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Niero Alessandro (10.12)

ALESSANDRO NIERO, Brade
a cura di Maria Grazia Calandrone
su Poesia n. 275 – ottobre 2012

La scrittura di Niero è avvertita e – lo confessa egli stesso – stracovata: si avvertono infatti chiari la vigilanza esigente dell’autore e il suo impegno di tenere a freno un sonoro endecasillabo spontaneo con improvvise deviazioni e spezzature che facciano deragliare il trenino costante del ritmo dal suo facile binario. Anche questa è senz’altro espressione della ricerca del verde che lampeggia per tutta la silloge come l’ala di uno scarabeo sacro (sebbene quasi subito l’autore dichiari ben più ironicamente che trattasi dell’ala di una mosca!) e pare salvarci dalle bassezze della mortalità. Nonostante un disincanto esibito anche con il linguaggio – spesso povero, brusco e tagliente – qui sta scritto che il perno sul quale ruotano le occasioni migliori della nostra salvezza sia la capacità di scovare oro nel bagliore crepuscolare della plastica e cielo nelle pozze. Pensiamo immediatamente al contemporaneo Filippo Strumia e al suo Pozzanghere, specie di elegia laica dei frantumi celesti da marciapiede, dove le conche d’acqua abbandonate al suolo dalle nuvole, riflettono quanto di altitudine è possibile ai mortali. Come Strumia, anche Niero si china rasoterra per raccogliere e offrirci memorie, panorami e preziosi oggetti interni, le passeggiate e i dialoghi con altri amici e autori: quella di Niero è infatti scrittura piena di eserghi, dediche, addirittura descrizioni di incontri e intrecci e abbeveraggio e affluenza dei propri versi alla catena e foce di versi altrui.

Non a caso ci profondiamo qui in metafore equoree: l’ambientazione di quasi tutta la silloge è una turbata acqua veneziana. Acqua che lambisce la terra e la mette in pericolo con la sua lingua altra, luciferina, ma davvero la salva perché, come vedremo, viene assunta a emblema della trasformazione, ovvero del benevolo cambiare forma di tutto l’esistente. Già nella nebbia – acqua aerea che si leva dall’acqua liquida – Niero conosce un’aria di cose prenatali e postmortali. Così, in una simile atmosfera lattiginosa e onirica, si svolgeva l’intervista ai morti della splendida Elegia orientale di Sokurov, mediometraggio nel quale, dalla quasi totale indeterminatezza della visione di fondo, salgono alla luce – come si manifestano venendo a galla dall’acqua – i volti dei morti, epurati da tutta la violenza dei vivi, cadono le parole esattissime e dolci di quelli che, non visti, ci vivono accanto ma fanno finta di non esserci, come sostiene Raffaello Baldini: non ci spaventano, non ci disturbano, sono semplicemente insieme a noi, mutissimi, sapienti e protettivi (ora che siamo a nostra volta imprudenti vittime dell’incantesimo della cortesia e della bellezza del popolo nipponico, comprendiamo perché Sokurov abbia scelto che i “suoi” morti fossero tutti non-attori giapponesi).

Sulle acque del Lido di Venezia si mosse anche la scrittura di Iosif Brodskij, un autore che Niero ben conosce e ama tanto da citarne due versi dalle Strofe veneziane. La similitudine che intendiamo sviluppare proviene però da un’espressione di Brodskij contenuta in Fondamenta degli incurabili, dove il poeta afferma che Venezia è per lui una forma personale del paradiso. Ebbene, se poco avanti Niero ci lascia intendere che l’intelligenza della vita è nascosta nei suoi intervalli, nelle pause, nei macrocosmi segretamente infissi in brevi lame di luce e che per (vivere?) Non c’è che farsi attraversare, forse la massa uniforme di nebbia che si solleva dalle acque del Lido, forse la bianca gloria momentanea delle onde non sono che mezzi di trasporto per la pace. La quale appunto consta nel mutamento. E l’acqua – anche ove sia acqua apparentemente ferma di laguna – è solamente la visione esterna, lo specchio doppio della trasformazione del nostro essere: doppio in quanto specchio di un Narciso ormai libero dalla pericolosa contemplazione della bellezza di Narciso e in quanto ente esistente di per sé come riflessione intorno all’involucro occasionale del mondo.

Ma, immerso anch’egli nella compatta nebbia veneziana, Brodskij scrive che in essa l’alto e il basso si scambiano posto – e così l’equazione con Niero è quasi perfetta. Diciamo “quasi” perché manca un ultimo elemento, che scopriremo solo un passo più avanti, in Lido, via Perasto. Non pare ininfluente fornire qui un brevissimo cenno, insieme storico e caratteriale: nel 1797, durante la dolorosissima riconsegna dell’ultimo gonfalone della Repubblica di Venezia, ceduta agli austriaci da Napoleone, il perastino capitano Viscovich chiudeva la propria orazione con queste parole: el nostro cor sia l’onoratissima To tomba e el più puro e el più grande elogio, Tò elogio, le nostre lagreme. Dunque finora a Niero mancava la storia, lo stare nel solco di una storia / con tanto di preistoria e di poststoria, offrire il proprio cuore come tomba ed elogio di un sogno collettivo. Da via Perasto sale infatti l’inno, l’esortazione a non dimenticare, che Alessandro Niero rivolge all’amico fotografo Alessandro Bettio,  si alza un suo più caldo, radicale e diretto invito alla memoria e alla chiarezza dell’aperto. Adesso siamo dunque in possesso di tutti gli elementi per essere felici, ovvero superflui. Ecco infatti l’ingresso quasi integrale di due versi di Brodskij, tanto condivisi che Niero li riutilizza come chiosa della propria stessa poesia: un paesaggio / a cui non siamo necessari.

Limarci fuori dal paesaggio, dunque, fare spazio alla storia sottraendo, sviluppando la lectio dell’amato De Angelis: all’inizio c’è il fuoco, il roveto ardente della consegna delle tavole della legge mosaica prima della grande diaspora – che, attraverso la nebbia, diventa una scomparsa e una dispersione che paiono qui significare circostanze di vastità e apertura e occasione per scrutare nel bianco del cielo con una intensa interrogazione dai giocofocosi toni raboniani: noi si passa. Chissà / se mai davvero di lassù, dietro la massa / di nuvole, uno sguardo si tradisce. Niero mica si chiede se ci sia: si chiede se ogni tanto questa dispettosa entità celeste la smetta di giocare a nascondino!

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