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Strumia Filippo, Pozzanghere (il manifesto, 19.6.11)

FANGO CON LA NOSTALGIA DELLE STELLE
su il manifesto, 19 giugno 2011

Filippo Strumia, Pozzanghere, Einaudi 2011

FANGO CON LA NOSTALGIA DELLE STELLE

Se è vero – e decidiamo subito che è vero – che la poesia sia uno scarto invisibile tra il mondo conosciuto e un non meglio precisato altrove, le pozzanghere di Filippo Strumia operano questo impercettibile slittamento rovesciando i cieli e imponendo a essi un movimento silenzioso, ostinato e incoerente mentre paiono mostrarne la figura a vista. Strumia sembra che dica le cose del mondo, ma solo mentre siamo ormai altrove ci accorgiamo di essere stati presi da un vento mitologico e siderale, che forse è entrato da una crepa che si è aperta nel senso prima che ne accorgessimo. Eppure, le parole erano tutte esatte. Si trattava anzi di una indagine nella bella nominazione biologica, che non fa che innalzare la meccanica umana del corpo con la cosmogonia bellissima dei suoi nomi: sartorio, timo, astrociti… si trattava della descrizione di un continuo accadere all’interno della umana fibra, si trattava di un occhio-microscopio pieno di una obiettiva compassione, tutto preso alla terra. In questa compagine di compassione Strumia aveva compreso il delitto, la gialla fessura degli occhi dei lupi, il sacro mistero della prostituzione – ma non ancora l’Orso folle e rapinoso di un rapimento mortale.
Troppa molteplicità è contenuta in noi pozzanghere perché ci sia concessa l’onestà del sale e della terra, perché ci sia concessa la nullità degli angeli:noi non siamo davvero la terra. Ma ci viene riconosciuta l’innocenza: l’idea che noi come acqua morta riflettiamo il mondo fa di noi delle specie di finestre passive degli eventi, fa di noi puri effetti, fine della catena delle conseguenze, dei meri affacciamenti, dei cataloghi muti. Qual è allora la nostra libertà? Oltre ogni pietosa discolpa, la libertà sta nell’azione tanto rapida da essere quasi un fermo immagine: il porre mano alla faretra / mentre la freccia è ancora in volo. Allora questo aggrapparsi al corpo di Strumia, l’indagine ossessiva nelle sue particole marginali o vitali aiuta a contemplare in zone insospettabili uno stellato antecedente a una manomissione, una piantagione ancora vergine, il luogo ultraterrestre. Forse la crepa è nella nostalgia, in una nostalgia così profonda da essere biologica. Diamo nomi di stelle ai nostri organi per una nostalgia che i nostri organi hanno, di quand’erano stelle. Ma abbiamo nostalgia se abbiamo memoria. E abbiamo memoria quando possiamo sopportare il dolore della felicità: di quella presente, che finirà, sull’esempio di quella già finita. Si percepisce quasi in ogni pagina di questo bel libro un desiderio che germina dall’asfalto verso un gesto significativo che ricucia un clamoroso errore divino, uno sbrego nel senso, un definitivo dislocamento – forse avvenuto a causa di una perdita prematura – perché il tempo che ci cammina addosso spacca con il suo stesso peso la scorza che il dolore ci ha calcato sulle spalle e ci lascia sgusciati e vulnerabili, ipersensibili e mercuriali. Forti. Capaci di sentire che il povero determinismo umano sta nel rimettere in piedi un insetto rovesciato – e il legame tra la rotazione stellare e questo movimento è solo e incorporeo come un eco. Questa mano di uomo sfiora le stelle solo attraverso le loro più basse manifestazioni, agisce indirettamente sulle stelle – solo come eco, solo da lontano, in un legamento che passa per il corpo distrutto della blatta divina di Clarice Lispector, perfetta elegia del neutro e del niente, perfetta calunnia di Dio. Seguiamo fino in fondo questa polifonica algebra poetica: avremo pace quando avremo il coraggio di sopportare ogni perdita. 
E allora guardiamo se possibile più dentro la nullità: il dolore che strappa le foglie / è nel nulla dell’essere amato. Cosa vogliono dire questi due versi, bellissimi ed enigmatici? Che l’amore non salva come speravamo? Che il pensiero dell’essere effimero di chi amiamo ci fa mordere la terra per il dolore? Il doppio significato di questi versi, l’accostamento tra la panacea-amore e il nulla-morte compie la sua macchinazione in noi. Questa forse è la più insopportabile delle delusioni: che dentro tutto questo amore splenda la lama del sorriso di Lucifero, che tutto questo amore sia sempre umano, sempre poco e ambiguo – e non salvi, non sani, non ti abbia guarito.
Questo libro non è consolatorio: la consolazione sta nella forza esclusivamente umana di sopravvivere alla piena coscienza della fine restando come in volo, stando felici mentre siamo macchiati di morte, macchiati a morte, felici in una sospensione di fiato, accettando di essere non più durevoli di quel millesimo temporale tra lo scatto della lingua del ramarro e l’ingoiamento della mosca-io in un nuovo gorgo intestinale dichimo e urina, nuovamente pari alle stelle. 
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