Sulla bocca di tutti (Crocetti, 2010)
Premio Napoli 2010
ascolta “Sulla bocca di tutti” a Radio3 Suite (24.6.10)
La chiara circostanza
La clamorosa dolcezza delle clavicole, la percussione cessata
dei finimenti muscolari, le valvole
che l’hanno finalmente abbandonata
sulla terra, l’angolo umile che fa la testa
per celare il sorriso
sulla cruda colonna del corpo
dice: ti ho aspettato per tutta la vita
ho visto la tua vita
nei miei sogni e tutta, notte
dopo notte, si risolveva nel perdono. In certe svolte
quando il cielo pieno di meraviglia coincideva
con la bolla degli alberi agitati dalla piena
luna, io mi svegliavo
per causa dei tuoi sogni
e portavo il tuo nome come una bandiera
che saliva dal petto e mi rendeva
invisibile: di me
si vedeva soltanto il tuo nome. Io sapevo
che avremmo dovuto terminare vicini
qualunque cosa nel frattempo fosse stata di noi. Adesso
eccomi, sono qui per finire
nella tua fine, per aspirare l’ultimo respiro
dalla tua bocca
e soffiarlo attraverso la bocca
che dopo te nessuno ha più baciato,
al cielo.
Arietta dei bambini
L’aria, la prima
che hai respirato, era aria di marzo e di mattina.
Il sole
ardeva quieto nella sua onda
dalla finestra grande perché grande
era il cuore
e disinteressato
come il sole che appoggia la sua luce sulle acque
del fiume
e naviga chiaro
fino al mare
dove lo spazio è tutto attraversato
da fischi di gabbiani e piú niente
fa male. È bello custodire
l’aria nuova sul viso di chi nasce, con mani
umane conservare
sacro il sacro, fare l’aria piú chiara dove tocca
il cuore, perché il cuore sia semplice e leggero
come un aquilone
e altre cose che vanno dalla terra al cielo.
Bello è dire farò quello che posso
e piú di me, come tutte le altre sulla terra: prendi,
vita
dalla mia vita
la tua innocente libertà.
Il corpo materno della poesia, Giovanna Frene in Passione Poesia (Edizioni CFR, 2016) – Il motivo della violenza della storia e della sua possibile espressione nella poesia è centrale in questo, come in altri, simili per taglio e per intenti, testi della produzione poetica di Maria Grazia Calandrone, e va ad intrecciarsi a un altro motivo capitale, sotteso a tutta la sua scrittura, ma vivissimo appunto nella raccolta Sulla bocca di tutti: il corpo materno della poesia, la morte e la gioia. I fatti sono noti: 560 civili – donne, vecchi, bambini e in parte uomini – vennero trucidati a Sant’Anna di Stazzema nei modi più efferati dagli occupanti nazifascisti, a partire dalle prime ore del mattino del 12 agosto 1944. Chi racconta la vicenda è la voce oracolare, quasi in trance, di un testimone che all’epoca dell’eccidio aveva sette anni e che oggi, come i custodi della memoria di letteraria tradizione, torna ogni giorno sul luogo stesso del massacro della madre (“Torno dietro la casa tutti i giorni”) per ritrovare quell’accordo con il fare naturale che la violenza dell’uomo sull’altro uomo ha distrutto. Ma chi, anche essendo testimone, di fronte a tali crimini, però, è autorizzato a dire qualcosa che non risulti oscenamente retorico, se non colui che ha ricevuto un battesimo non di fuoco, ma di sangue dal corpo stesso della madre nel momento in cui veniva colpita a morte: avevo avuto addosso come uno spruzzo d’acqua / benedetta mia madre? La testa della madre, “come un bello strumento scomposto”, è quello stesso “muro con crepe” della strofa finale, da cui, cresciuto all’interno della voce salmodiante “in una solitudine perfetta”, scorga “purissima la gioia” di parole (poetiche) che non sono narrazione, ma essere stesso del testimone.
Ciò che non si deve cercare “altrove”, per certi versi, allora non è solo il corpo e la voce di chi parla, ma anche i luoghi dove i fatti sono accaduti, e perfino le tracce dei morti, ricapitolate queste, infatti, nella presentificazione della voce, la quale ha la capacità di far riemergere i volti stessi dei bambini bruciati con i lanciafiamme, i loro nomi – e ancora una volta, i loro sorrisi sono emblemi di una gioia ineffabile, contro cui nulla può il grigiore del corpo ormai diventato cenere, e come tale scritto su un monumento commemorativo. E anche, la poesia è dare corpo alle cose, attraverso le parole, nominando cioè le cose per quello che sono: la voce della madre che urla il nome del figlio affinché si metta in salvo rivela per primo il corpo stesso della madre, ed è un suono che macchia l’aria tanto è l’intensità della voce che promana dal luogo “poco sopra la cassa di risonanza del cuore”. Così come il corpo diventa santo, reliquia posta in essere dal nome, allo stesso modo, i luoghi, reliquia dei fatti, diventano santi nei segni della memoria illuminati dal linguaggio: il sole che ritorna a riempire le mura del paese, il pane che conserva nella sua fragranza i colpi sparati nei campi dalle mitragliatrici. Allora come ora, si ripete perciò nella memoria linguistica il rito tremendo accaduto “quella mattina presto”: il cammino osservando a distanza, le campane, l’attesa, il rientro, l’abominio del massacro di massa, la desertificazione di ogni vita nello sguardo dei morti, le urla bruciate, i bimbi arsi col lanciafiamme lungo la strada delle rose.
Non è il governo che può risarcire con il denaro l’immane danno, ma proprio la sua riproposizione linguistica all’infinito, perché tale è il segreto tendere di ogni memoria: l’infinito essere presente. Con echi certamente ungarettiani, nell’intimo della voce parlante è vivo il paese devastato di allora (“muto con crepe”), parallelo al paese rinato che si erge davanti agli occhi (“La domenica riempie di sole le mura / del paese”), tanto quanto per il fante Ungaretti il paese più devastato era il suo cuore (San Martino del Carso). E questo passaggio nella tradizione non è casuale, perché permette lo slittamento dal soggetto-testimone al testimone-poeta, che d’altro canto trovava la sua raffigurazione perfetta nei modi di porsi del sopravvissuto, specie per quanto concerne, si è già visto, la connessione linguaggio-corpo-cose: ma da questo punto di vista, allora, il tragitto del fare poetico si configura rovescio: non è più il poeta che nomina le cose, ma le cose che, rivelando il di lui nome al poeta, appaiono fisicamente. Cosicché la poesia viene a configurarsi come fluido linguistico che prende atto dell’esserci fisico dei corpi e delle cose, che si fanno mediante la parola poetica, e il poeta scrive e parla come in trance una lingua che semplicemente registra ciò che la attraversa – che è esattamente il punctum dello stile, magmatico e assieme preciso, di Maria Grazia Calandrone: la sua “purissima gioia”.
Alessandro Seri, RESISTERE E COMBATTERE in “AbsoluteVille” (motivazione premio Poesia di Strada 2010)
I percorsi, siano essi umani o geografici, necessitano di regole basiche tramite le quali orientarsi. Camminare attraverso il tempo, lungo una strada, ai bordi di un precipizio implica un equilibrio costante accompagnato dal coraggio incostante, perché non sempre si può aver coraggio. Maria Grazia Calandrone racconta tutto questo percorrere con una naturalezza che sembra quella del lenzuolo teso appena prima di essere piegato. Il raro incontro con la poesia a volte disarma per la sua semplicità, anche quando, come in questo caso, la complessità è tutta stilistica e si contrappone con sguardo forte e sereno ad un raccontare i grandi eventi della vita nostra e normale. L’attesa, il perdono, l’accudire corrispondono ai moti santi per i quali vale la pena vivere, per i quali si accettano le sofferenze del quotidiano e anche quelle extra ordinarie. I gesti umani si fanno più poesia dei pensieri e la consapevolezza è l’equilibrio di cui sopra, quello che ci mantiene dritti, che ci dona la naturalezza della posizione eretta, la regola appunto. Anche una possibile mistica propensione o idea può concedere la stabilità del cammino, qualunque esso sia: la discesa, la strada sconnessa e la scala verso un qualsiasi ipotetico paradiso. La binomia equazione del vivere terrestre dove le soluzioni possono essere una, due o nessuna pure, mostra come nella cura dei testi sia sempre presente un doppio, un simbolo che va al di là del detto: la poesia quindi. Comprendere questo rivolo di ragionamento rende più umano l’autore e concede una minuscola grazia al lettore. Eppure, tornando al luogo incriminato degli umani, quello chiamato terra, si può cogliere il disordine nascosto del pianto e quell’ansimare felice e sfinito della corsa. I cieli, le zolle di terra, gli orti ed i cortili, le case. E persino le città, nelle estreme periferie, possono salutare la discrezione di un sorriso riflesso che equivale alla speranza, alla forza, alla semplicità del resistere e combattere.
Raffaele Piazza, www.poiein.it, 9.2.11 – […] Sulla bocca di tutti è un libro caratterizzato da una fortissima densità sinestesica e semantica, e c’è, nel procedere dei versi per accumulo, una forte urgenza del dire, una forte tensione che è etica ed estetica. La poetessa raggiunge una forma trasparente ed elegantissima, sorvegliatissima, in una raccolta in cui ogni elemento detto è ottimamente risolto, con una dizione sorvegliatissima: sono frequentissimi i versi lunghi, caratterizzati da un’ottima connotazione espressiva. Nel susseguirsi dei versi l’io poetico si dipana in maniera omogenea in una lingua lirica tagliente e subisce una mitosi, cioè quel processo di filiazione, di separazione cellulare, sdoppiandosi dalla prima persona della scomparsa, di una madre “pazza d’amore perdutamente incatenata”, al soggetto ricordante e figliare, l’autrice; da un luogo cioè segreto e mitico della memoria individuale al “guscio esterno della terra”. Sulla bocca di tutti, presenta una forte ambivalenza, tra la chiarezza narrativa dei testi e la complessità dei significati, nel loro riflettere incessante sulla vita, una vita considerata a partire da una natura inquietante, che viene interiorizzata; un pregevole esercizio di conoscenza. Si prova in tutta la stesura del testo un forte anelito verso l’assoluto […]anche in questi versi, che hanno per argomento l’attentato dell’undici settembre alle Torri Gemelle, incontriamo un forte senso della fisicità nei molari scheggiati per il digrignare durante il sonno; qui viene detto il peggio con una descrizione di inferriate, cemento e macerie: vengono dette le sensazioni di alcune vittime del tragico evento e la descrizione ha un carattere fortemente numinoso e materico. La scrittura di Maria Grazia Calandrone non è leggera e presenta una certa velocità e tutto è imperniato sul senso del sentire, del percepire dell’essere umano, anche in terza persona, del mondo, della realtà esterna che, generalmente, ha una forma naturalistica. […] Anche in Sia fatto di me, incontriamo la figura della Vergine Maria, descritta in un modo tale da essere fortemente delineata nella sua semplice umanità. Si tratta di una poesia sul tema dell’Annunciazione. Variegato e incisivo Sulla bocca di tutti, un testo tra i più significativi tra quelli pubblicati recentemente in Italia.
Se la poesia per noi (così come in Mandel’stam) è parola-campanello di Pavlov che risveglia la vita e i sensi (e con essi il pensiero, la memoria e l’azione cerebrale), ogni singola sillaba intagliata nelle pagine lignee di questa Opera contiene e trasporta gli odori della terra bagnata e tiene la consistenza ambigua della riva, cioè di quel limbo di naturale ambiguità dove gli elementi della vita e della non-vita si sciolgono, dove riverbera il suono delle felci sfogliate e del legno franto al passaggio umano: «la prima volta che toccavo cosa non umana: la riva / era la prima cosa naturale ad essere / fuori di me nell’aria / sentimentale / per lo sgomento di aver concepito / il materiale di cui sono fatte le cose / non umane». (Scrive Agamben in un saggio dedicato all’amico Giorgio Caproni di come la memoria umana sia assolutamente non idonea al trattenimento musicale, incapace di ripercorrere il minuzioso concerto dei segnali sonori di un bosco, legati l’un l’altro da un’incessante struttura che è possibile comprendere ed avere solo nell’esperienza vivente del passaggio. E la poesia, o meglio dire: il pensiero fonico, è quanto di più somigliante a tale esperienza.).
Dove ci conduce nel libro di Maria Grazia Calandrone questo sentiero, questa selva sonora, questo “bello”? Ad un evento tragico, la morte. Ci conduce cioè all’emergenza del “tremendo” di cui parlava l’elegia di Rilke.
In questo senso l’Opera è un vero e proprio ciclo, il cui primo verso ci dice che «La terra era bellissima» e l’ultimo (una sorta di preludio al silenzio dell’assimilazione) chiude con queste parole: «Io più di questo non potevo fare per mettere argine a questa fine».
Si dovrebbe meglio definire questa interpretazione dicotomica tra la “bellezza” e la “fine”, perché Sulla bocca di tutti è un’opera liquida, in cui i due poli dell’interpretazione umana vengono sciolti in un unico corso fluviale di grazia e cenere, lutto e battesimo, sangue e neve: «lo sposalizio segreto» (sono parole del libro) della «luce nelle ossa».
Di cosa stiamo parlando, o meglio: di cosa ci sta parlando il libro, è presto detto: l’evento, l’irreversibile momento di questo viaggio nell’universo della memoria fisica (e cioè di quella memoria che si manifesta da sé nelle eco dei sensi, in una continua apertura di passaggi segreti e digressioni), è il suicido materno, che da un’origine misterica dell’infanzia torna ed emerge come un’emergenza da affrontare, un’esigenza di portare luce e chiarezza sopra un nodo coagulato di senso rimasto coperto, omesso; come una chiamata a scendere, «col passo e col pensiero», in un abisso fondativo dell’esistenza individuale.
La parola poetica di Sulla bocca di tutti ha la consistenza di una bacca di sangue, come il sanguinaccio dei piccoli paesi rurali, un rubino che si aggruma sul fuoco coagulando il sangue del vitello ucciso, e che poi si scioglie e rivela nel palmo della mano, al calore della condivisione.
Anche il mistero di questo libro si rivela a partire da ogni sua singola parola-gemma, coagulata di senso e suono, nella sua crudeltà di storia privata e reale: la scomparsa materna nelle acque del Tevere.
C’è un coraggio duro, di confessione e adiacenza, di fedeltà al dolore vissuto e vivente, che in un ambiente letterario (e in un’antropologia nazionale) sempre più prede della vergogna e della ossessione patologica e schifiltosa nei confronti della sincerità non educata ai canoni dell’ipocrisia (o del travestitismo) può risultare (addirittura) sconvolgente, esplosivo, vulcanico. Si tratta invece di un bagno di delicatezza, di un raffinato naufragio, elegante come l’ordito ritmico, la trama prosodica, lo stile della costruzione del verso e delle dilatazioni apparentemente prosastiche dei proemi.
L’io poetico, che si dipana in maniera omogenea e in una lingua lirica cristallina e tagliente (la lingua della poesia, da Petrarca ad Amelia Rosselli), subisce (come ne Lo specchio di Tarkovskij) una mitosi, cioè quel processo di filiazione, di separazione cellulare, sdoppiandosi dalla prima persona della scomparsa, di una madre «pazza d’amore perdutamente incatenata», al soggetto ricordante e figliare, l’autrice; da un luogo cioè segreto e mitico della memoria individuale al «guscio esterno della terra».
Ho spesso avuto a mente un’immagine di Umberto Saba, un verso dalla poesia “Il torrente”, in cui l’acqua del fiume «dove ristagna scopre cose immonde».
Le cose immonde di Saba sono le verità emerse, spinte dal di dentro dell’inconscio al di fuori (sue definizioni) della scrittura, come un Cuore messo a nudo del nostro Baudelaire italiano.
Maria Grazia Calandrone scrive: “Ecco il mio cuore / più mio.”. E scrive ancora: “Non cercarmi altrove: sono queste parole.”.
Io credo che ci troviamo di fronte ad un’opera molto significativa ed importante, che mi ha fatto pensare anche alla centralità di un’altra opera-confessione e rosario come il Requiem di Anna Achmatova.
In un’epoca di dispersione e rimozione, che ha abolito capacità di raccoglimento e di scavo interiore per far posto ad una solitudine di massa istericamente taciuta e falsata, una ricerca autenticamente solitaria (la «solitudine perfetta», la definisce l’autrice) di assimilazione del sommerso e consegna della verità ritrovata, assume forse una posizione talmente morale (davvero una fedeltà, un “Compito” per tornare a Rilke) da risultare, ben oltre la dimensione della confessione, una presa di posizione storica, un approccio nei confronti del vivere e dello scrivere, del pensarsi e del dirsi, che ci riguarda direttamente e storicamente.
Bisogna guardare a fondo, nelle acque del fiume.
“Lo sguardo di mia madre era spaventoso – sotto lei era un mare di corpi coperti nell’anima – io tacqui come fanghiglia nera”.
Quindi l’amore. Non è un partito preso, in Maria Grazia, come sovente accade, quello di irridere a trappole umane sofisticate con grazia, torbidi marchingegni di menti raffinatissime tese al dilaniamento del proprio simile, orgoglio di potere. No, per Maria Grazia paradossalmente il Potere è estinto da un pezzo, e l’horror ispiratore è solo una “insipida calca di neve che l’inverno sottrae ai nostri volti per ammucchiarsi sopra le campagne come un cane evaporante, lunatico”. Per Maria Grazia il dado è tratto da tempo immemorabile e la sua nuova etica di vita, riconoscibile a fiuto, è quella di avallare i bisbigli amari e acidi, come si concede amore ad un soldato in pausa dalla trincea, tacendo sulle sue contraddizioni di uomo-terra, perché da dove viene e dove andrà non c’è bisogno di humus che non sia se stesso.”Abbiamo – terra e rogo, sul volto, rimasugli di sangue, l’estasi”. L’estasi secondo Maria Grazia: reggere lo sguardo al sangue mentre si è costretti, a fare l’amore.
E quindi, “Posa il tuo piede sopra le mie spalle, adopera la scala delle mie vertebre che reggono l’atlante cerebrale, per calzare nel sacco della pelle l’autosufficienza della tua forma”. Beninteso, così facendo non è che Maria Grazia si escluda dalla portanza di un dolore proprio, tacendone l’interposto, lei sa che le costerebbe l’elusione dalla sua identità così vitale per la sua stessa morte, compagna di vita di morti analoghe, vestite di estatica compromissione. E così si tende, a “trasformare in ancora più amore il disastro che ha fatto la tua croce nella mia vita”. E’ chiaro, chiarissimo. “A trasformare l’osso esposto della croce nell’aprile del non voler morire”. Lei, per cui morire equivale a vivere, cioè nulla.
Straordinario, amore e morte che si fondono in una inedita, questa sì futuribile, incrollabile robusta fede nell’uomo e nella sua fine. “Inserisci la lingua nel fermaglio e domanda la grazia del martirio”. E’ questo l’amore, cautela del trapasso.
“Non creare eccessiva sofferenza all’animale durante il sacrificio, controlla che la lama sia tagliente”.
struggenti dense di allusion tragiche, che spesso ricordano le oscure visioni di Paul Celan:
“Il fiume è viola / mio plumbeo paramento profano: / sono concime fatto per trasformarsi
in luce / sono passato per l’intestino di carpe, rovelle e anguille / e tutto si moltiplica e si arrende / dentro l’acqua corrotta dal dolore”. Nel suo nuovo libro Maria Grazia Calandrone si conferma come personaggio singolare e affascinante.
Entrare nel suo complesso mondo poetico non è sempre facile, ma è stimolante e suggestivo.
Dante Maffia, “Polimnia” n. 23, 1-2.12 – Il mondo odierno, il mondo antico, la memoria, il mito, la scia di idee, di sensazioni, di sentimenti che tra loro cozzano e si divincolano dal mistero per trovare una dimensione umana, perfino troppo umana. E le atmosfere sibilline, in pagine che fanno rimbalzare le parole da un senso all’altro, da un’improvvisa verità che però non resta ferma nel suo guscio e si trasforma in ritmo sincopato del dire quasi negandosi al senso. La scrittura di Maria Grazia Calandrone ha qualcosa di imprendibile e di magicamente alto, è come se le parole fossero oggetti contundenti che tuttavia non vogliono fare male, ma squarciare il significato in modo da farlo diventare un atto della quotidianità. “Io non sapevo reggere tutta quella importanza, io stavo / con i cani che scintillano nel crepuscolo / con i meli che stillano il calore / del pomeriggio e una mollezza di verdure estive nei bracieri / e un creparsi ossidrico delle conche del cuore..”. È un roteare continuo, ininterrotto di immagini che fluttuano verso il dissolvimento per cercare di afferrare la recondita parvenza dell’essenza. Così tutto si adombra di qualcosa di indefinito soprattutto quando la Calandrone definisce e porta la lingua sullo spessore del reale. Il diafano sembra possedere il suo spirito e quindi ogni cosa si trasforma in un canto che sembra arrivare da lontananze estreme, dove ancora la razionalità è un’infanzia dorata e imprendibile. “Io dimentico il male / ma ricordo una terra che odorava di ruggine e d’inizio / con fiori di sale nelle ossa / degli asini domestici / che emergevano dalla madre / erosa”. Versi lunghi e versi brevi si alternano creando una sorta di fibrillazione ritmica che non permette di fermarsi né sulle descrizioni né sul paesaggio né sulle idee: tutto rotola in un incessante angelico-demoniaco librarsi di accensioni che svelano e negano, che accendono linfa per ulteriori accessi al divino e al misterico per subito dileguarsi. Del resto a un certo punto la Calandrone scrive: “Ci fu un tempo del quale rechiamo le tracce. Ma comunque / la musica / delle apparizioni bisognava che si sentisse molto male / come da una radiolina / a transistor”. Mi sembra che questo possa essere un esempio probante del procedere della poetessa che ha in sé il dono del magma da cui attinge a piene mani, spesso portandoci dentro climi di tenerezza e di dolcezza e più spesso disorientandoci per l’afflusso di materiali perfino inerti che condiscono la sua parola. C’è in lei, forte e decisa, la forza di un dilemma che non riesce a trovare la direzione e così tutto si avviluppa in un farsi e disfarsi che scintilla di metafore, di sinestesie, di affondi musicali che vanno disinvoltamente dalla musica classica al jazz, dal canto gregoriano al rock. A volte addirittura alcune pagine diventano stupore di pittura primitiva, fiato di vulcano.
Non si tratta soltanto di una consapevolezza letteraria di continuità e contaminazione creativa, né di una coscienza storica tout court che sarebbe, d’altra parte, banale enunciare come uno dei capisaldi del proprio poetare. Si tratta, invece, di cercare nella doppia direzione biografica ed emotiva (ben intuibile alla luce degli eventi a tutti noti, perché fatti oggetto all’epoca del loro accadimento, dai mass media); ma soprattutto in una singolare dimensione panica e metamorfica, secondo la quale gli elementi della natura e gli uomini, pur costituendo il territorio della “Signora della Perdita”, sono entrambi destinati di nuovo, ogni giorno, a fiorire. Così, la dolorosa necessità della vita, mentre si addobba di segnali di morte, parla anche la lingua della gioia, della forza vitale che pretende nuove terre da arare e nuovi semi da spargere per altri fiori e frutti, rendendo vicinissimi e del tutto simili i corpi di tutte le creature terrestri.
Una caritatevole ed insieme gioiosa curiosità spinge la Calandone a guardare dentro i corpi e le loro strutture; e da questo sguardo ostinato ed amoroso si genera quell’abbondanza quasi barocca di parole ed immagini, che non hanno affatto, però, in sé l’horror vacui, ma, invece, quella consapevolezza della grazia a cui fa posto “il corpo che si perde poco a poco”. Ed è grazia di voce, allegria di parole, poesia. Ecco che bisogna tornare al personaggio di Maria, cui prima accennavo, perché Maria è un simbolo gravido di molteplici sensi, significando la maternità in senso doppiamente biografico ( la madre morta d’acqua, la poeta stessa anch’essa da poco madre di una bimba), la maternità come vitalità fecondante, l’amore come servizio e destino, la morte come sacrificio di sé, ed infine, la poesia stessa, ossia il parto di parole annunciato dall’angelo che ha “la crepa profetica del forcipe alla sommità del cranio e una valva d’etere nel petto”. Da qui il rovesciamento dall’evangelico: all’inizio era solo il Verbo in all’inizio c’era il corpo.
Una congerie di filamenti, una piena di sangue e di ferite e di carni aperte da ferri chirurgici, straziate, enfiate, e muscoli, e membra umane ed animali, elementi vegetali, si accumulano, travasano le loro appartenenze in un solo spettacolo, ossessivo e di rara potenza espressiva, di disfacimento in attesa di risurrezioni, poiché proprio al confine tra uno stato e l’altro si accende la luce che rivela e che ridà senso e colore alle cose. Ciò che sta per diventare invisibile di nuovo trapassa nel visibile e canta il suo esserci, il suo destino che resta per sempre inscritto nel tempo.
La morte che passa e falcia (immagine che ricorda certe celebri tele medioevali) giunge spesso con il passo della guerra, la cui presenza, in quanto attraversa molti dei testi di questo libro, costituisce anche il tramite dell’immissione della storia personale dell’autrice in quella più vasta del mondo. Sono riconoscibili, infatti, molteplici allusioni alle guerre combattute nel passato e nel presente e, finanche alla tragedia del crollo delle due Torri gemelle. Chi non ricorda quelli che, per sfuggire al fuoco, si gettarono dalle finestre dei grattacieli? L’immagine della ragazza, che tutti abbiamo visto, la quale come una foglia si staccò da sola / dall’albero cavernoso del grattacielo si fissa sulla pagina dopo la doppia affermazione: Ad ogni cosa caduta / corrisponde una luce e Pensa che se tu cadi fai luce, poiché anche lei, avvinta dalla sua “paura primordiale” “al centro del miei occhi batteva la luce”.
Guerra e morte non si contrappongono, ma si affiancano alla ricomposizione ed all’amore; in questa nuova ottica bisogna leggere anche i testi della prima sezione Quando non eravamo, i più autobiografici, che mettono in scena l’archetipo letterario di amore e morte sotto forma di un compianto pronunciato dalla donna, già morta, al suo amato anch’egli morto, sposo mai terrestre, dove, fra l’altro, quegli accenti di liricità tanto diffusa nella poesia di Maria Grazia Calandrone, giungono a dei vertici di straordinario impatto, nonostante la qualità topica dei sentimenti espressi.
La liricità della poesia di Maria Grazia sembra nascere da una serena pietas e da un indomito amore nei confronti della vicenda esistenziale e trova i luoghi migliori nelle sue manifestazioni estreme: la tragicità e la bellezza spesso congiunte, poiché entrambi segnali della dolcezza inesplicabile dell’effimero “Lui ha le braccia incrociate sul petto come roccia / nera / e cocci di mandibola nei seni nasali: l’emorragia / cerebrale salita come bistro fino agli occhi lo faceva più / bello e più felice.
Il linguaggio usato dall’autrice, complesso, singolare e maturo, denota un lungo esercizio sul codice comune di comunicazione, alla ricerca di uno stile. “Dire con stile – afferma la stessa Calandrone nell’intervento già citato – è divenuto sempre più indispensabile. E, permettetemi di dire, tanto più necessario alla società quanto più la comunicazione sociale diventa fittizia, deviata, falsificata come in questi nostri tempi di rimozione globale”.
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!