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Bonnefoy Yves, intervista a (il manifesto, 3.9.11)

INTERVISTA A BONNEFOY, OVVERO: DELLA BELLEZZA ESTREMA E SUFFICIENTE
su il manifesto, 3 settembre 2011

Incontrare Yves Bonnefoy, che da poeta scrive anche saggi d’arte e filosofia, è mettere se stessi nel cono di luce di uno sguardo pieno di bonomia e d’ironia. Bonnefoy vede lontano come un enfant terrible. Nessun pregiudizio, niente di ordinario. Una camicia azzurra senza cravatta. Si presenta così al Premio Viareggio. E, nel discorso di ringraziamento, tradotto in simultanea dall’ottimo Fabio Scotto, che ne ha recentemente curato il Meridiano de L’opera poetica, dice che la poesia contribuisce alla pacificazione perché risponde a bisogni universali e che il poeta procede a un lavoro di ricostruzione per la vita e per la causa umana e appare agli esseri nelle esperienze di dolore e gioia come figura fraterna e democratica, responsabile di quanto accade nel mondo. Capita dunque a noi quello che capita agli oggetti osservati dalla semplicità del suo sguardo: illimpidiamo. Come il suo albero sulla collina e le sue estati miliari, anche noi diventiamo atemporali, moltiplicati nei sensi della profondità e della leggerezza. Siamo posti in un luogo di evidenze. Acquisiamo prospettiva, quasi la dissipante vastità di tempo e spazio di quando fummo bambini. La parola e lo sguardo di Bonnefoy vengono da una luminosità originaria e sono rette dalla forma morale immanente alla bellezza. Questa particolare forma poetica porta alla nostra memoria una specie di infanzia collettiva delle cose e degli esseri. Risana la rovina, con l’ape che fa bottino nelle corolle dietro le colonne. Con le bacche e le ombre di traverso del sole sui mosaici. Zone larghe. Larghe bocche di smalto. Larghe borchie. Il chiaro di una zona termale, una gioia che esisteva prima di noi. Una evidenza. Chiede che comprendiamo fino in fondo il suo grido di gioia; chiede che partecipiamo al suo improvviso, ripetuto grido di esultanza ostensoria e antinarcisista, che dice: ecco, per te, l’estrema bellezza del mondo. Che questo mondo rimanga!.

1. La poesia, in bilico tra il mondo e il suo sogno metafisico, lancia codici e impulsi tra gli organi della persona scrivente e la cosa. Io leggo le sue parole come parti della commovente (e mai compiaciuta di sé) evidenza del mondo. Desidero dunque chiederle se lei scrive per provare la gioia di questa speciale grazia o per continuare a tentare di avvicinare la spigolosa inafferrabilità dell’oggetto. Ovvero, lei scrive felicemente riassorbito dal di dentro della cosa o provando la nostalgia dell’esule?

La nostalgia dell’esule è un buon modo di definire il mio rapporto col mondo, almeno con le esperienze che la poesia non permette di trasfigurare. “Noi non siamo al mondo”, ha scritto Rimbaud. Hofmannsthal ha detto pressappoco la stessa cosa ne La lettera di Lord Chandos. Ed è vero: il “pensiero concettuale” si approssima solamente ad alcuni aspetti degli eventi e delle cose e produce rappresentazioni schematiche degli oggetti. Attraverso il “pensiero concettuale” noi risultiamo separati dalla realtà nella sua immediata totalità e separati anche da noi stessi, che siamo parte della piena realtà. Ecco cosa significa sentirsi in esilio. Ma la poesia è rifiutare questa condizione di esule, è cercare parole che non si lascino ridurre a concetti, che rendano la piena presenza degli esseri e delle cose nella nostra vita.

2. La sua poesia è piena di gratitudine e approvazione e meraviglia davanti allo spettacolo del mondo. La parola entra nella Genesi attraverso la bocca del serpente, nella domanda che egli rivolge a Eva. La sua parola contiene la tentazione di riformare un Eden dopo lo smacco della separazione, la tentazione di una conoscenza originaria e atemporale?

In effetti le parole ci permettono di riprendere quota in questa piena realtà. Nel discorso ordinario si estinguono, poiché designano cose ridotte a idee, a quanto i filosofi antichi chiamavano “quiddità”. In poesia il ritmo, le allitterazioni, le assonanze, rendono alle parole la sonorità, priva di rapporti con i significati concettuali, e così le parole, che davano un’immagine del mondo astratta e parziale, sono ora libere di prestarsi ai nostri affetti e possono farsi nuovamente rappresentanti della cosa com’è al di là della sua rappresentazione. Le parole riformano allora attorno a noi e per noi – e per quelli che amiamo – un mondo di presenze che sarebbe la vita vera, come afferma ancora Rimbaud. La poesia rende alle parole la capacità sommersa di indicarci l’evidenza in ciò che è, fa apparire le cose come presenze (la loro ecceità). Le parole del serpente, che la poesia combatte, non sono le grandi parole semplici della poesia, ma i concetti, che, dopo la cacciata dall’Eden, sono strumenti di una conoscenza astratta e generica.

3. Lei ha dichiarato di scrivere come proseguendo un sogno notturno, lasciando intendere la scrittura poetica come una mera posizione di ascolto. Apprezzando profondamente la modestia della sua affermazione, desidero però chiederle di quanta cavità dell’anima, di quanta scomparsa del proprio io biografico e singolare un essere umano abbia bisogno per restare in ascolto della voce che gli “ditta dentro”.

Infatti. Scrivere per me non è la messa in scena di un “io biografico”, che è espressione del nostro “io” di facciata, la nostra costruzione di noi stessi sul piano del “pensiero concettuale” e che si oppone all’ “Io”, alla voce profonda che non si accontenta di negare la finitudine. Scrivere è il rifiuto di un “io” aneddotico, fantasmatico, in favore di un ascolto dell’ “Io”, ed è anche ascolto della parte inconscia del nostro rapporto con noi stessi. L’io rigetta l’Io nell’inconscio, ma la poesia cerca un contatto con questo Io rimosso. Ciò può avvenire con naturalezza attraverso una attenzione al sogno. Intendo dire al sogno notturno, poiché la poesia diffida delle fantasticherie diurne, che sono spesso solo espressione dell’io, di desideri riorganizzati dal “pensiero concettuale”. La poesia non è l’immaginazione, ne è bensì l’esame severo, il giudice.

4. Quale granello di sabbia al fondo, che impurità forma la perla della sua parola, quale imperfezione del mondo la costringe a scrivere?

Lei mi assimila a un’ostrica! È certo che la scrittura poetica, questa espansione delle nostre intuizioni più intime nel discorso stereotipato del gruppo sociale, è ossessionata dal ricordo di avvenimenti, spesso della nostra infanzia, che furono per noi degli chocs, perché ci rivelarono che “non siamo che vane forme della materia”, come dice Mallarmé. Ma, per stabilirsi durevolmente nella nostra memoria e nella nostra scrittura, non è necessario che questi avvenimenti siano stati drammatici. Uno dei miei “granelli di sabbia” è il ricordo di un albero che ho visto, da bambino, drizzarsi solitario sulla cima di una collina.

5. La poesia è una postura morale della persona-poeta?

Assolutamente. La poesia ridà alla persona la propria qualità di essere, mentre il discorso della conoscenza tende a ridurla alla condizione di oggetto. Possiamo dunque considerare che la poesia ricerchi il bene e sia nostro dovere volgerci verso questo suo bene. La poesia ha un pensiero del bene e del male, ma il suo imperativo morale non ha niente a che vedere con le preoccupazioni e i principi della morale sociale tradizionale.

6. Quale ritiene sia il suo compito? Chi desidera raggiungere, toccare, perturbare o consolare con la sua opera?

Perturbare sì, trasgredire le rappresentazioni alienanti, ma non consolare. Le poesie non sono fatte per distoglierci dal mondo, ma per prepararci all’azione. Ciò comporta che esse siano in rapporto con la politica, a patto però che la poesia non accetti parole d’ordine dalla politica.

7. Dopo il passaggio di un grande poeta la natura del mondo rimane la stessa o ne viene, impercettibilmente o radicalmente, modificata?

Diciamo che la grande poesia non cambia la figura del mondo, ma vuole restituirle il bagliore originale, quello che aveva ai nostri occhi all’inizio, nell’infanzia. Questo bagliore si perde se la poesia non è lì a preservarlo. Pensi a Intimations of Immortality, il grande componimento di Wordsworth: “The things which I have seen I now can see no more” (“Le cose che ho visto ora non posso vederle più”). E pensi anche ai primi versi de La sera del dì di festa: “Dolce e chiara è la notte e senza vento”. I versi di Leopardi ristabiliscono l’evidenza che quelli di Wordsworth rimpiangono di avere perduta.

8. Lei è un grande amante ed esperto di arte. In particolare, è stato legato da amicizia ad Alberto Giacometti. Quali similitudini o quali forme di completamento reciproco sono nel mondo immaginato da un poeta e da un artista figurativo?

Il problema dell’ “ut pictura poesis” è infinitamente complesso e non è possibile affrontarlo in così poco spazio. Diciamo che ci sono pittori che cercano di vedere le cose alla luce dell’evidenza originaria della quale abbiamo parlato: essi vedono il mondo oltre le figure con le quali il “pensiero concettuale” lo sostituisce. A prima vista le loro immagini non sembrano differire troppo dai risultati di una mimesis ordinaria, ma si viene presto investiti dalla luminosità misteriosa che essi percepiscono nelle profondità di tutto ciò che è. Queste opere sono un aiuto per i poeti e li incoraggiano a vedere, ma Giacometti è un’altra cosa: egli non desidera mostrarci la piena figura delle cose, come fa per esempio Vermeer de Delft, vuole invece riprodurre un avvenimento nel quale il modello si mette in piedi nel corpo per gridare che egli stesso è di più di quel corpo, che egli è qui e ora un essere mortale e nello stesso tempo assoluto.

9. In Le assi curve – che sono appunto le assi della barca di un gigantesco traghettatore lunare – lei scrive Per essere un padre, bisogna avere una casa. Poco più avanti scrive che bisogna dimenticare le parole. Al momento di passare dall’una all’altra sponda, quali sono le parole che ci trattengono più delle altre? Possiamo andarcene comunque in pace senza avere avuto da dimenticare le due parole umane originarie: “padre” e “madre”?

Non posso commentare la mia opera “Les planches courbes”, perché non l’ho pensata, prima di scriverla, l’ho semplicemente scritta, lasciandomi spesso sorprendere da quello che il mio inconscio mi dettava. Certamente ho compreso molte cose mentre scrivevo, ma non tutte, e sono dunque poco armato davanti a questo testo. Sì, ho scritto bisogna dimenticare le parole. Ma perché? Ci rifletto… ma rifletterci è ancora dalla parte della scrittura, qualcosa che resta ancora da interpretare.

10. La nostalgia di Dio per la nostra vita, addirittura per il nostro corpo mortale, fa sì che Dio cada in particole e schegge nella vita di tutti. Il Cristo risorto di Rilke non era in pace alla destra del Padre perché avvertiva un richiamo terrestre, la lacuna straziante di sua madre. Con la morte di Maria egli torna appagato e il cielo si ricolma e si richiude. Il cielo di Yves Bonnefoy rimane invece condannato a uno strazio elementare. Secondo lei Dio forse si è incarnato, oltre che per salvarci, anche per guarire la sua vertigine di non essere “questa” materia?

L’incarnazione secondo me spetta a noi, è un atto di adesione senza riserve alla nostra finitudine. È questo il nostro cielo. Non conosco trascendenza se non nelle profondità della cosa semplice, quando la percepiamo oltre la figura schematica che la conoscenza “concettuale” le attribuisce. Attraverso la poesia possiamo sperare, semplificare, chiarificare e approfondire il nostro essere in un mondo che sarebbe nostro se la nostra incarnazione fosse profonda: sarebbe la nuova terra, che potremmo dire “divina”. Dio è solamente l’ “oltre” di noi, una speranza che l’umanità non si è ancora dimostrata capace di realizzare. Non credo a un dio esistente al di fuori di noi. Il divino puro, il focolare di tutte le trascendenze è la parola. Non il linguaggio, sempre relativo e infermo, ma la nostra parola che lo rinnova.

11. Infine (purtroppo!), per citare un suo bellissimo saggio sull’Italia, L’entroterra, avviene che talvolta si sia immanenti al mondo come la luce delle proprie parole, che non si venga scacciati altrove dal proprio desiderio di conoscere, avviene che il sapere e la pace talvolta siano “semplici”, siano semplicemente tutt’uno?

Nello stare al mondo del quale parlo, accessibile attraverso la totale accettazione della nostra finitudine, l’essere parlante sarebbe in una relazione d’immanenza con tutto ciò che è: tutto sarebbe luce, la conoscenza dell’esterno coinciderebbe con la conoscenza della interiorità… Ma dire questo è formulare un’utopia. La poesia in questo mondo è un’utopia; il luogo della sua realizzazione è in un avvenire che alleggerisca il peso sul nostro spirito di un “pensiero concettuale” che non cessa di produrre i suoi sistemi chiusi e le sue ideologie. Ma ecco, la poesia è l’utopia che ci dà il coraggio di vivere. 

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