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Visigalli Stefano (3.14)

 STEFANO VISIGALLI, Interni
Poesia n. 291, marzo 2014

Il giovanissimo Stefano Visigalli mi è stato segnalato da Milo De Angelis. Mi permetto una simile premessa poiché la ritengo necessaria a comprendere la poetica dell’esordiente, il quale si presenta, da subito, come un talentuoso allievo del nostro grande poeta. Nella silloge che qui presentiamo, Visigalli sintetizza infatti l’intero arco poetico deangelisiano: dalla visionarietà icastica di Millimetri alla calma più narrativa e urbana, per esempio, di Biografia sommaria, del quale assimila la tecnica dell’accumulazione fin nella minuzia di ripetizioni quali “ora / ora che”, a sua volta variazione da Fortini.

Visigalli apre interni d’ospedale, abitati da iconiche figure umane e da componimenti intitolati come ansiolitici (Lorazepam), ma anche da ipotetici accadimenti erotici che non prendono nuovamente posto nella carne, perché gli interni sono, naturalmente e soprattutto, interni d’anima e d’amore, sguardo che posa, a interpretare il mondo, emergendo da un’anima assetata di dolcezza, che coltiva la parola come sponda al “niente”. “Sfioro la tua tragedia / l’accarezzo / sento che si disfa / fibra dopo fibra / nella dolcezza”. Questo il miracolo della trasfigurazione che la vicinanza umana ottiene: la compassione lentamente ci innalza sopra la catastrofe, muove la fissità delle nostre immagini, riporta movimento nella stasi, come in Impressioni su di una fotografia, dove l’affetto di chi guarda movimenta l’icona che ha per sfondo il mare e la trasloca, intera, nella luminosa pace del mito.

La chiave della poetica di Visigalli sembra dunque essere una ricerca di familiarità umana, lo sporgersi di un gesto, di una parola, verso l’altro, la comprensione della consolazione reciproca che è necessario darsi, per alleviare il comune destino di martiri che ci è toccato. Tutta la sua sequenza di parole appare una richiesta di contatto: ecco un’animacorpo che si espone, che espone il proprio organismo anche “gonfio e stanco” e dice: eccomi, riesci ad amarmi? e io, riesco ad amarti? – e chiude la sua silloge di esordio con un bacio, pronunciato come l’unica e l’ultima delle cose attendibili. Viene alla mente la scena più toccante e vera di Orchidee, il più recente spettacolo di Pippo Delbono: due uomini si spogliano in scena, si abbracciano e rimangono così, nudi e abbracciati, a lungo, accompagnati da una ninnananna. La poesia di Visigalli sembra tendere a un gesto simile, sembra addirittura essere un gesto simile, originato in una solitudine patita e vinta grazie, prima di tutto, alla testimonianza di sé. Esponendosi si tocca l’altrui somiglianza. I testi di Interni effondono quasi tutti, infatti, una visionaria affettuosità creaturale, la salute dapprima originaria, poi chimica e infine riottenuta, con una mescolanza di slancio e cura, di vita e attitudine alla vita: sono frammenti pieni di oggetti, mossi in un mondo quasi fluido, nel tendone da circo della realtà, puntellato da volumi naturali come limoni. Accogliamo dunque il lavoro di Visigalli anche come esemplare terapia della parola non organizzata, un pezzetto di vita che s’incunea come una scheggia nella vita più grande, si rapprende e riapprende la sua postura umana, il gesto vivo prima del fallimento, che assume e cura il fallimento di tutti, dei caduti nella solitudine, attraverso la forza della descrizione di un gesto. Qui si copre il corpo di un altro, come in Anedda una mano maschile avvolge i seni di lei nel lenzuolo, in una stanza d’albergo, dentro la quale quel gesto minimo di compassione raccoglie il senso del mondo: anche in Visigalli appare una camera d’albergo, numerata (233), come nel Kar-Wai di 2046: un’altra solitudine, un’altra perdita, sempre la stessa, la nostra, eppure: ecco quello che dell’amore resta, la scena che non si perde, la dolce e disperata riconferma, nella nostra memoria, che l’amore, una volta, è stato.

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