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Riviello Lidia, Neon 80 (L’Illuminista, 2010)

TUTTO IL SUPERFLUO RISPLENDERE
Lidia Riviello, Neon80, Zona, 2009

 

TUTTO IL SUPERFLUO RISPLENDERE

Neon 80 è un trattato di sociologia in versi. Anzi, di videoclippentomologia: Lidia Riviello guarda a questa – sua propria – specie umana con lo sguardo che viene da un altrove – da dentro una vetrina, ipotizziamo, dove il suo corpo è un corpo-manichino che vede sfilare la sua specie-manichino – e osserva chi la osserva, ma soprattutto specchia chi la osserva – e “fa il verso” rifacendo la smorfia del mondo, utilizzando l’instrumentum subtilisdella “parola (che le è stata) data” per riprodurre – quasi – le nostre gaffes – e usando in modo improprio della punteggiatura: Lidia non chiude le strofe con il punto, sebbene inizi il brano successivo con la maiuscola. Tutto resta in attesa di qualcosa, tutto ricomincia da dove non è ancora finito. Questa irresolutezza della pausa riassume in simboli e in alterazioni del respiro affermazioni come: Presa nessuna direzione / l’Anno Ottanta se ne volò […] e i nipoti di Stalin / diventarono adulti nelle città d’Europa / in crisalidi noir. Diciamo allora che l’altrove di Lidia è il respiro parlante della poesia, che fra lei e il mondo c’è il vetro limpidissimo della parola che si frammischia e rovescia come vedremo.

Per causa di uno scoramento intelligente e reattivo Lidia Riviello descrive il mondo 80 con continue metafore animali e naturalistiche: il panorama urbano sembra una savana quasi desertificata, deserta anche della sua naturale ferocia e resa bianca dai neon che non sono luce, no, sono un gas che ha smorzato il sole: Non c’era solo il neon a illuminare l’interno / eppure non veniva accesa altra luce sui coni / acuti dei grattacieli, sulle torri e altri / pendenti, a rischiararci tutti, da capo a piedi / solo neon, senza energia, e dove c’è neon / non c’è sole. Lo scenario nel quale ci muoviamo è simile a quello di Io sono leggenda, ma gli animali sono muti animali umani, leoni presi da innaturale insonnia e commestibili gazzelle insidiate dal rovello del look. La superficie. Involucri. Cosa dunque è l’amore in una terra dove sono scomparse le regole dell’incontro? È un sentimento al buio tra sconosciuti, un amore mai consumato e perdutomentre si contratta il proprio centimetro di esistenza nel troppo pieno del branco umano. A conclusione del capitoletto amoroso Lidia Riviello (con la coda dell’occhio, ma folgorandoli) nomina i poeti, corpi che vogliono durare nella luce propria. 
Si sente, lo si enuncia con chiarezza, che l’autrice è cresciuta in una società nella quale esordivano i video e la televisione commerciale ed entrambi cominciavano a modificare l’immagine e la percezione stessa del nostro corpo: il corpo è sempre più esibito, dunque cade nel suo parossistico paradosso di lontananza e di frammentazione, non è quasi più una “questione privata”. Il corpo è pubblico ma vuoto e noi siamo pubblicamente soli. Quanto corpo a noi dovuto ci è stato sottratto? dice un suo verso che echeggia – involontariamente, credo – il canzoniere d’amore di Pedro Salinas, il suo antitetico La voce a te dovuta, dove la voce sgorga da una cavità amorosa per inneggiare. Qui la voce è il sussurro accecante e accecato di una stilita, disincantata e ironica: il corpo incomincia in quegli anni a non essere denso, a essere corpo-pixel, cosa passibile di replica infinita (quante volte possiamo ancora rivedere l’amante perduto, e quanti figli possono spiare i movimenti della propria vita intrauterina), il corpo incomincia a essere travolto da una destrutturazione molecolare e informatica (siamo tutti sempre, siamo tutti ovunque, dove siamo veramente?) che è disamina e disanimazione – fino ai minimi termini ai quali lo ridurrà Mario Benedetti con il suo big-bang linguistico e i rari meteoriti tratti in salvo dal nome della cosa e dalla voce che lo pronuncia, il nome – quasi muta. In Neon 80 da ogni frammento si potrebbe trarre un videoclip fatto ad esempio di: edere, antilopi, pillole, aceri e plexiglass. E tutto in una notte che non cala mai, in una oscurità sempre illuminata. Con artifici bianchi. 
Io (soggetto preso occasionalmente ad esempio perché a questa transitoria me sta per essere consentito il sentimentalismo degli anziani) avrei intitolato il libro con un verso che è contenuto alla metà del libro: “Tutto il superfluo risplendere”, che è la parafrasi trascesa di “Neon”. Questa me si domanda perché, se a un poeta viene “dittato dentro” un verso come Ma l’esplosione generò un silenzio formale poi lo continui con come un profumo gucci, o un tale e quale. Perché un poeta scherza sulla propria vena “lirica”, la rinnega appena dopo averla scritta?
Perché questa poetessa si incarica del mondo così com’è (lo dice lei: l’anima… resta al testo aderente) senza nessuna trasfigurazione, perché lei vuole dire: tutto questo è poesia. Vuole infrangere il vetro che la tiene lontana dai mortali immortali dei video. E quando grande deve essere la compassione. Io prendo tutta questa bruttezza e non la sublimo, la descrivo – ma in modo che voi la comprendiate e che io la giustifichi a nome di tutti. Io sto provando a rendere obiettivo questo mal comune, ve lo sto sciorinando tutto intatto e bianco sulla pagina bianca – e la mia è una scelta politica, questo mio fare virtù delle più triviali diramazioni del linguaggio. Virtù e virtuosismo, acrobazia della immaginazione che mai è arrivata a guadagnarsi – ahimé! – alcun potere mondano. Questo ci dice Lidia Riviello in ogni verso. Fantasia, immaginazione, volgarità: gli estremi qui si toccano e s’invertono. E questa è la funzione maggiore della poesia: evoluzione del linguaggio, catarsi, assorbimento e digestione della mutazione sociale (quasi genetica, ormai) da parte della voce di una scrittore. Anche il modo, ironico e performativo, col quale Lidia legge, sta in sintonia perfetta con una presa di vicinanza poetica – una poesia che vuole dire, darsi, comunicare. Nient’altro deve fare un poeta se non questo: custodire la lingua nei suoi segreti e nel suo fuoco altrimenti fatuo come una vestale, ma renderla simile al presente – non uguale: portare sulla pagina lo scarto tra la trivialità e la fantasia, fare adesso poesia con la materia sporca e minuscola del mercato. 
Un frammento riassume tutto questo: E certo che in quegli anni di peste e smeraldo / se ne andavano davvero le generazioni / dai fonemi lucenti. Niente a lei si può aggiungere concettualmente, perché la sua poesia – pure continuamente esorbitante di immagini e associazioni libere di immagini – è chiarissima e lucidissima: non è uno stream, è una miniatura. Possiamo solo descrivere il sentimento di fondo di questo libro che spiana la parola sul catalogo terrestre mentre l’aria che sopra portava gli angeli è minata da buchi nell’ozono attraverso i quali pesa e traspare un cosmo quasi malato anch’esso di solitudine.
Trovo significativo e coerente, per un’autrice che si autodefinisce ammalata di fantastico, che nelle ultime pagine del libro il suo tono si faccia serissimo e secchissimo e lei stili per noi il catalogo (qui veramente noir!) dei principali eventi italiani dal 1980 al 1989. Un elenco di fatti sociali che ci fa vergognare anche perché in genere abbiamo in mente le stesse date collegate agli episodi minimi delle nostre minime vite. Se osserviamo il mondo così esposto senza commento alcuno dopo la lunga prefazione al mondo che è stata fatta dalla poesia, noi capiamo noi stessi, noi soggetti che abbiamo accettato di essere passivi, di essere “privati”, ovvero esposti a luce artificiale, ovvero segreti e mortissimi, ovvero derubati di quell’io al quale tanto sembravamo attaccati, perché l’io davvero si forma e si individua e arriva ad autodefinirsi solo per paragone. Anche per Lidia questo freddo e frantumato elencare – che finalmente riprende fiato dai punti messi ogni poche righe! – sembra una sorta di espiazione: poiché l’infanzia e l’adolescenza erano troppo infantili per parlare, la donna che è cresciuta dal corpo della ragazzina domanda scusa – adesso, che finalmentepuò! – per non avere partecipato, perché tutta questa catastrofe culturale e politica, riassunta nella manifestazioni contro il nucleare che lei ragazzina ha disertato, tutto questo è passato sopra la sua beatissima incoscienza. Lidia Riviello sembra provare un maledetto rimpianto per gli anni per tutti noi recentissimi nei quali il privato era una cosa pubblica e vivere (qui, così) equivaleva a fare politica. Lidia ci dice io dicendo quasi sempre solo noi, dice noi siamo un corpo che reclama la sua esistenza in uno stato, e questo elenco messo a integrazione del suo versificare sembra scandire con una malinconica ironia: ma che ci avete fatto? o meglio: cosa abbiamo permesso che ci faceste? e dove, in questo oltre, sta la differenza tra “voi” e “noi”?
Avevamo bisogno di Lidia, ovvero che un poeta si prendesse carico per noi di questa rapidissima trasfigurazione del mondo e appuntasse su carta la farfalla di quegli anni fatti di nulla con lo spillo della sua intelligenza, che facesse per noi da cronista trasversale di quello che tutti abbiamo vissuto ma che alcuni – quelli nati dopo – hanno trovato normale, e che altri – noi più anziani di lei – hanno maldestramente sorvolato come avvenimento transeunte, rimanendo legati a un linguaggio più etereo ed “eterno”, meno fatto di mondo – e dico fatto come si fa una statua con la creta, con il fango del mondo: Lidia da questo fango astrattissimo e televisivo ha “fatto” un libro, dimostrando che non c’è cosa che non possa essere detta perché è nata a cavallo tra il contesto sociale dei fiori nei cannoni e quello dei blog ed è nata con la camicia di una famiglia (mamma e papà poeti non son certo natali di tutti i giorni!) dove l’uso comune della parola permette alla parola di spiegare la terra che la forma, di qualunque terra si tratti: Neon è il suo mood for love per il mondo che noi colmiamo e colma il nostro corpo di malintesi – Lidia si è fatta per noi sentinella e inviata speciale nella infinitesima zolla di un’epoca e ci tramanda che alla fine il neon si sia spento e allora al controllo sociale anteponemmo / questa strana forma di iniziale, questo ricominciare.

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