requiem per L (25.9.13)
“io mi sento inadatta alla vita perché è troppo limitata” (la Repubblica, 23.9.13)
requiem per L.S.
che, nel pieno del proprio diritto alla gioia, nella notte tra il 22 e il 23 settembre 2013, si è data morte pubblica per impiccagione
io sono stata te tutta la notte, Leila. ora parlo per altri che sono vivi. ancora vivi, in tempo per parlare.
il tuo silenzio ha echeggiato in me tutta la notte. dico meglio. la tua disperazione. tu sei stata il risveglio rotto dal pianto degli abbandonati. ma questo no, non era il tuo dolore: era il mio per te.
il tuo dolore si era raffreddato ed era muto. era la parte muta di te. muta e cieca. cieca e sorda. aveva perso la temperatura efficiente di quella piccola tempesta umana che chiamiamo pianto.
l’avremmo visto. ma tu sorridevi.
avevi perso il gesto di rivolta per l’umana porzione di solitudine, quella lieve sporgenza di gioia che ognuno protende, verso un mondo dove altri sono protesi.
il tuo gesto era caduto dentro. con il tempo era diventato fossile.
immagino la forma: la bocca, non del tutto richiusa. la mano, non completamente ritirata. su una roccia calcarea. nell’umido di un luogo inaccessibile in te.
l’avrai pur detto, una volta: guardami!, avrai pur detto: amami. ho bisogno di te.
l’avrai detto col corpo, se accadeva in epoche senza parola.
quel gesto fermo, quella bocca muta, sono mine preistoriche inaudite.
rimane la forma, l’impronta dello slancio. il calco vuoto del tuo richiamo, Leila.
non a noi. noi non siamo arrivati in tempo, per ricevere questo dono da te. solo il sorriso.
avevi già ingoiato la preghiera, prima che si facesse voce. si capisce bene. si capisce dal fatto che eri gentile.
quella supplica ferma nel tuo corpo si era fatta specchio e spina dorsale. così, potevi riconoscere il simile, la preghiera emanata dal corpo di un altro. e averne cura. infatti, la tua voce diceva: avrò cura.
ma tu, Leila, eri piccola per questo. per questa eccessiva competenza. il tuo cuore non poteva sopportare tanta rettitudine. e alla tua età tutto appare immutabile. non ti sei data il tempo di imparare a sperare che anche i fossili un giorno leveranno lo sguardo dalla pietra, leveranno dal bianco dei calcari il caldo di una voce che dirà io ti amo.
non ti sei data il tempo di imparare la pazienza dei grandi, il nostro avere ruminato notti a concatenare brandelli di felicità, per formulare una inesistente biografia privata, la nostra sintesi di noi stessi in luce. istruendoci a dimenticare il male: è così che lo stupore del nostro inizio regge all’evidenza del mondo. magnetizzando i frammenti di grazia. perché magari il tuo fosse stato dolore. la tua è stata rettitudine. nella certezza dell’imperfezione. delusione primaria. prima di avere imparato che ogni limite è una convenzione. prima di avere imparato a portare nel corpo un’idea che non piega le ginocchia davanti alla materia, nemmeno a quella di corpi che si ritirano e ci lasciano nella solitudine fossile che a diciannove anni pare definitiva.
l’eccedenza infantile del dolore. perché manca l’esperienza di avere già oltrepassato l’invalicabile.
e così: impiccarsi.
si dice che un suicidio per impiccagione sia un atto di accusa. sembra che il corpo dica con furore, finalmente con furore: siete tutti colpevoli.
e allora tu vorresti dirci per sempre: ecco, vi mostro che mi avete fatto. ostento la mia spoglia irresponsabile e oscena, finalmente libera, non più graziosa, lascio una cosa muta che si corrompe, vi lascio immaginare la fatica che ho fatto per finire, la protervia che mi ci è voluta. qui, all’ingresso del parco. io da voi condannata a pena capitale.
ma questa è superficie, Leila. a ben guardare: un corpo appeso a un albero è il corpo biblico di chi ha tradito e con tutto il suo corpo dice: perdonami. dice: io espio la mia colpa. io confesso. io metto in scena il mio soffocamento, l’aver smesso di chiedere. soffocato il bisogno, la paura. soffocata la mia parte di pianto nella solitudine umana – come la mia, lo vedi, ti riconosco – fino a che l’urlo mi ha soffocata.
ma non è ancora tutto. perché da viva tu ci esponevi una meccanica generosa, vitale e funzionante. ed eri sincera con noi.
è che a un tratto si rompe l’astuccio del male, come la capsula di un dente, per motivi da nulla. esseri vivi discendenti / un fiume di impercepiti nonnulla recanti in sé la catastrofe, scrive il poeta Vittorio Sereni. sì, la catastrofe. quella carica esplosiva di dolore, che porta il nostro nome più remoto, deflagra. non siamo preparati, non ne sappiamo nulla. è un momento. se ci fosse qualcuno vicino, il buio dileguerebbe. non lasciarla mai sola, dicono i sogni. è un momento.
io ti saluto, Leila. senza colpa, né tua né nostra.
e ti ringrazio. perché il tuo corpo non rimane muto ad affrontarci. dice a noi che restiamo: tendi l’orecchio all’inaudito. impara a dire: amami, prima di non riuscire a dirlo più. prima che la parola si fossilizzi e non possa più essere tirata all’asciutto, dalla voce che pesca nel gran mare di dentro. prima che questo corpo così breve, che è la nostra anima su questa terra, ti faccia tanto male che non possiamo consolarlo più. prima di rinunciare.
25.9.13
in Il bene morale (Crocetti, 2017)
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