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Bergamasco Sonia, Anna Karenina (4.12)

su la Karenina di Emanuele Trevi interpretata da Sonia Bergamasco per la regia di Giuseppe Bertolucci
aprile 2012

PRIMO: NON NASCONDERE

Non nascondere è la chiave creativa della creatura Karenina di Bergamasco-Trevi-Bertolucci, che espongono nella camera anatomica del teatro il cantiere aperto della mente di Tolstoj con dentro i primi bagliori della persona che si sta formando – anzi, della farfalla che viene acchiappata dal retino fittissimo della sensitività di Tolstoj e viene trascinata sulla terra perché muoia di dolore per l’angustia morale della terra. Una larva cangiante, una disperata. La sola cosa certa, quello che noi sappiamo dall’inizio, è che lei morirà. E anche Tolstoj sapeva questo fin dal concepimento di Anna, perché una scena vista nella vita vera gli era entrata nell’anima come una di quelle indimenticabili fitte di verità che capitano a volte nella vita di un uomo: Tolstoj va a vedere depezzata sul tavolo anatomico una certa Anna Stepanova Pigorova che il giorno precedente – fattosi un rispettoso segno di croce che l’assolvesse dal peccato più tremendo che stava per compiere – si era tirata sotto un treno per amore. Chi è a pezzi non può più nascondere niente. Soltanto l’interezza ci fa salvi. La nostra maschera deve restare intera. Altrimenti compaiono tutto il dolore, la vena maligna della follia nel desiderio e nell’abbandono, cioè lo schifo peccaminoso delle abbandonate, non eroiche come le abbandonate rilkiane bensì più modernamente (meno liricamente e più psicopatologicamente, diremmo) cieche alla bellezza radiosa di questa vita. Così, dopo anni dalla vista di quel nudo di donna in abbandono, a Tolstoj appare un gomito di quella che sarà Karenina. Chi sa quali legami, quali alchimie. Anna certo esisteva come esistono le cose necessarie – e a un certo punto (o meglio, da un certo punto di sé) è apparsa: Tolstoj è stato il tramite della sua esistenza come la fronte di Zeus per Atena. Il nucleo della persona di lei, ciò che è rimasto immutato nelle versioni, è la potenza eversiva: una libertà, una radicalità del cuore che non può non essere autodistruttiva sulla faccia formale di questa terra. Amore e poesia sono forze della rivoluzione, scavano fino all’osso delle cose (per fortuna non mi sfugge che Tolstoj fosse un romanziere, ma sono certa che ci intendiamo). Così l’attrice e poetessa Bergamasco espone muscoli, legamenti e silenzi della sua anima, apre le vene in scena sotto gli occhi di tutti, con il coraggio – lei di solto tanto misurata – della smisuratezza. Non si può non restare a bocca aperta come davanti a una rivelazione. Questa cosa dolente e insanguinata, eppure ancora nobile e luminosa di una dignità oltremondana, rimasta nel setaccio di Bergamasco-Trevi-Bertolucci dopo l’indagine sulla nascita di una creatura “mentale”, è più viva e desiderante che se fosse davvero stata viva. Gli autori ci dimostrano come Tolstoj desiderasse rovesciare la maschera sociale: con Puskin, egli getta la mina della bellezza e della verità nel gesso della festa aristocratica. Vuole pietà per l’adultera, non condanna. Vuole che la maschera umana dilaniata riveli più amore: proprio lui, che a breve sarà l’autore morale della Sonata a Kreutzer. Così questa Karenina che non si nasconde fa in tempo a chiedere compassione, chiede aiuto a chi guarda: e Bergamasco tocca le mani degli spettatori, è più vicina che mai, più trasparente che mai, è quasi tutta disarticolata, andata in pezzi per uno squassante abbandono. Insieme alle molte voci-corpi (Tolstoj e la moglie, Karenina e il suo prototipo nella Zinaida puskiniana) che ella stessa incarna in una magistrale schizofrenia, suo solo compagno sulla scena è il pianoforte, con il quale Bergamasco è in relazione erotica e violenta. La nera lucidità, l’imponenza specchiante dello strumento è stata musica suonata dal vivo, superficie riflettente, fantasma e carne dell’amato da sradicare a strappi dalla memoria, binario e infine sarcofago dal quale emerge un braccio diventato agghiacciante, non più soave come la bella carne di una giovane donna in amore. Da tutto questo dolore esposto – non ostentato – sul palcoscenico, si esce illuminati dalla potenza della passione, sia essa la febbrile avventura creativa di un genio rivissuta – non soltanto riscritta – da Emanuele Trevi e Sonia Bergamasco, sia la perdizione dell’amore nel mobilissimo e intelligentissimo semibuio della regia di Giuseppe Bertolucci: si esce dal teatro illuminati dall’eroismo di chi sa consumarsi sull’altare di carne di un corpo amato come una candela, di chi si piega sull’ara di un pianoforte al punto di venire infine assorbita dal corpo stesso dello strumento come uno dei suoi budelli, come una corda umana, qualcosa che continua a fare musica dopo la morte: di Karenina e di Tolstoj. Com’è nei fatti.
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