Hafez (in “La vita chiara”, transeuropa, 2011)
frammento di lettura per il Festival “Tradurre (in) Europa” a cura di Domenico Ingenito (Napoli, Teatro Nuovo, 24.11.10) con Antonella Anedda, Omari Ghiani, Domenico Ingenito, Rosaria Lo Russo, Edoardo Zuccato. Musica dei Bonamanera. Riprese video di Arturo Casu Calandrone
http://www.youtube.com/watch?v=fTTe8sv8HN0&list=UULPaesr3l2GlAVLeKMsSXoA&index=17
DIALOGHI CON HAFEZ
I
Ghazal della donna di Shiraz
1.
Per il suo sì – se lei
si degnasse di accogliere
nella cavità fresca dei suoi palmi la perla
nera di combustione del mio cuore
per il nero nonnulla
sulla sua guancia io
cederei le tombe
dei padri a Samarcanda e le moschee di Bukhara.
2.
Svuota i lombi di creta delle anfore
nelle coppe affiancate, amico
caro, siedimi accanto
per guardare l’oasi
e il cadere
dei pampini di vigna nella sparatoria
del vento e per vedere poi come dal bianco delle
acque verso la sera si levino le upupe dalle corte
ali
e sapere così
irreversibilmente che per una cosa
che cade un’altra cosa
si solleva ma niente
di questa bellezza
ci seguirà
più nessuna giustizia
ci coprirà le spalle
nella incomprensibile enormità dei cieli.
3.
Ahi, quanti!
dolci e giocosi e vagabondi ragazzi
fanno tempesta nelle acque vive
del mio cuore e mietono da barbari
re della luce la messe delle tavole imbandite
della capitale
che protende il suo oro medioevale tra cedri e ulivi.
4.
Mi metto – metto me – come un mosaico superfluo
sotto i suoi piedi: sono una piccola catasta di membra
che la sua nudità dovrà pur
calpestare, così bella da non aver bisogno
di abbassare il suo cuore sul mio cuore
manchevole. Io sono sottomesso come una mandria
sono disperso
in lei talmente
sufficiente a se stessa
che nella solitudine della sera
non si chiama nemmeno la luce
sulle guance, per rapirmi non usa nessuno
degli inganni che affaticano la bellezza
di tutte le belle, non adopera niente
per tentarmi.
5.
La mia Signora è diventata alta e trasparente come un’immagine sacra ora che è vinta
dalla grazia
di un ragazzo che cresce nel sole
come una bella pianta di limone: questa
che è la mia infinitamente
amata, è tornata bambina, lei è
l’immacolata
che si lascia cadere
insieme al suo pudore come un velo
sotto la pianta: lui le ha spalancato duramente
senza volere e senza
resa l’ala bianca del cuore, l’ultimo
sempreverde del suo petto dorato dal crepuscolo.
6.
Mi disprezzi, tu
mi comandi e maledici
la mia stirpe, ma il mio cuore è astratto come una pietra
e ha linfa per vedere
solo il rubino acceso delle tue labbra, più dolce
nel contrasto con l’amarezza e la stortura
dei ragionamenti.
7.
Stammi vicina adesso, anima mia, fatti imparare
adesso, ché domani
rinnegherai il tuo nome: importa più dell’anima e più
della vita al mio ragazzo il miele
dei comandamenti che cola dal labbro in silenzio.
8.
Parla, sorella, della verde distesa che sostiene
il passo ai camminanti
del mattino, parlami della gioia che questa notte ancora
hai meritato con il tuo sorriso – non spalancarmi
lo strapiombo del mare
l’anima secca chiusa
come una lucertola sotto i sassi, non sondare i puntelli e le trafitture
del mondo, perché nessuna scienza
e nessuno strumento
di indagine spiana la strada al silenzio sotto i sassi del mondo.
9.
La curva bianca della gola schiera
le nere uova delle tue parole in una sola
linea. Allora, canta!
fin che le sette sorelle
del cielo dalle catenelle
d’argento delle caviglie metteranno nel cielo grida di donna (e dietro: bianca polvere e trambusto
di tori) sul motivo supremo della tua gola.
II
Ghazal delle domande
1.
Perché scopri il tuo volto Signora, d’improvviso perché
sollevi il velo, perché esci correndo di casa
come preda di un vino
randagio che ti piaga la gola, come morsa dai cani del tuo cuore affamato, perché?
2.
I tuoi riccioli in balìa del vento
e le orecchie acutissime al servizio
del più ingeneroso
armento della terra: l’amata, lei
prediletta fra tutte
perché a tutti concede
la sua confidenza?
3.
Come il castigo ci colpisce a caso in questo profondissimo
mezzogiorno. Dall’umido nord
che fa toppe di muschio sui mattoni dei vicoli alla deserta
stele innalzata
sul quadrilatero delle fortificazioni si è confusa la fama
della tua bellezza
alla fama del sole – ma nel tuo cuore è nulla
la gloria del corpo: perché
non dai peso allo slancio della terra
così viva coperta di fiori e stormi?
4.
Perché all’alba mi hai dato da baciare
la punta del tuo ricciolo e alla sera
con un gesto del capo lo hai sottratto
e con la vuota polvere hai commisurato
il mio cuore paziente, perché?
5.
La tua lingua rivela il segreto
chiuso nella tua bocca, la tua cintura
pesa e descrive
la mollezza dei fianchi: perché
minacci la mia vita con la spada
solo perché io vedo, solo perché io sento
il tuo mistero, perché?
6.
Perché sorridi come per amore mentre inganni
quelli che come me hanno gettato
la loro intera sorte
sul tuo bianco tappeto di carne
e sorriso e capelli, perché?
7.
La mia casa è affollata di estranei
che non scaccio nemmeno
quando il volto gentile dell’amico
si affaccia dalla calce
dei corridoi e chiama
amica l’amica
e aggiunge quel nomignolo lucente
di lucertole e biglie. Perché
– cara – non rispondi al mio vero
silenzio, perché
lasci esposto il dolore dietro il sottile
velo
di chi non ti minaccia
intimamente? Perché nascondi il corpo, perché
rinunci, perché
confondi
il mio strazio nel sangue della vostra ferita?
III
Ghazal dell’Amore
1.
L’arco scoccante delle tue sopracciglia
versa sangue e lamento
fuori da me curvato
da una nera impotenza.
2.
Il lago splendido della tua fronte ha appiccato le fiamme a ogni fiore dell’albero
Arghavàn quando sei arrivata così
ebbra e sudata
come dopo l’amore – nel giardino.
3.
Ogni tuo sguardo rivolta la terra: a ogni rivolta
compiuta dal narciso dei tuoi occhi altèra
ruota la madre terra. Sposa, cerva.
4.
Con il favore della brezza il gelsomino
colma di fango tenebroso
le corolle e ammutolisce
per la vergogna
del paragone al chiaro delle tue guance.
5.
Ah, gli annodati riccioli delle viole e belli
intorno alle capriate sono un nonnulla
per lo zefiro dolce, che porta
in giro per il mondo solo la descrizione dei tuoi riccioli viola.
6.
Io me ne stavo come un santo ed ero
cieco. Stavo
fermo nel luogo.
Ora eccomi ovunque
divaricato
dalla passione per questi due veggenti: vino
indovino e musica divinatoria.
7.
Sciacquo la tunica nell’acqua rossa – io mescolo
la saggezza e l’ebbrezza
nel catino del mondo: non si può
persuadere l’eterno
timoniere a mutare le rotte
con queste persuasioni sottomesse al tempo.
8.
Ah, indiviso colore degli indivisi
universi, quando l’amore ovunque
spingeva il suo sguardo: ah, come l’azzurro!
dei cieli allacciava al mio corpo altre figure. Alte. Bianche.
9.
Forse il vino ci mette come l’amore
nella incondizionata dimenticanza
di noi: allora
il peccato e la grazia
la volontà e il destino
si guardano negli occhi da fratelli di sangue, allora internamente
si appiattisce la nera
catena delle conseguenze
e nel buio occipitale
ruota la luminosa
scalea della durata.
10.
Schiava è adesso la terra ai miei
desideri, perché il disco del tempo mi ha gettato ai piedi del Signore:
alle scalze, marmoree
caviglie del Signore.
Roma, luglio 2007
link alle riscritture su “Il porto di Toledo”:
http://www.lerotte.net/index.php?id_article=53&PHPSESSID=967ded179804dd18860fe7e2d3610812
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