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Federico Pietro (7/8.14)

Pietro Federico, Mare aperto
Poesia n. 295, luglio/agosto 2014

Pietro Federico attacca con una piccola danza scura dai toni lievi della filastrocca: lo scenario animale di un mare notturno, dal quale vorrebbe tornare, sotto forma di angelo o postino. Messaggero, comunque, come qualcuno che abbia qualcosa da consegnare a riva. In questo caso: una scrittura chiara, la propria provvisoria verità sul mondo, liquido e terrestre. Non un vulcano d’acqua trasparente, come ci si aspetterebbe dato l’abbrivio di tanta energia, dato l’attacco plumbeo di quella bestia nerazzurra e inquieta fatta di sale, ma un movimento ripetuto e lento, come quello del mare senza metafora, che, verso dopo verso: leviga, chiarifica, pulisce il pensiero, non dice infine che d’amore. C’è un rimpianto che brucia nel sale delle lacrime, che risbocciano, ancora e ancora. Qualcosa di fragile è stato rotto ed è andato perduto. Poi, la nuova salute di un amore che vive nelle cose, paesaggio dopo paesaggio. Federico chiede al presente di raggiungerlo, di arrivare a lui con le sue mani vere. Un uomo è pronto a lasciarsi accarezzare. Perché amare è sapere di un altro, per intuizione. E ne abbiamo bisogno. Perché il legame fra gli esseri umani diventa una porta per sapere il mondo. Chiunque ami può dire: più ignoro il mistero della vita, più amo chi amo, perché chi amo è la sola cosa che comprendo anche senza capirla. Amare è abbandonarsi, abbandonare la propria lettera, la stolta maschera dell’identità. Questo apre la soglia per uscire da sé. Fuori: ecco il mondo, splendido nella sua ferocia, comprensibile e vivo, il mondo privo di ogni disincanto, accessibile e acceso. Il mondo carico di spazio e di rovine, di foglie e di animali che guizzano e mordono e dormono, possono avvicinarsi e andare via senza che li perdiamo, poiché siamo ciascuno degli animali liberi che si sono avvicinati e sono andati via.

“Guarda cosa mi fai e cosa ti lascio vedere” scrive Sélim Nassib, simulando di parlare con la voce del poeta Ahmad Rami alla per sempre amata Fatmah, stella d’oriente e voce di ciascun individuo del mondo arabo. Questa è la carica di libertà pericolosa che fa di noi l’amore: diventare, sapere, vedere chiaro, vedere dentro – proprio mentre, nell’identico tempo, permettiamo a un altro di vederci nel nostro più intimo segreto. Fino al silenzio finale, sul quale Federico chiude la silloge. Un silenzio nel quale tutte le parole che sono state dette – e sono servite a fare chiaro come lampi di magnesio sulla strada segreta del futuro – possono finalmente tacere. Guardare è sufficiente, in quello stato. In quello stato, respirare è conoscere. Quello stato di silenzio, il silenzio di chi scrive, coincide con la sua assoluta nudità. “Prima della caduta, l’uomo esisteva per Dio in modo tale che il suo corpo, anche in assenza di veste, non era ‘nudo’”, scrive Erik Peterson. Dunque, deduce Giorgio Agamben, “il peccato non ha introdotto il male nel mondo, ma lo ha semplicemente rivelato.” E ancora: “In quanto oscuro presupposto dell’addizione di una veste o subitaneo risultato della sua sottrazione, dono insperato o improvvida perdita, la nudità appartiene al tempo e alla storia, non all’essere e alla forma.” La nudità dell’uomo è provvisoria e la sua conoscenza è provvisoria. Ma sussiste nel mondo un difetto di forma antecedente. Fermarsi nel conoscere, provare vergogna per la nudità, rivela il male. È una decisione che ci ripiomba nella separazione diabolica (diábolos: colui che divide), dunque nell’identità. Nella scena, nella maschera, nella ripetizione. Il mondo, infatti, anche in Federico, privato della grazia espansiva e mobile dell’amore, sembra la rassicurante replica di uno spettacolo d’arti varie, sotto la cupola di un cielo tirato con razionale sapienza come un tendone da circo “In paragone alla tua vita tutto sembra / ed è soltanto uno spettacolo”. Senza l’amore il mondo suona falso e non ci basta, è una piccola, povera, trita scena di attori affannati. Miseri, mendicanti. La nudità del mondo, la nostra intera adesione interamente umana a esso, è data dallo sguardo con il quale guardiamo il nostro oggetto d’amore e, con esso, concentrico, l’intero movimento della terra. Allora comprendiamo la funzione dell’asse e di ogni inclinazione. A-mors. Comprendiamo la morte, nella sua falsa etimologia. Altrimenti, la bellezza del mondo è perduta. Altrettanto conferma San Paolo nella prima lettera ai Corinzi, inno alla carità: “Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei un bronzo risonante o un cembalo squillante.” E ancora: “Adesso vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia.” Questo “allora”, per chi ama, è terrestre, è faccenda di adesso. Niente da rimandare. Quindi, siamo in attesa, come la donna che si affaccia a guardare i fuochi d’artificio di ferragosto e ben altra è la luce che aspetta, quella che le riveli il mondo nella sua nuda frontalità, nell’ampiezza e nella profondità. Quindi, restiamo pronti all’avvistamento, alla visione, ascoltiamo il silenzio di un neonato che ha fatto il suo corso e si è versato in noi e respira in silenzio, slacciato dall’oceano. E tutto dice: fammi rinascere, fin che sono vivo.

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