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Bidart Frank, Confessionale (L’Obliquo, 2008)

prefazione a Frank Bidart, Confessionale
L’Obliquo, 2008
 
 
L’IO CHE VORREBBE ESSERE SANTO
 
Dice e ripete l’io che qui si confessa a proposito della propria madre e in occasione della dura morte di lei: Non esisteva in natura alcun luogo nel quale ci saremmo potuti incontrare. Eppure i personaggi del poemetto – l’io e la madre morta – sono meri brandelli di natura, luoghi terrestri lontani come astri perché l’amore loro fu troppo invadente e complesso per venire sopportato da corpo naturale.
Bidart racconta la distorta costituzione di un io all’interno del legamento ossesso con la propria madre, dalla quale ha dovuto disciogliersi per asfissìa – la stessa asfissìa del gattino ucciso da lei affinché il figlio undicenne si disciogliesse invece dagli affetti terreni – e sentiamo le esclamazioni di Pasolini, lui che come Agostino ebbe il coraggio di non uccidere la propria madre e in sé si tenne fino allo strazio della morte nello strazio di tanto insostituibile amore.
Qui troviamo un confessato e un confessore e il confessato elenca i propri innumerevoli peccati di figlio, senza credere al perdono. Qui siamo nella mimesi adulta di un io infantile con le sue esagerazioni nervose, ma sostenute dal peso di una meditazione gigantesca sulla impossibilità di Dio.
La vicenda filiale agostiniana è duplicata per opposti e letta con l’amara ferocia del fallimento invece del contatto, una norma mistica affrontata sotto una luce da interrogatorio. Dove Agostino indica, già nel titoloConfessioni la descrizione del proprio intimo progredire verso, Bidart tiene a descriverci il luogo fisico – Confessionale – dove il moto si svolge, ovvero l’uno nomina il non-visibile, l’altro si tiene nel quadrilatero della natura e se anche il suo titolo intendesse evocare la “confessional poetry” statunitense, si tratterebbe di una confessione sacra filtrata alla luce di uno sgretolamento psicoanalitico: si intravvedono i sintomi di un altro mondo, ma soltanto nelle parole altrui, che sono sempre offerte irraggiungibili e non fanno che suscitare dispetto, delusione di sé. 
Siamo una specie intrisa del sangue della nostra redenzione. Abbiamo troppo vissuto, abbiamo visto organismi popolare la terra per troppi secoli, per credere. Portiamo sulla scena il nostro corpo, il vero alieno, questa nostra implacabile bilancia di morte. Ma il confessore pone domande semplici e per ciò inesorabili, domande che vengono da un altro mondo – e quasi sempre la stessa: l’hai perdonata
Al buio della morte della madre viene deposto sulla tavola di cera dell’ascolto il sudario dell’intera vicenda: questo io adulto non ha perdonato a se stesso le predazioni sentimentali dell’infanzia, la voracità propria nei confronti del cuore e del corpo della madre e senza questa compassione nulla si può compatire che sia venuto dopo. Il confessato parla immerso in un bagno echeggiante di onnipotenze infantili: crede, ama, soffre e si salva come se veramente fosse in gioco la vita. È sgraziato, è stonato, vuole spiacere dicendo tutto, e per di più pecca mentre confessa perché non smette di accusare. Lei, la madre, è veramente morta-non-perdonata e il figlio, che del perdono concesso sarebbe morto, sopravvive avvilito dal rimorso.
Perché Dio ha invece disposto il destino del ragazzo Agostino affinché si piegasse alle preghiere di sua madre? Perché Agostino può incontrare Monica la madre in Dio, fuori dalla natura? Dio e la madre sono tramite uno dell’altra. Monica e Agostino sanno gaudiosamente insieme che la vera esistenza è nel silenzio e nella cessazione del sé. 
La splendida trasposizione in versi della conversazione metafisica che si svolse tra Agostino e la madre a una finestra di Ostia mostra che l’io-confessato-poeta comprende fino in fondo cosa non può ottenere e la voce ispirata del santo che il confessato riproduce alleggerendo il fiato fino all’inno, lascia il posto al dolore perché la nostra madre di questo mondo, la madre contemporanea al nostro corpo, muore senza comprendere la propria vita.
Ecco l’umanità nella sua miseria mostrata da un altro sé – e di questo scheletro umano, di questa nera impalcatura di pochezza ci rimane nel petto l’orma di perturbamento e compassione che segue alla poesia quando è poesia. 
Lo stesso sentimento sta nel pugno di testi che seguono il primo dolorosissimo poemetto, raggiunti da uno sguardo più prossimo al volto, perché si sa che il pudore induce a dire io solo in presenza di una lente critica e a parlare degli uomini, incluso l’Iscariota, come se fossero corpi ancora lisci, illesi e innocenti sui quali chinarsi. 
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