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Guglielmin Stefano (11.11)

STEFANO GUGLIELMIN, Canti dell’amore coniugale
a cura di Maria Grazia Calandrone
su Poesia n. 265 – novembre 2011
 
Guglielmin canta l’amore in atto, il difficile amore coniugale (doglia), l’amore bello (grano) e talvolta guerriero degli sposi, non l’amore ideale – perduto o impossibile – ma quello che si porta a una compagna. Al suocorpo, direiFrutto: dove è subito ammesso lo stupore pregresso di ogni maschio per il corpo di lei, l’altra, che frutta. Ma non basta. Né risulta opportuno l’antefatto maggiore di ogni canto amoroso: Beatrice, che trasporta il poeta con la sua assenza sotto la grande fiamma del divino, perché questa che appare nel canto di Stefano Guglielmin è una intera femmina umana dalla presenza frontale, una che attacca discorso col mondo e si prova i vestiti ai grandi magazzini trattenendo il fiato per riuscire a infilarli. In questo canto contemporaneo non assistiamo dunque all’oratura sacra delle angelicate, né a una donna composta – come un bizzarro quadro di Picasso forse difficile da far “quadrare” – da letto, latte e focolare, ma è presentato un gesto femminile completamente privo di retorica, l’apparire di una creatura franca, brusca e spoglia, che muove al mondo e, attraverso le cose che si toccano, lo trasforma. E trasforma anche il cauto osservatore che scrive. L’amore è sempre il coltello (“Tu sei per me il coltello col quale frugo dentro me stesso”: Kafka, Lettere a Milena), la lama pietosa e feroce, la mina nelle nostre fondamenta, la nostra possibilità di smottare sperando – solo sperando – nel rifugio dell’altro che si è fatto nostra ricreazione e ri-creazione. Ma puoi plasmarmi fino a dove io mi lascio toccare. Guglielmin osserva bene questa creatura strana, la analizza molto attentamente, vede il corpo vicino alla sua vita, ne descrive le gesta da una – troppo esposta per essere vera – posizione minoritaria e con una qualche ironia dichiara che vorrebbe a sua volta fruttare. Ma al condizionale! Questi Canti d’amore sono infatti una specie di piccola rivelazione umana osservata da uno sguardo non compiaciuto di comprendere tutto – che infatti mostra a volte il sopracciglio un poco sollevato – non mimetico, ma veramente “estraneo”, che ha avuto l’intelligenza di conservarsi una propria estraneità nei confronti dell’essere amato, un proprio essere “altro” dal quale può provenire l’amore come l’ininterrotta emanazione di un sonar, la radiazione di un altro pianeta che, ove sia troppo vicino, si distorce e rischia il grottesco. Ecco la dizione di due orbite davvero mature che non rinnegano niente, nemmeno il pozzo degli amori passati, nemmeno il nominare certe scomparse (pure per via di gas e impiccagione) che sembrano accorrere e occorrere per salvare a contrasto questa reciproca salvezza, questo cerchio di bene – perché “due” forma l’inattaccabilità della sfera: priva di angoli, esposta in tutta la superficie e per ciò stesso inattaccabile, scivolosa – che si chiude, salda sé su se stesso con una invocazione alla meta e metafora d’acqua finale dei morti, perché renda a lei dolce il trapassare, un giorno, e interamente fruttuoso di uno slancio d’erbe senza altre parole, senza neanche memoria. Stefano Guglielmin riesce a fare poesia senza operare alcuna trasfigurazione del reale, il suo essere poeta sta nell’esporre il mondo così, intero e privo di giudizio, ma radiante una commozione diffusa: latente, minerale, obliqua, dal ciglio asciutto e certamente adulta. L’espressione “stato di maturità” mi pare descrivere bene la provenienza biologica della parola di Guglielmin rispetto al reale che in questo caso è la vita movimentata della compagna. La sua assenza di enfasi è rassicurante e virile. Stevensoniana quanto a immanenza. Anzi: husserliana, perché non va dimenticato che lo scrivente è laureato in filosofia. La voce che canta in lui è infatti tanto più alta quanto più è terragna e non invoca che terra, al punto di chiamare Dio, dopo un unico Oh – che in un contesto simile è quasi perdizione –, pastore del bestiario. Ecco l’umana bestia, la mia donna. Abbine tu la stessa compassione che ne ho io, lo stesso amore capofitto. Se puoi

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