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D’Errigo Alessia (12.13)

 ALESSIA D’ERRIGO, Impetramenti
Poesia n. 288, dicembre 2013

In D’Errigo è immediatamente riconoscibile l’imprinting rosselliano. Ma il calco naturale non è perfetto, perché la poesia di D’Errigo è contaminata da una panteistica, strana e ardente veterocontemporaneità. I punti di contatto sono evidenti: l’incandescenza della parola, l’ardita mischia di linguaggi e oggetti, l’invenzione di un universo verbale attraversato da suggestioni misticolaiche, poiché, qui come in Rosselli, si tratta di devozione carnale, panica, liquida e rosso fuoco. E quegli angeli-angioli sullo sfondo, pronti – da subito – a raccoglierci tra le loro braccia: la silloge si apre infatti con l’immagine di un parto gigantesco, di un parto totale di creature che cadono, nascendo, tra le braccia degli angeli.

L’amore è la sola forma di Dio riconoscibile in terra, dunque questo d’amore è un dialogo sacro: tra madre e figlio, tra amanti: una resa totale che non si arrende, poiché non ha alcun punto di cedimento, è tutta cedimento, ha già ceduto tutto, in un inginocchiarsi tale da rimanere in piedi, poi che alto e basso sono confusi e tutto il cielo è il corpo di una donna che l’ha accolto sotto forma di figlio. Ma i punti cardinali (altrimenti detti dogmi), la costellazione intera del cristianesimo, vengono qui immersi in un bagno panico e reattivo (quasi una vera e propria legislazione chimica) fatto di vera e sazia natura, non di simboli, né di oggetti e creature simboliche: si ha l’impressione di sentire il fruscio delle ali degli angeli, smisurati volatili che attraversano le pagine e le parole al solo fine proprio di non farci cadere.

L’innominata Maria di D’Errigo è la creatura che per eccellenza dice sì. 

D’Errigo scrive continuamente su un corpo esposto, su una nudità coraggiosa e fittamente umana, che ha il coraggio di superare paura e vergogna del proprio bisogno e del proprio desiderio – è una invocazione all’antisolitudine, alla fusione in una sola circolazione viva di corpi e terra, in un’ascesi fortemente erotizzata dall’ingombrante massa d’amore del quale sono capaci le creature. La scrittura di Alessia D’Errigo è, inoltre, femminile allo stremo, inconfondibilmente connotata come voce di donna, se prega e infuria ed esprime l’inclinazione a essere terra ed erba della terra. Ma, in primo luogo: corpo, primo luogo dell’io che si dissolve, perché D’Errigo è attrice e la dizione e il corpo che esporranno la sua poesia sono emersioni fisiche chiarissime nel bianco, tra le parole dei testi. Si tratta infatti certamente di parole scritte presentendo la voce che le dirà – e questo spiega le ripetizioni, le invocative.

L’invocazione non è dunque perfetto slancio verticale, bensì disordinata discesa (Rilke: “di quando cosa ch’è felice, cade.”): non preghiera alla carne, affinché essa salga fino al cielo, ma al cielo, affinché scenda a toccarci la carne difforme, affinché tutti i muscoli del corpo scendano a mescolarsi con la terra: il desiderio è spalancarsi al punto da contenere tutti gli elementi naturali nell’ampiezza della sagoma umana rinnovata da Amore. Come D’Errigo, io pure mi autorizzo una maiuscola enfatica, perché nei testi e nei relativi con-testi (quali queste parole), ogni enfasi è per l’appunto smorzata dal fango, dalla cognizione della finitudine, che rende tanto più vera e straziante la supplica, ancora rilkiana, allo spalancamento della materia umana fino alla sua propria, impossibile e tanto desiderata infinitudine.

La creatura chiede alla creatura di essere cielo dentro e sotto la terra. Ma (lo abbiamo scritto altrove) solo la fine è infinita, solo la finitudine di questo corpo-materia ci tiene a contatto con l’enormità del finire – e questo concreto finire, non l’astrazione dell’infinito: è il tempio.

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