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Landini Maurizio (3.15)

 MAURIZIO LANDINI, Àndito
“Poesia” n. 302, marzo 2015

Quelli di Maurizio Landini paiono brevissimi, incisivi canti d’addio a corpi molto amati, chiuse di corpi tanto necessari da essersi elevati fino alle stelle e averne inglobata – più che toccata o trattenuta con un solo arto – la materia. Il corpo amato, il noto impasto carnale di tempo (disincantesimo) e utopia dell’immortalità, è qui un composto umano di materiali astrali naturali e più vasti: “corpo stellare” e “corpo di ore / bruciate e nubi quasi ferme”.

Il paesaggio al quale questo umano disumanato partecipa, viene retto da intermittenze e bagliori di urbe e natura (erba, acqua, nuvole) e non è affatto un fondale sul quale il corpo poggia per spiccare (né le tre dimensioni, i tiepidi volumi della propria carne, né il volo), è anch’esso parte viva e organo di senso metaforico, del narrato e del corpo scrivente.

Le cifre di Landini paiono dunque essere commistione (di corpo e nature e di poesia e poesia, lo vedremo) e frammento – ma frammento chiuso, accensione compiuta nella sua durata. Landini procede infatti per blasoni, per camei piccoli e perfetti come incisioni sulla madreperla. Raramente essi sono inanellati: si tratta di piccole icone de-terminate in se stesse e solitarie, stanze che si aprono ai due lati del corridoio al quale accenna il titolo della silloge, piccole sfere messe in comunicazione dallo spazio bianco che le contiene. I corpi e gli elementi del paesaggio sono immersi in una luminosa malinconia, in una specie di sereno compiacimento per un leggero, costante dolore senza lamento.

Adesso tutto è immobile. Il punto di partenza della voce è fermo, è a cose fatte, a eventi ora conclusi: il movimento viene ricordato. Rimane il secchio d’acqua non bevuta all’orlo del pozzo. E rimane la sete. Quello che adesso spinge l’unico moto, il soffio delle parole – impastato all’innalzarsi dello sguardo –, è “passione”, “fuoco che non / mi manca”. Ci sono funi, corde, filamenti, che paiono strade maestre perché il corpo (ormai) celeste si riappropri di quanto al mondo gli è appartenuto e il corpo rimasto, quello fermo e mondano, possa intuire il soffio di quella migrazione invisibile – forse una vibrazione nel legame, metaforizzato appunto in un sottile movimento di corde. Le quali possono anche significare musica, composta da ritorni, immateriali ma non astratti, perché i corpi sono sì umbratili e lievi, ma si condensano e si esprimono in dettagli corporei: una “gola aperta”, una “mano ad arco”, gli “occhi / di selva”, le “dita / di betulla” – che ne distillano consistenza e peso, sia interiore che volontario. Voluto, desiderato dal corpo quando ancora si destinava a noi.

Nello stato liminare, di sospensione e velatura nel quale Landini scandisce i rintocchi delle sue parole che parlano a tutto (ai cantieri, all’altrui corpo, alla notte) – e dove viene promesso che tutto questo dire nato dalla passione verrà inciso “nel ferro / molle del giorno” come un bagliore di sole sui “gioielli / nei vagoni al mattino”, si confessa il timore del risveglio, del punto di scavalcamento dell’alba.

Il momento nel quale la notte scavalca se stessa per diventare sole coraggioso e schietto, è atteso con un’ansia che consiglia a Landini di appoggiarsi a un poeta più antico, di incastonare addirittura le parole di lui nelle proprie. Ecco dunque il Quasimodo de I ritorni, colui che invece, ben prima del nostro autore, temeva di “restare”. L’io (ora doppiamente) lirico Landini prosegue i versi di Quasimodo confessando di andare via per non svegliarsi in una primavera che, al contrario di quanto promette il suo calore, farebbe o ha fatto morire. Ed ecco infatti comparire, con la sua maiuscola, l’eliotiano Aprile, che strazia i non vivi, che lascia i morti alla loro inguaribile, crudele immobilità, più certa ora che tutto il vivo rivive e manda incomprensibili profumi. Ma aprile è anche il mese del futuro, della gioia dolorosa di Pasolini solo-insieme alla madre, a lei che supplica di restargli insieme, in quel “futuro aprile” all’indicativo presente.

Àndito è dunque zona di riflessione e stasi dopo una perdita o una mutazione capitale, il luogo neutro dove, mentre si prepara il da farsi, ci si fa compagnia con i simili: Eliot, Pasolini e ancora l’Eliot della Waste Land, quando confessa il debito esistenziale e intellettuale, nudo e intero, ai poeti che l’hanno preceduto: “con questi frammenti ho puntellato le mie rovine”.

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