La vita chiara (transeuropa, 2011)
finalista Premio Tirinnanzi
motivazione premio letterario internazionale Città di Sassari
La vita chiara è acqua, fuoco, terra e aria, quattro poemetti e insieme capisaldi di un viaggio solo in apparenza convnzionale. Per il resto, disseminato di segni, gsti e simboli affidati a personaggi tutt’altro che scontati, sempre vivi e vitali, né privi di mistero. Sono viaggiatori che con la loro corporeità si rivelano e si misurano, prima di trasfigurarsi, in tutta la loro sofferenza straordinaria e insieme quotidiana. Dunque, quattro poemetti dove l’uomo è necessariamente provato dal fuoco, dal dolore come dalla gioia, direbbe San Paolo. Qui lo spirito trasforma la materia, la esalta, la rende eterna, ma non prima di aver superato un profondo travaglio e insieme un processo espressivo che coinvolge profondamente il vissuto, ogni cellula, ogni respiro e ogni attesa. Poiché, dice la poetessa, tutto il mio petto è un campo aperto. La comunione fra la sua voce e gli uomini, di ogni tempo, che potremmo dire kairos, cioè tempo senza tempo, realizza così il prodigio di celebrare la vita con il corpo e con lo spirito, sino a raggiungere la dimensione dell’eterno.
La quotidianità riesce a essere così straordinaria in quanto sostanziata di storia e di mito. Che hanno i nomi di Persefone, Piero della Francesca, Guernica, Marzabotto, Santa Teresa d’Avila e Chopin. Luoghi, presenze e motivi traguardati anche sotto forma onirica e visionaria, che così contraddistinguono, quasi in filigrana, la poetica decisamente originale di Maria Grazia Calandrone. Una poetica che corrisponde alla costruzione del suo amore per l’uomo, a dimostrazione – se mai ce ne fosse bisogno – di un destino condiviso con l’umanità intera. Nella consapevolezza che il proprio destino non può essere disgiunto da quello degli altri. Come non lo sono quello dell’acqua, del fuoco, della terra e dell’aria. Simboli precisi e ineludibili ai quali la poesia della Calandrone si concede con l’umiltà illuminata che può scaturire soltanto da un ordine di grandezza decisamente superiore.
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EXTÁS, quello che resta della voce
(11 lunazioni più una su Teresa d’Avila)
1.1.
sono arrivata alla bassezza del marmo
al vibrare dei gravi, il mio corpo
è la parte bassa del cielo
ancora calda
dell’albume e del sangue – il corpo
zitto nel suo calore
io sono una candela con la sua fiamma
e arde l’aria nel mezzo
aria
nel petto di una statua
la mandibola tesa dagli oracoli – il grido
libero e lancinante di lei che si è accesa in altezza
nessuno lo poteva, lei non poteva
spegnerlo in basso
1.2. Teresa, che guardi?
con la freccia mirata nel petto fai che la bocca affiori dal cielo
e dalla bocca fai passare il cielo se con la bocca se con tutto il cielo stai dicendo sì
ma non guarda più niente
lui le solleva il lembo della veste
lo scapolare forse, con quel sorriso
disumano –
Teresa, che guardi? questo angelo è ancora un bambino
ma sorride, sorride…
[…]
Estratti critici
Non c’è salvezza, non c’è leggenda o mito, non c’è innocenza: è tutto realtà di tenebra e notte, senza alcuna clemenza, incardinata in una natura impietosa e mai confortante, in una storia che divora inesorabile. Lo stile si adegua, ovviamente, ai contenuti, ignorando quasi provocatoriamente qualsiasi collaudata tradizione letteraria: quindi versi lunghi o lunghissimi, alternati a quinari incisivi e asseverativi – con frequentissimi enjambements, spezzature, interruzioni, ripetizioni-, privi di rime o assonanze, indifferenti a ogni rigidità metrica. Una scrittura personalissima che non conosce tregue o cedimenti, imperativa, forte; nemmeno la sezione finale, dedicata all’aria, si addolcisce in una volatile o delicata armonia, ma rimane concretamente realistica anche nel tratteggiare due personaggi simbolo di spiritualità e sensibilità : Teresa d’Avila e Chopin.
L’estasi della prima sembra tutta concentrata nel voler negare il corpo e la tentazione della materia, ma ad essa e alla “bassezza del marmo” ritorna e si riduce implacabilmente (“il mio corpo è bersaglio/ e colonna di fuoco/ è setaccio/ e tamburo”); la dolcezza estenuata dei Preludi e dei Notturni del secondo viene oscurata dalla fatica delle esecuzioni, dalla sanie della tubercolosi, da incubi e visioni animalesche e malate.
Forse un ultimo rilievo o curiosità da evidenziare in questa raccolta dai toni baudelaireiani è la presenza, in quasi ogni poesia, della parola “cuore”, mai in senso immateriale, di anima, bensì in quello corposo e realistico di muscolo anatomico, di interiorità pulsante nell’unica realtà concreta del nostro esistere: il corpo. “Mon coeur mis à nu”, appunto.
Luigi Carotenuto, Lunarionuovo n. 51/53, giugno 2012 Il poeta, quando vuole stipare tutta la vastità del cosmo dentro la sua scrittura, non ha l’avidità egoistica del Mazzarò verghiano, piuttosto cerca di seminare avvisi, luci, speranze e memorie-allarmi per i giorni futuri a occhi e orecchie in ascolto. Questo turbamento estetico kierkegaardiano (non esiste vero poeta senza ansie), appartiene tutto a Maria Grazia Calandrone. La sua scrittura è originale anche negli attraversamenti di sentieri altrui, da critico (su Il Manifesto e per la rivista di Nicola Crocetti Poesia), dove si distingue sia per l’osmosi, la compartecipazione empatica, sia per la di lei trasfigurazione poetica, creativa, dei lavori interpretati. Per la Transeuropa, casa editrice adesso operativa in Toscana, a Massa, esce La vita chiara, nella collana nuova poetica curata personalmente dal poeta Gabriel Del Sarto. L’introduzione iniziale in versi scopre, come in un autoritratto di Frida Kahlo, la disarmata e dura arrendevolezza della Calandrone, in una dichiarazione di incantamento e brutalità unica: “Se io potessi aprirei il mio petto per farvi vedere / come gli organi se ne stiano spaiati, uccelli acquatici / al colmo / di un tetto, come tutto il mio petto sia un campo aperto / dopo la rimozione degli alberi / e un passaggio di unità cinofile / e quale unico congegno espressivo / tra animale e uomo / sia lo stesso ripetere che sì, che sì…” (pag.5). L’apertura, quasi una sottile parodia della poesia confessionale, coi poeti che mostrano le “viscere” della propria interiorità, costituisce l’anticamera delle sale-sezioni dedicate ai quattro elementi naturali, prima tra tutte l’acqua-ventre, a chiusura del cerchio l’elemento più sfuggente e apparentemente impalpabile, l’aria (associata al massimo grado di estasi: quello raggiunto dai mistici come Teresa d’Avila, pietra di paragone e modello per generazioni di religiosi e artisti, pensiamo all’influenza sull’opera di critica poetica della filosofa Maria Zambrano), e in ultimo una sorta di “scherzo suonato”, nel cinematografico monologo firmato da un immaginario Chopin. Nei versi della Calandrone circola, come direbbe Zanzotto, la stoltezza palpabile come un vento, tra le larghe feritoie della Storia, quella con la maiuscola che tutto il resto rimpicciolisce e annienta: “e il passato si innalza su di noi come un angelo con le ali / [aperte” (pag. 96). Angeli e ali sono frequenti, come annuncio e rivelazione positiva ma anche nel solco del terribile (la bellezza è l’inizio del terribile recita Rilke): “La malattia incomincia dal sorriso dell’angelo: / la genuflessione dell’angelo / avvelena il mio sangue / perché gli umili fanno tanto male / fino a farmi piegare le ginocchia / sotto la veste / perché metà della mia vita è andata, arcobaleno / retto da un orizzonte”. Tra reliquie e relitti, scocche, carcasse, scheletri umani e cosmici, residui di civiltà e ere geologiche, un’archeologia poetica che esplora, “lampi / in avaria nel cantiere aperto della sera” (pag. 64), la pluralità fenomenica dissestata. Nei dialoghi con il poeta persiano Hafez, in questa raccolta connotata concretamente da date e luoghi (la città eterna è l’ideale teatro di questo convegno di eventi storici e figure carismatiche), gli accenti lirici si fanno particolarmente elevati: “Sciacquo la tunica nell’acqua rossa – io mescolo / la saggezza e l’ebbrezza / nel catino del mondo: non si può / persuadere l’eterno / timoniere a mutare le rotte / con queste persuasioni sottomesse al tempo” (pag. 40). Ci sono “macchie sul cuore nudo della terra” (macchie-colpe ce n’è nel libro tante quanto un virus intraprendente) che non riesce a cancellare nemmeno il “petto di rondine” di un figlio, addormentato “prossimo a una torre di fumo”. Nel terremoto di dubbi e lacerazioni che risveglia, la poesia della Calandrone offre consolazioni (magre?) virgiliane (perché anche l’addio “chiedeva la sua altezza”) e l’occhio vivo sul germinare e verminare biologico, disteso alfine nel calmo orizzonte dell’estasi, varco vero verso la vita chiara.
Francesco Bove, il Recensore, 11.10.12 – I QUATTRO ELEMENTI DI MGC La vita chiara di Maria Grazia Calandrone(Transeuropa, 2011) raccoglie una serie di suggestioni dell’autrice, a partire dalla pittura di Piero della Francesca fino alle estasi di Santa Teresa d’Avila, tradotte mirabilmente in versi suddivisi in rapporto al loro elemento naturale d’appartenenza.
Eccoci, quindi, dinanzi a quattro sezioni (“Acqua”, “Fuoco”, “Terra” e “Aria”) dove la bellezza della poesia della Calandrone affiora, umana, folle e indifesa, dal vortice di un linguaggio personale e pieno per sollevarsi e farsi cielo. Inutile enumerare i titoli più belli o quelli più dolorosi, molto meglio concentrarsi sull’autenticità dell’autrice, sulle sue parole progressivamente dinamiche, dense di passione – per intenderci, quella descritta meravigliosamente da San Giovanni della Croce – ibridata con il dolore dei possibili declivi che possono pararsi dinanzi all’uomo. La poesia della Calandrone dialoga con l’indeterminato, non rappresenta sentimenti ma li ingloba in una scrittura forsennata, per fortuna debordante, che travalica i limiti del linguaggio. Delle tante vite cogitate, vissute dalla poetessa, restano vividi ricordi nella mente del lettore, si impongono tenaci alcuni passaggi (“Pietro di noi caduti nell’intelligenza dell’Amore si dirà che avremmo costruito nuovi congiungimenti”), la brutalità della guerra, deformata dalle mille lenti della memoria, la fatica della contemplazione che ci costringe a vivere il nostro presente e a interrogarlo. Ogni personaggio raccontato partecipa alla solitudine della Calandrone, ovvero quel bruciarsi il cuore nel momento in cui si entra in contatto con i sentimenti puri, avviando una vera e propria corrispondenza animosa con l’autrice eccedendo, finalmente, i limiti della struttura della poesia borghese e convenzionale. “La vita chiara” è un soliloquio in versi, la volontà di confessarsi trasformando la Carne e la Terra in Scrittura, qui evento, che diventa “egli” per poter esprimere l’Io. E sul selciato di un inestricabile sentiero proposto dall’autrice, dove è facile perdersi, si aprono voragini, ferite universali, che si ripetono costanti nel tempo. Non importa, quindi, se siamo a Pentedattilo, nella notte di Pasqua del mille e seicento ottanta sei, o a Sant’Anna, il 12 agosto del 1944, quando si parla di Poesia (o di Arte), si è fuori dalla Storia, e il compito di un artista è quello di superare continuamente se stesso.
Enzo Rega, “L’Indice” dei libri del mese – Il nuovo libro di poesia di Maria Grazia Calandrone si modula, nelle quattro sezioni, sugli elementi fondamentali della tradizione, sia occidentale che orientale: acqua, fuoco, terra, aria. Più che giustapposti, fusi come nella cosmologia di un Empedocle, straripando al di là delle rispettive sezioni e ritrovandosi mescolati anche in un unico testo che già nel titolo, Un vagito nel vapore acqueo, ci porta al primordiale umidore della nascita: “Io pronuncio il tuo nome dall’alto / della picca di un campanile affinché tu ti arrampichi / lentamente, trascini in alto i segni della terra e sulla terra / cada. Io muovo / mani nell’acqua affinché il fiume freddo del tuo cuore si disperda / come una bianca fuga di animali tra le strisce dell’erba / affinché il bianco rogo del tuo cuore non dissecchi il mio cuore affinché non t’invochi” (nella sezione Terra). Per il filosofo agrigentino la sede dell’anima era il sangue, che fondeva in sé i quattro elementi, e corpo e sangue sono qui centrali: l’anima viene sì messa a nudo, ma attraverso il corpo, come ci dà conto già il testo d’apertura: “Se io potessi aprirei il mio petto per farvi vedere / come gli organi se ne stiano spaiati, uccelli acquatici / al colmo / di un tetto, come il mio petto sia un campo aperto ” . Nella sezione Acqua si dispiega “il canto della specie”, dall’emersione della vita stessa dalla sostanza prima del più antico dei filosofi, Talete: “Capovolgersi / in acqua per toccare il terreno e spuntare / ancora due o tre volte in superficie facendo / dei movimenti anfibi, assumendo il colore / artico, mercuriale degli anfibi la posa / dello zero”, scrive Calandrone. In questa vicenda, in cui è tutto “Un transitare e un perdere / creature marine / abbandonate al fango” (dove il lemma “fango” ci riporta anche alla tradizione biblica), siamo precipitati sempre più in un laboratorio primordiale, in “Un aroma di acidi e di corteccia”, dove il biologico si dissolve nel chimico nella raffigurazione di paesaggi apocalittici: “Colonne combustibili nei canyon sottomarini colonne / di individui fluttuanti salgono per il cibo di superficie in sfere / di ottone mercuriale / e l’albatro cammina / sull’olio plumbeo dell’acqua, le orche deglutiscono boccate / d’acqua e sciami di alici nelle forme / di calamita e anelli scardinati, pulviscolo / di lische, il diorama del fondo degli oceani e oro in movimento e cuori insanguinati alla luce ( ) corruzione di cosa / in aria e terreno / tu che passi attraverso / la tua resurrezione”. Anche qui una trasmutazione di elementi (in un verso che si tende fino alla prosa, come spesso nel libro) che attraverso il connubio di “corruzione/resurrezione” segna, brunianamente, un ciclo continuo di vita/morte/vita. Ed è l’igneo, eracliteo elemento della seconda sezione (ed Eraclito è anche il filosofo dell’unione dei contrari) a presentarci il mezzo naturale della purificazione: “Vengo ad attraversare il mio dolore / davanti a te: sono quella / che passa nel fuoco ”. In un’atmosfera mediorientale, nella quale l’autrice gioca anche con i versi del mistico persiano Hafez, sembra che il fuoco suggerisca grazia e levità, pur nel capolino che fa il peccato, alla poesia (rispetto al precedente gravame della materia tra organico e inorganico), poesia che recupera temi d’amore in un’ebbrezza dionisiaca: “Forse il vino ci mette / come l’amore / nella incondizionata dimenticanza di noi ”. Una dimenticanza invece impossibile nella terza, tellurica sezione, dove la poesia riprende frammenti di storia: “I sepolti / sopra la terra, se avranno pietà di noi sembreranno caduti / in un sonno privo di giudizio / come un enorme pasto / di carne umana, sembreranno mischiare con una smarrita / rassegnazione carne / sguardi / al fango fumigante di Guernica”; macro e microstoria s’intrecciano nel ricordo del padre che partecipò alla guerra civile spagnola. Alla pesantezza tragica della storia corrisponde di nuovo un’innalzarsi dello sguardo, nell’ultima sezione, questa volta attraverso le estasi di Teresa d’Avila, tesa tra terra e cielo: “il mio corpo / è la parte bassa del cielo ( ) fai che la bocca affiori dal cielo / e dalla bocca fai passare il cielo”. Nel “cedimento” di Teresa si ricompone l’eterna ciclicità dei quattro elementi, con un ritorno all’origine dei tempi e del libro: “le mie ossa / non provano dolore / i minerali di cui siamo composti tornano all’acqua”. Una poesia complessa, nella quale fondamentale è la lingua adoperata. i giochi frequenti sull’impasto sonoro delle parole e l’uso altrettanto frequente dell’enjambement danno conto di una scrittura che gareggia con i contrasti e li recupera. Lo stesso enjambement in fondo è troncamento dell’ovvio e ricucitura dell’inconsueto. La poetessa, in modo avvertito, scrive, sembrando riflettere sul suo stesso scrivere, di “oggetti ammucchiati sull’argine della lingua / blu che non ripete le azioni ma forma legamenti di cose taciute”.
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