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Iannone Francesco (4.13)

 FRANCESCO IANNONE, Pietra lavica
a cura di Maria Grazia Calandrone
Poesia n. 281, aprile 2013

ora vedo me attraverso le cose, scrive Francesco Iannone, suscitando in noi una feroce (infantile) gratitudine. I suoi testi sono i residuati della luce che irradia dalla struttura molecolare della materia, la quale si gonfia di chiarore e trascende se stessa continuamente. Ai poeti accadono, talvolta, queste manifestazioni di sovra-realtà e, quando esse accadono, i poeti poetano. Le poesie di Iannone sono quello che resta dopo la visione, il risultato della sottrazione della realtà dall’eccedenza della realtà, che si solleva per guardare negli occhi un autore. Perché la realtà stessa si tiri su da terra con quello sfarzo d’ori e di luce, essa dev’essersi ammalata di rivelazione e sovrabbondanza. Pietra lavica porta dunque le tracce di quella comunque inesprimibile (lo sapeva bene Tolstoj!)  sovrabbondanza, di quella radiazione che talvolta promana dalle cose del mondo e dai corpi bellissimi che lo abitano, dalla creatura scelta fra tutte le creature della specie e alla quale portiamo un salvifico e disumano dono di fedeltà. Infastidito dalla finitudine, Iannone non sente ragioni, non adopera la strategia della commozione né consola se stesso sostenendo che il bello della bellezza sia nel suo interrompersi, nel fatto che il suo sfarzo sia momentaneo: egli è giovane (non un “giovane poeta”, è veramente giovane) e tifa per l’eterno, non si rassegna al limite del corpo. In questo senso l’infanzia, che è premessa di tutte le cose, appare anche promessa di tutte le cose: i bambini sono incompatibili con il pensiero della morte, perché essi non sanno della morte. E perché il loro sguardo, che si affaccia al balcone del mondo, è uno sgocciolio di meraviglia e di oro zecchino. Nei bambini non è necessario alcun esercizio di fede, perché essi non sanno di dover morire. I bambini amano il mondo come se fossero eterni. Con la gioia e la generosità irruente degli dei pagani. Quando il mondo appare ai poeti nella sua sfolgorante evidenza è perché essi hanno dimenticato la propria morte. O ne hanno definitivamente elaborato l’informazione. Comunque, in quel momento, sono bambini.

I testi di Iannone, che appaiono quindi fiduciosi e iniziali, entrano in una sorta di aria mitica, nel discrimine nitido delle cose, in un corpus umano diviso esattamente tra coloro che amano e le vittime del mostro-disamore.

Ted Hughes ci ha lasciato un’intelligente disamina dell’utilità del mito, prezioso per dipanare tutti i gomitoli di senso di molte parole. Iannone sembra continuamente bersagliato da echi che provengono dalle grotte alchemiche dei Cave birds (di Ted Hughes, appunto). L’amore, in Pietra lavica come in Cave birds, vuole che l’amante plasmi con le sue mani il corpo dell’amato e che la ferocia dello sbranamento sfili al corpo la luce più segreta, nel rito primordiale di divorare insieme un terzo corpo animale, di nutrirsi del corpo e del sangue dell’animale. Il padre cristiano – evocato al principio e già al principio riconosciuto in ognuna delle cose del mondo, il mite padre che coincide con la struttura ossea del mondo e col suo nulla che si muta da solo in eccesso d’amore – ora rovescia gli occhi in un balzo pagano, dionisiaco e selvaggio, infila i suoi apparati, i protocolli aerei, nella liberatoria capriola terrestre. A questo punto Dio è l’animale rovesciato, la carcassa del bue che, gambe all’aria, nutre i corpi dei topi, di Eva e di Adamo – fino a che essi, sazi, benedicono il creato, mentre l’amore dell’altro li persuade di sé, spiega ad Adamo il senso di Adamo e a Eva il senso di Eva. Questa è la prospettiva di una religione infaticabile, perché calata nelle fibre del corpo come una illuminazione interiore delle fibre del corpo: essa consiste nella facoltà di negare la morte fin dentro l’odore della morte.

Quella di Iannone è dunque parola che macina corpo e si materializza: corpo a sua volta, si solleva dalla pagina e asciuga la lacrima muta di chi decifra l’impronta genealogica di questo ragazzo che prova il terrore di non essere destinato alla bellezza proprio mentre ne ri-produce tanta, sapendola vedere anche per noi, cogliendola a mazzi dall’aperto spettacolo del mondo.

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