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Carte nel vento n. 24 (10.14)

dal paesaggio – premio “Montano” 2013, poesia inedita
 
 
1. supplica all’evidenza
 
a uno a uno, in un susseguirsi
di apparizioni fantastiche – o piuttosto in massa, in lunghi filamenti
di fuoco, potenti
come lapilli, appaiono questi rossi
alberi-parola
emanati dal centro del paesaggio in fiore
 
                                                                    prima
c’era solo la splendida mutezza delle cose, l’evidenza oggettiva, nostra e del mondo.
ora siamo corrotti dallo scisma
 
ci inginocchiamo sul brusio dell’erba, l’orecchio teso al soffio disumano delle cose.
nessuno emette altra preghiera che questa
 
                                                                     solo quando
da una piega di luce del cielo
cade uno spolverio di grandine e di uccelli, ovvero
quando gli eventi riescono a oltrepassare l’abilità descrittiva
di una lingua ormai esperta, i corpi umani
assumono la densità delle origini, muti si spostano in colonne d’eco
 
 
2. il gregge
 
gli animali non ancora nominati
stanno come rudimenti
sotto un velo di calma meraviglia, danno luogo a vistosi agglomerati di esistenza
dai bordi scabri come per una piaga, quando si lasciano alle spalle
la pianura e le nostre figure
 
gli animali hanno agito sparsamente
poi sono confluiti, assecondando lo splendore chimico dell’erba che si piega sull’arco della terra, ancora ricoperta da un liquame fertile che si va disseccando dopo l’inondazione
 
 
3. la compenetrazione degli oceani
 
l’acqua appare immediatamente dotata di una aggettivazione ardua. tra gli elementi mobili è quella che presenta il potere maggiore
di persuasione del paesaggio: l’ossigeno dell’acqua
si combina per attrazione immediata con la cenere che giace dalle origini
nel cuore dell’albero. soprattutto il rosso
dei meli, riflesso
in un lucido specchio di idrogeno
permette agli alberi di modificarsi in vegetali subacquei mantenendo viva
la fiamma dell’orgoglio
 
i coralli sono infatti un allegro esperimento alchemico: i ciliegi più giovani
marmorizzano i flussi delle linfe e li espongono sotto forma di scheletri ematici
apparentemente immobili. essi, dotati di una struttura interiore ancora flessibile, confluiscono volentieri in una qualità animale e
tutto in loro dirama in forma di corallo.
 
viceversa i cespugli, sostenuti
da una basica sintassi di specie, preferiscono dilavare la propria sostanza. dunque, modificati appena, commisurano se stessi all’umidità dell’ambiente assumendo la viscosità dell’alga
 
intanto sulla terra l’acqua finisce per separare dal sommerso la razionalità dei frutti, che appariranno appesi a una certa altezza non del tutto celeste come crisoliti di dolcezza
 
 
4. il latte
 
sospinti dall’acqua, alcuni animali si raggruppano sotto la volta delle stelle con la mansuetudine bovina di un rilievo montano, la somma dei loro corpi assume la compattezza di un bianco santuario. essi cominciano ad arrotondarsi e a convergere in un punto dal quale sgorgherà il latte in luogo delle parole
 
sopra tutto lampeggiano i nomi, incandescenti e bianchi come stelle
 
 
5. la religione
 
secondo una simile fenomenologia si forma il corpo di fiamma e vapore di un dio appena ucciso e la nera terra ammonisce: non lasciare mai vivo quello che uccidi
 
dunque il gregge si espone come il sacrificio di un toro
antecedente al suolo intransitivo e scortese delle montagne, un animale esteso che dilata il ventre e lo rilascia sotto la pasta vitrea degli sguardi umani
 
questo è il retroscena di città severe e solenni come Napoli o Roma, due città capovolte all’interno
 
non è mai stato chiaro perché gli esseri umani, compiendo continui microsuicidi interiori, si siano adattati a questa povertà, se conservano ancora così viva la memoria del paradiso
 
 
6. un Dio parlante viene infine eretto affinché i corpi possano cantare
 
chi entra in possesso di un oggetto eversivo come la parola non può limitarsi a usufruire della sua mera funzionalità. per impiegare la lingua al di fuori dell’utile, gli uomini devono prima espungere da sé l’autorevolezza del verbo e onorarla attraverso un’ideazione che abbia il peso specifico dell’aria e del marmo. per esempio un altare
 
dunque all’origine della creazione – altrimenti così nuda
e terremotata, fatta di scontri casuali
di blocchi e neri carsi di materia in fiamme – una generazione di figure rosse installa
una figura esteriore, esterna al creato, un’icona paterna
alla quale attribuire la serietà integrale del Verbo, infine estromessa dalla esclusiva responsabilità umana
 
dai sussulti iniziali della materia estraiamo un dio a nostra immagine e, ancora gocciolante dell’amnio della mente e già adulto come una Minerva, lo incarichiamo di certe passeggiate preistoriche che egli, ormai indipendente dai suoi autori, spenderà nella calma euforia della nominazione del visibile e dell’invisibile. quest’ultimo appare principalmente sotto forma di simbolo
 
grazie a questa delega divina, gli uomini cominciano a cantare. la prima forma del loro canto è lauda, inno, questa gratitudine
 
 
7. l’asse
 
si forma dunque un asse cartesiano dove dio è altitudine bizantina e gli uomini sono i suoi bambini, canori come passeretti, che beccuzzano il pane della gioia su un orizzonte finito
 
poggiando sulle dune dell’informe
i piedi di dio sollevano piccole colonne di materia ancora muta, mentre egli plasma il fango con la sua voce definitiva
 
infine, per mezzo di una donna che non ha mai conosciuto e nonostante questo ha acconsentito a farsi sua obbediente e sua serva, il padre emette un figlio-Verbo
la cui parola è distillata, sapienziale
e didattica. Christòs non parla mai senza motivo, non canta mai, non rifà mai la musica dell’erba con le parole
 
il dio della più grande misericordia non ride, affinché noi possiamo
 
 
8. nel paradiso
 
la confluenza di questa carne solare al centro del paesaggio ricorda quando l’amore era quel misterioso spostamento animale
 
la massa compatta delle creature avanzava in silenzio nel fiore d’oro del sole, con la pelle scottata come acqua
 
fin quando la perla madre, colma del suo piacere e della sua discordia, è stata esposta con le sue figure di dolore nel covo bianco del sepolcro
 
la sua persona era attraversata da venature di verde e mielee sulle ciglia presentava un orlo di cereali arrivati intatti da un’economia di baratto
 
la sua urna era colma come un granaio
 
stamattina la sua maschera funeraria appare impressionata dalla quiete della fiumana umana, sulla quale dilaga una macchia di trasparenza bestiale
 
 
9. la mela è fatta di parole e il corpo canta
 
comincia così: il male genetico rosseggia e serpeggia per tutta l’ampiezza del paradiso. esso interrompe l’intimo silenzio edenico. il male avviene
quando il serpente si rivolge a Eva. Padre
che per noi indossi l’austerità della lingua, liberaci dallo scisma
che rende doverosa la parola
 
prima, solo intuizione e contemplazione dell’assembramento. il corpo unico degli animali e delle cose
è rotto. insieme al trauma della separazione urge una parola comunicante.
 
poi il Verbo viene eretto sulla croce. voce
del corpo dei corpi: io faccio musica con i corpi degli uomini, io
non parlo. la parola incarnata
ora è carne inchiodata a un oggetto. il sacrificio è volontario. gli uomini spiegano agli uomini che il mero nome (croce, legno, chiodo)
non basta a salvare. per salvarsi bisogna
che tutto il corpo canti come un bambino
 
 
Roma, 31 marzo 2013

Creatività e creazione, nota critica di Marco Furia

“dal paesaggio”, di Maria Grazia Calandrone, è intenso componimento che sembra trattare della creazione del mondo.
Una creazione non remota, bensì presente, continua.
Il lettore è coinvolto in un fitto susseguirsi d’immagini che presentano un divenire inarrestabile, privo di soluzione di continuità.
Il mondo, per Maria Grazia, fu ed è creato nello stesso tempo.
Forse, guardando in direzione del mare, potremmo scorgere l’Arca di Noè ancora in navigazione e, forse, certi episodi biblici si stanno ancora verificando.
Non siamo dinanzi a un gioco di gusto surrealista, bensì a un vivido sguardo sulle origini intese quali energie che continuamente si rinnovano.
La cronologia perde importanza quando ci si rivolge al fenomeno dell’esistere puntando a renderne evidente l’intima natura.
Siamo, sempre, le nostre stesse origini?
Sembra, a prima vista, che la risposta della poetessa a simile quesito sia positiva.
Dico “sembra a prima vista”, perché il sincero atteggiamento dell’autrice non è assoluto e, pur gettando luce su certi aspetti, non intende eliminare tutto il resto.
Il trascorrere del tempo è presente, ad esempio, quando vengono proposti precisi riferimenti alla storia sacra e, in ogni modo, non appare estraneo alla stessa sequenza di nove brevi sezioni ciascuna contraddistinta dal proprio titolo.
È presente, poi, una pronuncia davvero chiara:
“chi entra in possesso di un oggetto eversivo come la parola non può limitarsi a usufruire della sua mera funzionalità”.
Pronuncia che non si può non considerare specifica dichiarazione in cui la “mera funzionalità” del linguaggio è ritenuta insoddisfacente, non sempre adatta alla bisogna, inadeguata.
Talvolta occorre allontanarsi dagli usi idiomatici consueti, come “dal paesaggio” insegna.

http://www.anteremedizioni.it/montano_newsletter_anno11_numero24_maria_grazia_calandrone

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