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Kar-wai Wong, In the mood for love (A+L n. 15, 2010)

L’ELEGANZA DELLA PASSIONE RINUNCIATA
nel lungometraggio di Wong Kar-Wai In the mood for love ovvero
Commentario de l’amore eterno

 

in A+L numero quindici, SGUARDI A PERDITA D’OCCHIO, i poeti leggono il cinema (ARS, 2010)

 L’ELEGANZA DELLA PASSIONE RINUNCIATA
nel lungometraggio di Wong Kar-Wai In the mood for love ovvero
Commentario de l’amore eterno

… c’è stato un tempo in cui ho preso la mia sposa per mano e le ho detto: io ti amo. In quel tempo lei mi ha risposto: anch’io. Ecco l’errore, la crepa della vita, lo sbaglio dove s’incunea il Nemico del genere umano: l’amore detto. Non dite mai l’amore, dice l’antico rito. L’amore di questo mondo è parole destinate alla catastrofe scrive Emanuele Tonon ne Il nemico.

I protagonisti di In the mood for love, sebbene il titolo li dichiari “pronti all’amore”, “propensi all’amore”, non commettono l’errore di dichiararsi. Essi non hanno peccato, dunque perfetti sono i loro gesti, che nulla dicono e dicono tutto.
L’amore viene confessato alla fine come un segreto da consegnare a un tempio millenario: le poche parole del segreto amoroso vengono chiuse con il fango e con l’erba in un buco nella colonna del tempio khmer di Angkor Wat. 
Così l’amore è richiuso come un corpo che ci sia appartenuto: con il fango e con l’erba.

È la solitudine a creare la predisposizione all’amore, ma l’amore è un rinforzo in acciaio dello scheletro e insieme ne è l’ebollizione e la volatura: un amore così è la decantazione del corpo e l’alambicco è il corpo stesso. 
Prima ancora che inizino le immagini è stato già pronunciato un mancamento, si è già dichiarato lo slittamento delle piastre geologiche di due esistenze: lui e lei, due tensioni umanissime che non s’incontrano. “Fu un momento imbarazzante”: così esordisce la narrazione, dove i due protagonisti progrediranno attraverso immagini che non esito a definire perfette nella bellezza della solitudine, nella dignità e nella decarnazione dell’ossessione amorosa. 
Da una situazione di precaria normalità si scivola in un culmine di dolore e poi nella reciproca apprensione che illumina di desiderio di vita tutte le scene. 
La storia è una non storia, estrema nella sua banalità: un uomo e una donna si amano e non si possono amare perché entrambi sono già infelicemente sposati. 
L’arte, si sa, sa occupare di rado i territori della gioia, ma serve a trasformare nella gioia della creazione ogni toppa di fango della nostra vita. Interamente noi, del resto, siamo cose venute dal fango. 
Anche In the mood for love è un oggetto cinematografico che come Adele H.di Truffaut e come molti altri fenomeni artistici dice l’amore venuto dal dolore, costretto a rassegnarsi a scelte pregresse, ma lo dice con la violenta impassibilità di due volti.

L’uomo e la donna, che non si conoscono, hanno appena traslocato verso un’esistenza da affittuari che li vedrà vicini. 
Fin dalle prime inquadrature l’insopportabile bellezza dell’eros incompiuto tracima dai corpi e si diffonde sul film. 
La prima imago erotica è il rapidissimo dettaglio della mano di lei su uno stipite: un rigore di smalto e porcellana sulla casuale spencolatura e ruvidità del legno. Come sono tutti necessari e definitivi i dettagli della persona amata! E come essi sono più indimenticabili dell’insieme: sono i particolari che ossessionano quando l’amore è perduto. Il film di Kar-Wai è un film estremamente dettagliato. 
Come lei appoggia la destra mentre scende le scale sarà certo per lui indimenticabile. 
Per le scale: il vestito di lei che si solleva veloce al ritmo dei suoi passi – e per i passi: il rumore dei tacchi su marmi, lastrici e gradini – e per la sobrietà di lui, dei suoi abiti grigiochiaro e delle sue cravatte, per il contegno virile nel mangiare e fumare.

Quando entra in scena (la colonna sonora è la terza protagonista del film) il valzer lento di Umebayashi il tempo rallenta. 
Esiste la cronometria del mondo, scandita da un orologio Siemens appeso nell’ufficio di lui che fa da controcanto a telefonate di lavoro e appuntamenti mancati 
– e c’è il tempo privato (io sono privata di tutto tranne di te) della solitudine e degli sfioramenti di chi sale e scende le scale con in mano il portapranzo di alluminio verde chiaro, l’intervallo di chi scende alle cucine e risale alla propria camera vuota.
Chi molto ama, ama la solitudine, perché essa è colma della Figura amata. Non a caso gli amanti di Dio, il Lontano per eccellenza, si ritirano dal mondo. 
Il mondo fabbrica evidenze, l’amore edifica nell’invisibile un altro corpo che non è più nostro.

L’amore dei due protagonisti è uno sviluppo morale della solitudine e di un dolore improvviso e comune. ”Non dobbiamo essere come loro”, lei dice. Lei mette fuori dalla sua bella bocca quello che avevamo ben visto. Nulla, in realtà, renderebbe impossibile questo amore se non il rigore, soprattutto di lei.
I due sono circondati da intrecci sentimentali e da figure anche caricaturali che ancor più li fanno risaltare: due pietre purissime e come prese da un furore etico. Non sono mancate e non mancano loro le occasioni e soprattutto le motivazioni per diventare amanti, ma essi si mantengono ciascuno nel proprio corpo, non vogliono versare il nome proprio dell’amore nell’ambiguità mondana che germina loro intorno al punto che lei, impenetrabile nel corpo e nel suo giudizio, prende e disdice appuntamenti per il suo capo che si districa indifferentemente tra la moglie e l’amante.
Questo è buonissimo: l’amore ha un’etica e ha una giustizia, dice Kar-Wai. Essere tutta febbre per l’amore non giustifica che la nostra febbre sia per un altro spada, non giustifica che lo si tradisca e lo si offenda.

Lei e lui sono oggetti impenetrati: l’amore non ha traccia sulla superficie dei volti o nelle parole ed è altissimo il fascino di questo silenzio. Solo in un breve dialogo di strada c’è un discorso amoroso, che si richiude subito nella dignità di un trasporto superiore al suo oggetto: un sentimento che si è effuso così non può riassorbirsi, riasciugare e restringersi alla superficie, è un amore che supera i protagonisti dai quali s’innalza, oltrepassa persone e circostanze, è un imprevisto che cresce dai due corpi verso l’alto come una bandiera o la ramificazione di un albero, in maniera ormai del tutto autonoma. 
Se io ti amo e non posso toccare te che mi ami il mio demone tocca ogni oggetto del mondo illudendomi che tutto sia te che sviluppi ogni tralcio per raggiungermi. La tua anima tutta si sviluppa. Io sono terra dove l’amore poggia i suoi calcagni, sono mera occasione. Sono fuori di me. Questo amore è più grande non solo del mio corpo, è più vasto del meglio di me.

Il mio amore è andato via da me come una emorragia di sangue e non posso rimetterlo nel corpo, non mi concerne più e non lo comprendo, è una lingua straniera nata da me. 
Questo corpo amoroso di sangue è più grande di me, io non lo posso contenere – non più – e non lo trattengo: sono un’altra faccenda, che ha ancora a che fare con il morire.

Anche la pioggia diventa il mio corpo. Così comincia un’acqua colossale: comincia da un pianto sotto la doccia e continua con scrosci di pioggia che sono il pianto collettivo del genere umano, lo spostamento verso l’esterno di un sentire indicibile, il pianto di compassione dell’umanità sola e mortale.
Il doloroso splendore che mi è cresciuto dentro è una comunità.
Io sono lacrima di un lamento più grande di animali contratti nella finitezza. 
Ma non avere neanche cominciato sfonda il limite omega della fine: questa sarà la mia consolazione. Siamo altrove per sempre dunque siamo immortali.

Dalla pioggia che è scesa inizia il fumo, fumo acquoso di terra che sale e primi piani di quanto si leva dalla combustione dalle sigarette di lui, che sono esalazione del suo corpo ormai tutto pensiero, vaporazione, ormai tutta tensione: il dolore non è più quello degli abbandonati, ma è il dolore puro della rinuncia, quello di ogni momento in cui ti lascio andare per tenerti con me come mai prima e come mai nessuno.

Avvolti nella loro intangibile struttura etica, lei e lui progettano di scrivere un libro sulle arti marziali. Esemplare la scena dove lei inizia a scrivere, curva sul foglio come una bambina – è il solo momento dove il suo corpo nobilissimo sviluppa nello spettatore una tenerezza – mentre lui eretto batte a macchina e fuma. 
Sono ancora divisi. L’amore viene fatto a distanza e nella scrittura, esso è stato trasferito in incarico: ora ha una funzione, un officio da svolgere.
Dunque gli amanti senza corpo cominciano a incontrarsi per un compito che si sono assegnati e la camera è satura di questa dislocata intensità: nei sorrisi felici che cominciano a sbocciare sulla loro bocca si svolge tutta l’opportunità dell’amore. 
I due sono insieme adesso, chiusi in camere dove scrivono, mangiano, parlano, leggono, si straziano con simulazioni di abbandoni e di confessioni e non consumano nulla. 
Ma tutto sta nella parola stessa, di uso comune: consumare l’amore. Consumare l’amore è di uso comune, è di uso comune dirla così. Ritorniamo a Tonon, proseguiamo il suo brano: Le ho detto ti amo e lei mi ha detto altrettanto. Poi abbiamo smesso di parlare e siamo entrati nel regno dei morti – ma non lo sapevamo, allora, che era il regno dei morti, quello – quello dove è la carne a parlare, solo questa carne destinata alla corruzione, allo stravolgimento, alla trasfigurazione
Questo vuol dire consumare l’amore, vuol dire disinnescare la carica eversiva ed espansiva della comunicazione erotica e affidarla, concentrata su esso come la scheggia di una bomba, al corruttibile involucro.
Ma vuol dire anche proseguire la vita, obbedire alla legge di natura. Basta poco, basta molto poco, per dire sì alla natura.

Wong Kar-Wai dice il suo sì attraverso la bellezza. 
Perché la passione che non vuole essere espressa rende tutto esaltato, esasperato, insostenibilmente perfetto, è una lente macro sul cuore. Perché l’amore non fatto straripa anche su noi spettatori, che siamo oggetti del mondo
e usciamo dalla sala innamorati di lui e di lei e del loro garbo e del loro contegno e di ogni altro oggetto, di ogni scalino e vestito, di ogni acconciatura e piatto servito a tavola, di ogni goccia di pioggia o corolla, di ogni attesa e di tutti i muri lungo i quali i corpi hanno strisciato. Ciascuna inquadratura, ciascuna cravatta, scala o sigaretta accesa, e alla fine la cover di Osvaldo Farrés che ripete Quizas, quizas, quizas nella lancinante versione straniera di Nat King Cole, con quello spagnolo sghembo, tutto è così evidente e insieme così segreto, tutto è costretto a parlare d’amore senza parlare.

Il film si chiude sulla sfuocatura del passato: tutto questo, che è accaduto, non si può più toccare, il nostro amore è come un ramo d’oro in una teca. 
L’oro è una perfezione che non cresce, è il risultato ultimativo di una trasformazione, perché qui prima c’era il mio dolore e ora c’è la tua maschera d’oro, perfetta e immutabile – e l’oro che forma la tua maschera l’ho fuso dai canali del mio cuore con le mie mani, è il meglio che ho levato da me come da una cava
nell’altoforno della lontananza.

I gesti che non sono stati osati lasciano per sempre nell’aria intorno ai corpi tutto l’amore non fatto 
come un tempio in mezzo alle rovine.

14 aprile 2010

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