La scimmia randagia (Crocetti, 2003)
L’orto è dove si nasce
… io sono straniero e povero. E passerò;
ma nelle tue mani deve restare tutto ciò che un
tempo, se fossi stato più forte, sarebbe potuto
diventare la mia patria.
Rainer Maria Rilke
E’ luce quasi solida quella che medita e si articola in basso lungo gli snodi glabri e superficiali del vigoroso
deliberare radicale sotto i campi
visibili e invisibili, sotto la capriola dei bambini
che raggiunge dio in petto come un sobbalzo
e un rimpianto
di quando anch’egli fu umano
e piccolo, perfetto
come struggente e perfetto è quello che deve finire e con poveri mezzi
inutilmente tentiamo
di conservare – fingendo
di ignorare che infinita è la perdita e infinito
rende quello che tocca.
introduzione alla felicità
Ora abbandona le mie parole, abbandonami lentamente
in un rumore umano di martelli
che quasi culla il mio sonno. Credi alla maggioranza del corpo
e ai galli rochi della campagna. Forse
amerai come me il sole a perpendicolo sui campi, quel bollore di terra
che sembra un corpo che ama, e crederai alla schiena impietosita di un uomo
che però scampa al suo destino.
Credi alla prosa calda e senza civetteria
degli acquedotti, alla masserizia macroscopica del bagliore del mare
sulle credenze colme
di tazze inglesi
e tovaglie, credi a quello a cui io non ho creduto, anche mentre addormentavo
il tuo piccolo corpo onnipotente
che inverava il mio corpo
disarmato dal tempo. Sei il solo ospite di sangue
di una creatura senza stirpe. Domanda dunque
alle conifere, alla presa pigra e ostinata delle tue dita
nella scarpetta di gomma, domanda alla realtà – a un sestante
di argilla – il giusto
o l’umano
tra i filamenti del mattino, la nostra data di deposizione: quello che si dimenticherà
di noi, e quello che dimenticheremo, annientati e contigui. Il resto
avviene nel buio
di un mondo nostro senza più abbandono.
Estratti critici
Maria Grazia Calandrone, La scimmia randagia (2003) Epica e politica, assoluta e senza assoluzione, teatrale e combattiva, offesa e inoffensiva, la poesia della Calandrone nasce per essere detta, è dettato che si fa atto. Ne filai gli esordi, ricordo, all’inizio del millennio, che restano ancora statuari. “E la parte arcaica del cervello intravede/ nuvole in cielo cattive e poi copre il tuo volto nel crematorio bianco.// File di pioppi nel silenzio atomico. Dalla disadorna anemia delle erbe/ sale il Te Deum, la lode”.
Biancamaria Frabotta, “Poeti e poesia” (Pagine, maggio 2004)
[…] Ecco, quando senti questa cosa premere, strizzare il gozzo, è per me il chiaro indizio che mi trovo di fronte a qualcosa di potente, di desiderabile.
[…] la poesia della Calandrone diversamente dal ricercare e far conoscere la verità la crea, descrive con precisione questa sua verità che non è altro che essa. E proprio questa, nuda, dona un fascino di “mete lontane” a cui non possiamo sottrarci, appesi come bambocci alle sue parole filanti.
Davide Brullo, “Il Domenicale”, 5 giugno 2004
[…] In questa linea rischiosa, renitente alla classificazione rigidamente formale, è Maria Grazia Calandrone, autrice del folgorante, splendido esordio intitolato La scimmia randagia (uscito per i tipi Crocetti): siamo di fronte a un libro di poesia formidabile, a un talento che bisogna seguire nei suoi esiti futuri, a partire da una premessa che è già una conclusione: l’esperienza poetica che esalta e trascina.
Poesia che sarebbe da accogliere come renovatio delle folgoranti strutture di lingua e immagini delle Pitiche di Pindaro o, se si cerca un equivalente filosofico, della commutazione di sguardo secondo Plotino, i versi di Maria Grazia Calandrone regalano al panorama poetico italiano una protagonista fatta e finita, finalmente pronta a sfarsi e a finirsi.
Giuseppe Genna, “I Miserabil1”, 23 agosto 2004
Maria Grazia Calandrone, che – alla raccolta d’esordio – sfodera un pathos oracolare e rapinosamente visionario, bruciati in lunghi versi fiammanti di un epos (di un eros) dylanthomasiano, e tentati non di rado dalle vertigini dell’astrazione. Se l’esperienza primaria è, anche qui, quella della perdita infinita, che «infinito / rende quello che tocca», la Calandrone non può fare a meno di contrapporre perentoriamente, a questo cattivo infinito, l’infinita energia della sua voce. Così facendo, partecipa – da dentro – alla continua catena di morti e rinascite di cui è tramata l’esistenza stessa dell’universo. […] sarà l’amore, l’apertura dell’amore, a sollevarci dalla nostra solitudine – e il futuro ci verrà incontro «inchiodato nell’azzurra testimonianza» dei suoi occhi.
http://www.pasolini.net/premio-poesia-cinquina.htm
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