terrestre della bellezza divina dell’amore, siamo nel vuoto fitto della realtà. Lo dice proprio adesso, Niccolò: noi immaginiamo sempre la felicità dove non siamo. “Qui” è “dopo” (acqua è uguale a tempo) che è avvenuto ogni rimpianto, è dove l’uomo non cede all’evidenza della sua solitudine e, quando cederà – perché Ida è talmente intrisa di realtà che sta già portando avanti una gravidanza – sarà per fissare direttamente il Sole, perché il corpo-sole è perduto ed è inutile rattopparne l’immediata e cocente mancanza con sempre nuovi corpi terrestri. Maria Vittoria resta l’inconoscibile dell’amore. Il suo dono. Il dono divino che crudelmente e imprevedibilmente si sottrae e ci lascia da soli come bambini nell’aperto di una laguna, alla superficie della bellezza (e l’acqua offre alla bellezza il suo doppio) e, fallito il nostro ultimo tentativo con la realtà, ci lascia senza altra soluzione che affrontare direttamente la sorgente di luce, sperando che – come Il Sole-Hirohito di Sokurov – si arrenda anch’essa, ci si faccia umana. Ma il mistero rimanga, ci suggerisce invece l’alter-ego bambino di Antonioni alla fine. Certo, che l’uomo sondi tutte le leggi della distribuzione della materia. E dopo? Mistero sia l’amore e mistero restino i suoi simboli solari e l’identificazione non riesca – o sia esclusivamente negativa, montaliana: ciò che non siamo e ciò che non vogliamo. Niente altro che questo cercare, la creatura che dura nell’attesa, niente altro che questa creatura che fissa il sole e dura nell’attesa. Altri articoli...
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