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MASTERS, Edgar Lee (Poesia n. 278, 1.13)

EDGAR LEE MASTERS

Beh, le cose si sono messe in modo tale che tutti pensano che nella mia vita io abbia scritto un solo libro. Non è così!, ma questa antipatica evidenza mi costringe ad ammettere che tutti i libri precedenti siano stati esercizi per arrivare a quel perfetto incrocio di narrazione e lirica che furono i ritratti dello Spoon River Anthology. E dopo, non so, forse impiegai gli anni che mi rimasero a far defluire l’ispirazione dalla mia congestionata figura umana, sparsi qui e là frammenti di poesia come in una dispersa emorragia. Ma il quieto, ironico, incessante rogo dello Spoon River rimase unico nella mia vita. E così, andò che nacqui in un relativo agio nell’anno 1868 e me ne andai in miseria nel ‘50, perché piantai la professione forense e mi dedicai tutto alla scrittura. Io sono stato molto americano. Tra l’altro l’Opera, oltre a scavalcarmi, mi procurò l’inimicizia di alcuni vivi, che videro svelati certi loro segretucci nei ritrattini caustici di alcuni morti. L’idea-guida mi venne quando ero a Chicago e me ne stavo tranquillo a fare l’avvocato, ero sposato e padre e scrivevo quando avevo tempo, il sabato pomeriggio e la domenica. Bene, un giorno di maggio viene a trovarmi mia madre e facciamo una bella chiacchierata rievocando persone e personaggi dei due piccoli villaggi dell’Illinois dove vivemmo quando ero piccolo: Petersburg sul fiume Sangamon e Lewistown, tutto sdraiato vicino allo Spoon. I ricordi erano fertili e contagiosi, finito l’uno snocciolavo l’altro, e sgusciavano fuori così bene e parevano tutti così tipici, che presi a emblema del mondo una mescolanza fantastica dei due paeselli e cominciai a pubblicare questi blasoni sotto pseudonimo, sul “Mirror” di St. Louis. Le storielle ebbero un grande successo e per due anni non smisi di lavorarci. Mentre scrivevo l’antologia ero ossesso dai nomi, dalle storie, avevo sturato una bottiglia piena di anime, pietà, sarcasmi e ricordi. Da voi italiani l’opera uscì nel ’41 e siccome il fascismo osteggiava le idee libertarie della nostra America, la S del titolo venne puntata, così pareva che il volume fosse una raccolta delle massime del pur ignoto San River. La Pivano, che conobbe da adolescente il mio libro grazie a Pavese e se ne innamorò tanto da tradurlo, arrivò a dire che le mie poesie, riscritte e musicate da De André con Bentivoglio e Piovani nel ‘71, fossero più belle dei miei originali. Ecco l’amara infedeltà delle donne! Del resto, l’avevo ben detto che dietro a ciascun soldato c’è una donna. Però fu lei a comprendere per prima come il fatto che io scrivessi di morti fosse un fenomeno di storia della letteratura, perché in quegli anni il fattivo realismo americano si andava sgretolando sotto l’urto delle idee che filtravano dall’Europa. In ogni caso, il mio Spoon rimane tutta un’altra cosa rispetto all’esordio di Benn (n.d.r: Morgue, 1912) con quella pietosissima chirurgia, quella nidificazione di dolore. La mia penna fu più lieve, meno cruda scienziata, il bisturi del mio sguardo non affondava in carni abbandonate ma nella ruminazione sgangherata della vita, nelle sue scempie e uguali elevazioni e sempre uguali miserie, seduzioni, rivalità, risate e redenzioni. Eppure, quando i poeti scrivono dei morti, diventano mimetici, fanno “quel” suono, mettono anch’essi un suono circolare, stanno come una torcia di compassione onnipotente davanti ai blasoni di quelle tombe, sono nel loro stile naturale: dalla parte del bianco, del finito; nel cerchio privo di decorazione.

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