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La vita chiara (transeuropa, 2011)

Editore: Transeuropa
Collana: Nuova poetica
Data uscita: 2011
Pagine: 128
Lingua: Italiano
ISBN: 978875801557
Listino: € 9,90
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finalista Premio Tirinnanzi

motivazione premio letterario internazionale Città di Sassari

La vita chiara è acqua, fuoco, terra e aria, quattro poemetti e insieme capisaldi di un viaggio solo in apparenza convnzionale. Per il resto, disseminato di segni, gsti e simboli affidati a personaggi tutt’altro che scontati, sempre vivi e vitali, né privi di mistero. Sono viaggiatori che con la loro corporeità si rivelano e si misurano, prima di trasfigurarsi, in tutta la loro sofferenza straordinaria e insieme quotidiana. Dunque, quattro poemetti dove l’uomo è necessariamente provato dal fuoco, dal dolore come dalla gioia, direbbe San Paolo. Qui lo spirito trasforma la materia, la esalta, la rende eterna, ma non prima di aver superato un profondo travaglio e insieme un processo espressivo che coinvolge profondamente il vissuto, ogni cellula, ogni respiro e ogni attesa. Poiché, dice la poetessa, tutto il mio petto è un campo aperto. La comunione fra la sua voce e gli uomini, di ogni tempo, che potremmo dire kairos, cioè tempo senza tempo, realizza così il prodigio di celebrare la vita con il corpo e con lo spirito, sino a raggiungere la dimensione dell’eterno.

La quotidianità riesce a essere così straordinaria in quanto sostanziata di storia e di mito. Che hanno i nomi di Persefone, Piero della Francesca, Guernica, Marzabotto, Santa Teresa d’Avila e Chopin. Luoghi, presenze e motivi traguardati anche sotto forma onirica e visionaria, che così contraddistinguono, quasi in filigrana, la poetica decisamente originale di Maria Grazia Calandrone. Una poetica che corrisponde alla costruzione del suo amore per l’uomo, a dimostrazione – se mai ce ne fosse bisogno – di un destino condiviso con l’umanità intera. Nella consapevolezza che il proprio destino non può essere disgiunto da quello degli altri. Come non lo sono quello dell’acqua, del fuoco, della terra e dell’aria. Simboli precisi e ineludibili ai quali la poesia della Calandrone si concede con l’umiltà illuminata che può scaturire soltanto da un ordine di grandezza decisamente superiore.

 *

I quattro elementi della natura sono le quattro sezioni di un libro che adegua la parola poetica all’acqua, al fuoco, alla terra e infine all’aria. 
Maria Grazia Calandrone vuole comunicare attraverso gli elementi stessi della natura: nella sezione acqua si accampano Persefone e la pittura di Piero della Francesca; in fuoco le variazioni d’amore del grande mistico persiano Hafez e alcune invocazioni di Maria; sulla terra passano schegge di vera storia umana (Guernica, Marzabotto, leggende gotiche di vampiri e del sud Italia), mentre l’aria chiude il libro con le estasi frantumate di Teresa d’Avila che rivolge  la sua follia amorosa prima a Giovanni della Croce poi a Dio e il volume si solleva nel poemetto finale sul sorriso ironico e leggero di Chopin, descritto dall’autrice per la voce di Sonia Bergamasco.

EXTÁS, quello che resta della voce
(11 lunazioni più una su Teresa d’Avila)

1.1.
 
sono arrivata alla bassezza del marmo
al vibrare dei gravi, il mio corpo
è la parte bassa del cielo
 
ancora calda
dell’albume e del sangue – il corpo
zitto nel suo calore
 
io sono una candela con la sua fiamma
e arde l’aria nel mezzo
 
                                    aria
nel petto di una statua
la mandibola tesa dagli oracoli – il grido
libero e lancinante di lei che si è accesa in altezza
nessuno lo poteva, lei non poteva
spegnerlo in basso
 
 
1.2. Teresa, che guardi?
 
con la freccia mirata nel petto fai che la bocca affiori dal cielo
e dalla bocca fai passare il cielo se con la bocca se con tutto il cielo stai dicendo sì
 
ma non guarda più niente
lui le solleva il lembo della veste
 
lo scapolare forse, con quel sorriso
disumano –
 
Teresa, che guardi? questo angelo è ancora un bambino
ma sorride, sorride…
[…]

 

Estratti critici

Stefano Raimondi, “Pulp”, febbraio 2012 – La poesia di MGC arriva al lettore per abbondanza, per forza cinetica, condotta da una fluida e fluente sommersione del senso e delle immagini. Prende all’improvviso e trasporta là dove la terra diventa sconosciuta e sarà proprio in quell’Altro luogo che bisognerà ricominciare: riordinare le sensazioni. Calandrone procede per decomposizione della logica rappresentativa, fino a raggiungere un vero e proprio “amplesso” delle figure, dove la lingua, il verso e i toni si frammistano, concedendosi poca tregua. È una versificazione che scorre dall’improvviso ragionare del cuore, fino ad una rifilatura precisa della poietica che, proprio al “fare poematico”, si abbandona e soggiace. La vita chiara è la sua settima raccolta, dove il lavorio della fucina poetica si fa chiaro ed evidente. Calandrone lavora per temporalità rivelata e soggettività interrogata e la sua marca è un raccontarsi capace di farsi carico di quell’universale che affascina e ipnotizza, stabilendo tra la sua scrittura e la sua vita un filo diretto che non s’interrompe mai di fronte a nulla. Sono quattro i capitoli di quest’opera, quattro come gli elementi che ci hanno dato l’opportunità di essere e restare nella vita e nel mondo. E molti sono i “tu” dialoganti che si espongono tra le sue parole: Persefone, Piero della Francesca, Hafez, Maria ma anche Teresa d’Avila e San Giovanni della Croce, fino ad un ironico Chopin che sigilla il cerchio di questo interrogare per passione, il passaggio dal mondo della vita. Un libro certamente originale personale che lascia accecati per intensità e che troverà nella pausa dell’abbandono il fiorire di un disegno capace di farsi portatore di un “dire” diverso: pacato e condivisibile. Sciacquo la tunica nell’acqua rossa – io mescolo / la saggezza e l’ebrezza / nel catino del mondo: non si può / persuadere l’eterno / timoniere a mutare le rotte / con queste persuasioni sottomesse al tempo
 
Gianni Montieri, “QuiLibri”, gennaio 2012 – ACQUA, FUOCO, TERRA, ARIA – Le quattro sezioni di questo nuovo libro di MGC hanno i nomi, gli spazi, i tempi e i suoni dei quattro elementi della natura: acqua, fuoco, terra. aria. L’autrice tesse e regala uno scambio tra la parola adeguata ai quattro elementi e questi che attraverso il verbo poetico (si) manifestano e creano racconto. Leggendo il libro si intraprende un viaggio dentro un “tutto” che non è presunzione ma dispiegare la forza dei versi in più direzioni e da lì restituircela densa, pura, alta. Il mistico, la pittura, la femminilità, la santità, la storia, la guerra, l’antifascismo, la follia e l’amore, rappresentano il corpo e il filo di questo racconto poetico. Ora sento il dolore di ogni piccola parte / del tuo corpo. All’alba io mi alzavo perché l’alba / produceva un respiro camminando tra i rovi e lo seguivo / nel profumo turbato delle rose / di cespuglio e non c’eri. C’erano invece / le tracce di un passato minerario, le fumarole / e una traccia di scarpa sul parabrezza. Parte da Persefone la sezione Acqua e dai dipinti di Piero della Francesca. Il mistico persiano Hafez e le invocazioni di Maria sono il Fuoco. La storia passa dalla Terra: Guernica e Marzabotto. Alcuni di quelli che davano ordini / parlavano il dialetto delle nostre parti e infatti / portavano bende colorate / sul volto per la vergogna / che il loro volto rimanesse visibile nello stupore dei morti. L’Aria, l’ultima sezione, ci conduce nella follia amorosa di Teresa d’Avila per Giovanni della Croce e, poi, Dio. Fuori delle quattro parti principali del libro troviamo il poemetto finale, scritto per la voce di Sonia Bergamasco, sulla leggerezza e ironia di Chopin. Quello che vince in questa raccolta poetica è la lingua, la conoscenza, ricercata e semplice allo stesso tempo. Una lingua pulita, controllata, chiara: appunto. L’ulteriore conferma del talento di MGC e della forza dirompente della sua poesia. Un nodo nero mi protegge il petto / il mio tributo al volo delle rondini / forma una solitudine / dove non sono sola
 
Daniele Piccini, “Corriere della Sera”, 11.12.11 – Cosmogonia di versi e lingua – Il problema della poesia è sempre (anche se non solo) un problema di lingua, di strumenti d’espressione, di dicibilità. Il poeta che lascia traccia è quello che nelle coordinate del suo tempo trova soluzioni a questo problema, individua un linguaggio capace di attraversare, come se fosse la prima volta, l’enigma del mondo. Acqua, fuoco, terra aria sono i quattro elementi, in quest’ordine, cui Maria Grazia Calandrone ispira le sezioni del suo ultimo libro, La vita chiara (Transeuropa, pagine 112, € 9,90). È evidente che si tratta di una cosmogonia; è altrettanto evidente che per scriverne una, qui e ora, occorre l’invenzione di una lingua. La Calandrone ne forgia una, piena di trapassi, materiale e materica (il postumo lanciafiamme / di questa lingua terrestre), calata nella fisica del cosmo, nel meccanismo biologico, una lingua tutta tendini, muscoli, nomi anatomici, forme naturali (Si attiva / tra il limite dei loro / corpi l’enorme / metabolismo della terra); ma non ci si inganni, non è solo questo: tale lingua del processo organico è anche una traduzione materiale degli stadi mentali e spirituali della crezione, del piano metafisico, come per una continuata oggettivazione del pensiero. Il punto è arrivare a dire il miracolo, la Resurrezione come si descrivono le trasformazioni della materia, con i due campi intrecciati e compenetrati l’uno nell’altro. Forte di una varietà verbale tecnica, resinosa, fossile – che riscrive persino la metamorfosi e il panismo dannunziani – le poetessa può entrare, umile e superba, nelle campiture matematiche e metafisiche di Piero delle Francesca, nei quadri neri della storia (da Guernica alle stragi naziste in Italia), nel soffio mistico di santa Teresa d’Avila. Trovato l’impasto lessicale e sonoro e l’assetto metrico (per quanto libero, come qui), il laboratorio del poeta è aperto a tutto; la sua voce è libera dalle scorie della confessione, dell’aneddoto solo autobiografico: ogni elemento o storia è una storia del cosmo. 
 
Alida Airaghi, “Poesia”, dicembre 2011 – La foto di copertina dell’ultimo libro di Maria Grazia Calandrone, tutta giocata tra il nero e il marrone, in uno sfondo plumbeo che sembra evocare una tromba d’aria o marina, stride volutamente con il titolo della raccolta: “La vita chiara”, inciso in caratteri bianchi, per una poesia che da subito si offre invece magmatica, densa, scavata, lontana da qualsiasi leggerezza o ironia. Di non facile e immediata decifrazione, anche se non ermetica, vibrante di un’ansia controllata, tesa in un dolore reso esplicito da immagini violente, da ricorrenti motivi di accesa aggressività, di sconvolgente sopraffazione. Il volume è diviso in quattro sezioni dedicate ai quattro elementi empedoclei, e tutti individuati nella loro sovrumana forza distruttiva, impetuosa. Così per l’acqua il simbolo prescelto è ovviamente il mare, vissuto soprattutto come minaccia nei suoi insondabili abissi o sulla superficie popolata da presenze animali e vegetali specificate con una precisa terminologia biologica, chimica, climatologica: “l’albatro cammina/ sull’olio plumbeo dell’acqua, le orche deglutiscono boccate/ d’acqua e sciami di alici nelle forme/ di calamita e anelli scardinati, pulviscolo/ di lische”. Acqua inquinata e corruttrice, melmosa e corrosiva, spesso rievocata anche nell’impetuosità assassina dei fiumi, cui il subconscio sofferto dell’autrice torna nella rievocazione ossessiva dell’incubo che ha segnato la sua venuta al mondo. Il fuoco, poi, è cenere e vento, distruzione e annientamento in una sezione in cui la natura non è mai sollievo o consolazione (“il gelsomino/ colma di fango tenebroso/ le corolle”, “ i sassi/ trasportati dai vermi/ nella bocca”). Anche le variazioni d’amore ricostruite nei dialoghi con il mistico persiano Hafez rappresentano una sorta di schiavitù di rapporti in cui non si sa chi sia padrone o servo, vittima o carnefice: (“ sono una piccola catasta di membra/ che la sua nudità dovrà pur/ calpestare”). E’ lo stesso “amore ammalato” che ritroviamo nella splendida e terribile poesia dedicata a Natasha Kampush e al suo rapitore, in cui la pietà per un sentimento divorante e distruttivo rivendica quasi una sua giustificazione agli occhi del mondo civile e perbene che non potrà mai comprendere. Proprio qui riappare un sintagma che, con una variazione significativa (“ sotto gli occhi di tutti”, “sulla bocca di tutti”) è spesso presente nella poesia di Maria Grazia Calandrone: a esibire la teatralità compiaciuta e orgogliosa della sua poesia, ma nello stesso tempo a indicare che il mistero di ogni anima e di ogni gesto rimane sempre, esclusivamente, privato e irraggiungibile (“ Non sia esposto il segreto che brucia nell’urna del cuore”, recita il titolo di un paragrafo del libro).
Il capitolo più corposo del volume è dedicato alla terra, alla concretezza della storia che invade e violenta la vita dei singoli, distorcendone i percorsi esistenziali, distribuendo macerie e lutti: immagini forti che dipingono scenari ancora una volta drammatici, da declamare sulle scene, con un alto senso della denuncia civile. Quindi Guernica, le stragi di Sant’Anna, rastrellamenti, donne sventrate, eccidi, madri che piangono i figli torturati ( e Maria è ovviamente il nome-icona di una maternità violata e offesa, nel sacrificio eterno di ogni crocifissione innocente). Ma ancora l’ossessione della materia e del corpo si concretizza nella narrazione di episodi di cronaca ambientati in un meridione contadino e superstizioso, abitato da pleniluni e sortilegi, uomini imbestialiti ululanti e donne marchiate da una fisicità lontana da qualsiasi possibilità di riscatto.
Non c’è salvezza, non c’è leggenda o mito, non c’è innocenza: è tutto realtà di tenebra e notte, senza alcuna clemenza, incardinata in una natura impietosa e mai confortante, in una storia che divora inesorabile. Lo stile si adegua, ovviamente, ai contenuti, ignorando quasi provocatoriamente qualsiasi collaudata tradizione letteraria: quindi versi lunghi o lunghissimi, alternati a quinari incisivi e asseverativi – con frequentissimi enjambements, spezzature, interruzioni, ripetizioni-, privi di rime o assonanze, indifferenti a ogni rigidità metrica. Una scrittura personalissima che non conosce tregue o cedimenti, imperativa, forte; nemmeno la sezione finale, dedicata all’aria, si addolcisce in una volatile o delicata armonia, ma rimane concretamente realistica anche nel tratteggiare due personaggi simbolo di spiritualità e sensibilità : Teresa d’Avila e Chopin.
L’estasi della prima sembra tutta concentrata nel voler negare il corpo e la tentazione della materia, ma ad essa e alla “bassezza del marmo” ritorna e si riduce implacabilmente (“il mio corpo è bersaglio/ e colonna di fuoco/ è setaccio/ e tamburo”); la dolcezza estenuata dei Preludi e dei Notturni del secondo viene oscurata dalla fatica delle esecuzioni, dalla sanie della tubercolosi, da incubi e visioni animalesche e malate. 
Forse un ultimo rilievo o curiosità da evidenziare in questa raccolta dai toni baudelaireiani è la presenza, in quasi ogni poesia, della parola “cuore”, mai in senso immateriale, di anima, bensì in quello corposo e realistico di muscolo anatomico, di interiorità pulsante nell’unica realtà concreta del nostro esistere: il corpo. “Mon coeur mis à nu”, appunto.
 
Ambra Zorat, “Semicerchio” n. XLVI, 1.12 L’ultimo libro di Maria Grazia Calandrone è ambizioso: parla della vita, vuole nominarla nella sua globalità. E ciò è evidente fin dal titolo. Ne La vita chiara, l’articolo indica infatti la volontà di definire la realtà, mentre l’aggettivo rinvia a un’idea di luminosa semplicità, di nitida comprensione del vivere. L’immagine scura della copertina contrasta però con il titolo: sotto un cielo cupo e nuvoloso si distingue la su- perficie del mare, tra le ombre si intravvede la sagoma di uno scoglio o forse di un essere vivente. Accostando un’immagine buia alla limpidezza del titolo, ci è ricordato che la vita è sempre avvolta da un alone di oscura sofferenza che tuttavia non impedisce il formarsi di un sentimento di calma accettazione, forse di gratitudine. La dimensione biologica della copertina inoltre precisa subito che per vita si intende una dimensione più vasta di quella umana che comprende tutto l’esistente. La prima poesia ha valore programmatico, ripropone alcuni temi tipici della Calandrone e indica la rotta da seguire. Il motivo della ferita emerge nei riferimenti al corpo e agli organi isolati in una specie di campo di battaglia: «Se io potessi aprirei il mio petto per farvi vedere / come gli organi se ne stiano spaiati, uccelli acquatici / al colmo / di un tetto, come tutto il mio corpo sia un campo aperto / dopo la rimozione degli alberi». Tipica dell’autrice è anche la prossimità di mondo umano e animale. La scena si fa addirittura criminale con il «passaggio di unità cinofile». Si mostra come l’«unico congegno espressivo / tra animale e uomo / sia lo stesso ripetere che sì, che sì …», versi che fissano foneticamente nell’ansimare del respiro un comune dire sì alla vita, un’accettazione prima di tutto fisica. Siamo in presenza di un vero e proprio ‘libro di poesia’, strutturato in quattro sezioni che fanno riferimento agli elementi naturali (acqua, fuoco, terra e aria) e scandiscono una specie di avventura cosmogonica. La sfida è attraversare la materia, spingerla a dirsi per ricondurre l’umano agli elementi che compongono il mondo. L’Acqua è l’elemento liquido, in metamorfosi: accoglie il sangue indicando dolore e sacrificio, è mare mosso inteso come regno del pericolo, rappresenta l’elemento materno ed è simbolo di vita e trasformazione. Non a caso molte poesie della sezione finiscono con un riferimento positivo alla fratellanza e alla guarigione: «ma quel poco di bene solleva / dal nostro petto tutta la fermezza della terra» e «nel bozzolo / del corpo il delfino iniziava a guarire». Il Fuoco è invece l’ardore: è il bruciare del cuore di Maria durante la crocifissione, è la fiamma amorosa nei dialoghi con il mistico persiano Hafez, è la passione delirante del rapporto tra un carceriere e la sua vittima, tra Natasha Kampush e Wolfang Priklopil. La Terra è il mondo solido dei detriti, della storia e della guerra. Spiccano i componimenti dedicati alle stragi nazifasciste di Sant’Anna e Marzabotto: «Rastrellavano bambini come grani di sabbia e come sabbia / che ubbidisce al vento erano muti». Di fronte alla morte e al massacro, il dettato si semplifica, recupera forme più distese e narrative. Nella sezione Aria si rappresenta un moto di elevazione spirituale, un salire verticale della voce di Teresa d’Avila, ma anche un’aria musicale ironica come quella di Chopin. Maria Grazia Calandrone cerca una lingua nuova. Numerosi enjambements creano cesure, smorzano l’emozione di alcuni passaggi, caricano di mistero altri frammenti verbali. Qualcosa di simile avviene a livello lessicale. I termini tecnici (albedo, diorama, bombice, anellidi …) hanno una funzione straniante di contenimento emotivo. Le associazioni analogiche («nel buio occipitale / ruota la luminosa / scalea della durata») e le composizioni nominali inedite («la curvaturamare»; «il tuo nome-intrico-di-luna»; «dal corpo-farina-di-luce») svolgono invece una funzione di concentrazione espressiva. La stessa parola chiave ‘cuore’, forse troppo abusata, è ora muscolo, ora sede degli affetti. Da questo scientifico e misterioso attraversare lingua e materia nasce il fascino della poesia di Maria Grazia Calandrone. L’indicazione della data di composizione dei versi esprime l’urgenza del dialogo tra scrittura e realtà, una realtà che si impone con forza evidente ed è vita chiara.
 

Luigi Carotenuto, Lunarionuovo n. 51/53, giugno 2012 Il poeta, quando vuole stipare tutta la vastità del cosmo dentro la sua scrittura, non ha l’avidità egoistica del Mazzarò verghiano, piuttosto cerca di seminare avvisi, luci, speranze e memorie-allarmi per i giorni futuri a occhi e orecchie in ascolto. Questo turbamento estetico kierkegaardiano (non esiste vero poeta senza ansie), appartiene tutto a Maria Grazia Calandrone. La sua scrittura è originale anche negli attraversamenti di sentieri altrui, da critico (su Il Manifesto e  per la rivista di Nicola Crocetti Poesia), dove si distingue sia per l’osmosi, la compartecipazione empatica, sia per la di lei trasfigurazione poetica, creativa, dei lavori interpretati. Per la Transeuropa, casa editrice adesso operativa in Toscana, a Massa, esce La vita chiara, nella collana nuova poetica curata personalmente dal poeta Gabriel Del Sarto. L’introduzione iniziale in versi scopre, come in un autoritratto di Frida Kahlo, la disarmata e dura arrendevolezza della Calandrone, in una dichiarazione di incantamento e brutalità unica: “Se io potessi aprirei il mio petto per farvi vedere / come gli organi se ne stiano spaiati, uccelli acquatici / al colmo / di un tetto, come tutto il mio petto sia un campo aperto / dopo la rimozione degli alberi / e un passaggio di unità cinofile / e quale unico congegno espressivo / tra animale e uomo / sia lo stesso ripetere che sì, che sì…” (pag.5). L’apertura, quasi una sottile parodia della poesia confessionale, coi poeti che mostrano le “viscere” della propria interiorità, costituisce l’anticamera delle sale-sezioni dedicate ai quattro elementi naturali, prima tra tutte l’acqua-ventre, a chiusura del cerchio l’elemento più sfuggente e apparentemente impalpabile, l’aria (associata al massimo grado di estasi: quello raggiunto dai mistici come Teresa d’Avila, pietra di paragone e modello per generazioni di religiosi e artisti, pensiamo all’influenza sull’opera di critica poetica della filosofa Maria Zambrano), e in ultimo una sorta di “scherzo suonato”, nel cinematografico monologo firmato da un immaginario Chopin. Nei versi della Calandrone circola, come direbbe Zanzotto, la stoltezza palpabile come un vento,  tra le larghe feritoie della Storia, quella con la maiuscola che tutto il resto rimpicciolisce e annienta: “e il passato si innalza su di noi come un angelo con le ali / [aperte” (pag. 96). Angeli e ali sono frequenti, come annuncio e rivelazione positiva ma anche nel solco del terribile (la bellezza è l’inizio del terribile recita Rilke): “La malattia incomincia dal sorriso dell’angelo: / la genuflessione dell’angelo / avvelena il mio sangue / perché gli umili fanno tanto male / fino a farmi piegare le ginocchia / sotto la veste / perché metà della mia vita è andata, arcobaleno / retto da un orizzonte”. Tra reliquie e relitti, scocche, carcasse, scheletri umani e cosmici, residui di civiltà e ere geologiche, un’archeologia poetica che esplora, “lampi / in avaria nel cantiere aperto della sera” (pag. 64), la pluralità fenomenica dissestata. Nei dialoghi con il poeta persiano Hafez, in questa raccolta connotata concretamente da date e luoghi (la città eterna è l’ideale teatro di questo convegno di eventi storici e figure carismatiche), gli accenti lirici si fanno particolarmente elevati: “Sciacquo la tunica nell’acqua rossa – io mescolo / la saggezza e l’ebbrezza / nel catino del mondo: non si può / persuadere l’eterno / timoniere a mutare le rotte / con queste persuasioni sottomesse al tempo” (pag. 40). Ci sono “macchie sul cuore nudo della terra” (macchie-colpe ce n’è nel libro tante quanto un virus intraprendente) che non riesce a cancellare nemmeno il “petto di rondine” di un figlio, addormentato “prossimo a una torre di fumo”. Nel terremoto di dubbi e lacerazioni che risveglia, la poesia della Calandrone offre consolazioni (magre?) virgiliane (perché anche l’addio “chiedeva la sua altezza”) e l’occhio vivo sul germinare e verminare biologico, disteso alfine nel calmo orizzonte dell’estasi, varco vero verso la vita chiara.

Francesco Bove, il Recensore, 11.10.12 – I QUATTRO ELEMENTI DI MGC La vita chiara di Maria Grazia Calandrone(Transeuropa, 2011) raccoglie una serie di suggestioni dell’autrice, a partire dalla pittura di Piero della Francesca fino alle estasi di Santa Teresa d’Avila, tradotte mirabilmente in versi suddivisi in rapporto al loro elemento naturale d’appartenenza.

Eccoci, quindi, dinanzi a quattro sezioni (“Acqua”, “Fuoco”, “Terra” e “Aria”) dove la bellezza della poesia della Calandrone affiora, umana, folle e indifesa, dal vortice di un linguaggio personale e pieno per sollevarsi e farsi cielo. Inutile enumerare i titoli più belli o quelli più dolorosi, molto meglio concentrarsi sull’autenticità dell’autrice, sulle sue parole progressivamente dinamiche, dense di passione – per intenderci, quella descritta meravigliosamente da San Giovanni della Croce – ibridata con il dolore dei possibili declivi che possono pararsi dinanzi all’uomo. La poesia della Calandrone dialoga con l’indeterminato, non rappresenta sentimenti ma li ingloba in una scrittura forsennata, per fortuna debordante, che travalica i limiti del linguaggio. Delle tante vite cogitate, vissute dalla poetessa, restano vividi ricordi nella mente del lettore, si impongono tenaci alcuni passaggi (“Pietro di noi caduti nell’intelligenza dell’Amore si dirà che avremmo costruito nuovi congiungimenti”), la brutalità della guerra, deformata dalle mille lenti della memoria, la fatica della contemplazione che ci costringe a vivere il nostro presente e a interrogarlo. Ogni personaggio raccontato partecipa alla solitudine della Calandrone, ovvero quel bruciarsi il cuore nel momento in cui si entra in contatto con i sentimenti puri, avviando una vera e propria corrispondenza animosa con l’autrice eccedendo, finalmente, i limiti della struttura della poesia borghese e convenzionale. “La vita chiara” è un soliloquio in versi, la volontà di confessarsi trasformando la Carne e la Terra in Scrittura, qui evento, che diventa “egli” per poter esprimere l’Io. E sul selciato di un inestricabile sentiero proposto dall’autrice, dove è facile perdersi, si aprono voragini, ferite universali, che si ripetono costanti nel tempo. Non importa, quindi, se siamo a Pentedattilo, nella notte di Pasqua del mille e seicento ottanta sei, o a Sant’Anna, il 12 agosto del 1944, quando si parla di Poesia (o di Arte), si è fuori dalla Storia, e il compito di un artista è quello di superare continuamente se stesso.

Enzo Rega, “L’Indice” dei libri del mese – Il nuovo libro di poesia di Maria Grazia Calandrone si modula, nelle quattro sezioni, sugli elementi fondamentali della tradizione, sia occidentale che orientale: acqua, fuoco, terra, aria. Più che giustapposti, fusi come nella cosmologia di un Empedocle, straripando al di là delle rispettive sezioni e ritrovandosi mescolati anche in un unico testo che già nel titolo, Un vagito nel vapore acqueo, ci porta al primordiale umidore della nascita: “Io pronuncio il tuo nome dall’alto / della picca di un campanile affinché tu ti arrampichi / lentamente, trascini in alto i segni della terra e sulla terra / cada. Io muovo / mani nell’acqua affinché il fiume freddo del tuo cuore si disperda / come una bianca fuga di animali tra le strisce dell’erba / affinché il bianco rogo del tuo cuore non dissecchi il mio cuore – affinché non t’invochi” (nella sezione Terra). Per il filosofo agrigentino la sede dell’anima era il sangue, che fondeva in sé i quattro elementi, e corpo e sangue sono qui centrali: l’anima viene sì messa a nudo, ma attraverso il corpo, come ci dà conto già il testo d’apertura: “Se io potessi aprirei il mio petto per farvi vedere / come gli organi se ne stiano spaiati, uccelli acquatici / al colmo / di un tetto, come il mio petto sia un campo aperto…” . Nella sezione Acqua si dispiega “il canto della specie”, dall’emersione della vita stessa dalla sostanza prima del più antico dei filosofi, Talete: “Capovolgersi / in acqua per toccare il terreno e spuntare / ancora due o tre volte in superficie facendo / dei movimenti anfibi, assumendo il colore / artico, mercuriale degli anfibi – la posa / dello zero”, scrive Calandrone. In questa vicenda, in cui è tutto “Un transitare e un perdere / creature marine / abbandonate al fango” (dove il lemma “fango” ci riporta anche alla tradizione biblica), siamo precipitati sempre più in un laboratorio primordiale, in “Un aroma di acidi e di corteccia”, dove il biologico si dissolve nel chimico nella raffigurazione di paesaggi apocalittici: “Colonne combustibili nei canyon sottomarini – colonne / di individui fluttuanti salgono per il cibo di superficie in sfere / di ottone mercuriale / e l’albatro cammina / sull’olio plumbeo dell’acqua, le orche deglutiscono boccate / d’acqua e sciami di alici nelle forme / di calamita e anelli scardinati, pulviscolo / di lische, il diorama del fondo degli oceani e oro in movimento e cuori insanguinati alla luce (…) corruzione di cosa / in aria e terreno / tu che passi attraverso / la tua resurrezione”. Anche qui una trasmutazione di elementi (in un verso che si tende fino alla prosa, come spesso nel libro) che attraverso il connubio di “corruzione/resurrezione” segna, brunianamente, un ciclo continuo di vita/morte/vita. Ed è l’igneo, eracliteo elemento della seconda sezione (ed Eraclito è anche il filosofo dell’unione dei contrari) a presentarci il mezzo naturale della purificazione: “Vengo ad attraversare il mio dolore / davanti a te: sono quella / che passa nel fuoco…”. In un’atmosfera mediorientale, nella quale l’autrice gioca anche con i versi del mistico persiano Hafez, sembra che il fuoco suggerisca grazia e levità, pur nel capolino che fa il peccato, alla poesia (rispetto al precedente gravame della materia tra organico e inorganico), poesia che recupera temi d’amore in un’ebbrezza dionisiaca: “Forse il vino ci mette / come l’amore / nella incondizionata dimenticanza di noi…”. Una dimenticanza invece impossibile nella terza, tellurica sezione, dove la poesia riprende frammenti di storia: “I sepolti / sopra la terra, se avranno pietà di noi sembreranno caduti / in un sonno privo di giudizio / come un enorme pasto / di carne umana, sembreranno mischiare con una smarrita / rassegnazione – carne / – sguardi / al fango fumigante di Guernica”; macro e microstoria s’intrecciano nel ricordo del padre che partecipò alla guerra civile spagnola. Alla pesantezza tragica della storia corrisponde di nuovo un’innalzarsi dello sguardo, nell’ultima sezione, questa volta attraverso le estasi di Teresa d’Avila, tesa tra terra e cielo: “il mio corpo / è la parte bassa del cielo (…) fai che la bocca affiori dal cielo / e dalla bocca fai passare il cielo”. Nel “cedimento” di Teresa si ricompone l’eterna ciclicità dei quattro elementi, con un ritorno all’origine dei tempi – e del libro: “le mie ossa / non provano dolore / i minerali di cui siamo composti tornano all’acqua”. Una poesia complessa, nella quale fondamentale è la lingua adoperata. i giochi frequenti sull’impasto sonoro delle parole e l’uso altrettanto frequente dell’enjambement danno conto di una scrittura che gareggia con i contrasti e li recupera. Lo stesso enjambement in fondo è troncamento dell’ovvio e ricucitura dell’inconsueto. La poetessa, in modo avvertito, scrive, sembrando riflettere sul suo stesso scrivere, di “oggetti ammucchiati sull’argine della lingua / blu che non ripete le azioni ma forma legamenti di cose taciute”.

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