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Carrozzo Marthia (7-8.15)

Marthia CARROZZO, Piccolissimo compianto all’incompiuto
“Poesia” n. 306, luglio-agosto 2015

Nella sua forma integrale, il compianto di Marthia Carrozzo si apre con una dedica al lettore, il quale viene avvertito che il poemetto non tratterà dell’ira di Achille, bensì del suo altro destino possibile, più umano e meno eroico, se all’eroe fosse stato concesso di non sobbarcarsi l’onere di un collettivo furore. In verità, tratteremo un Achille più eroico, lo vedremo: la sua persona (più che la sua figura mitica) viene raccontata da un corale di voci cardinali della sua esistenza, dai testimoni che hanno subìto insieme a lui lo spettacolo e il fascino ambiguo di una sorte guerriera.

L’incompiuto al quale allude il titolo è lo stesso Achille, ma è anche la figura disumana (divina, in questo caso) di Cristo. Il requiem di Carrozzo è infatti un lavoro complesso, che riguarda i ruoli maschile e femminile nel mito, modernizzati poi dalle religioni e qui rimescolati e restituiti secondo il tempo atemporale della poesia. Richiesta infatti di spiegarmi come mai la sposa greca Deidamia citasse santi e madonne nel proprio discorso diretto, Carrozzo ha fornito esaustiva spiegazione: Teti, madre archetipica di Achille, vorrebbe salvare il figlio e, come poi Maria, non potrà farlo, entrambe dovranno accettare dolorosamente i ruoli (maschili) che ai rispettivi figli sono stati imposti: l’eroe, il redentore. Teti rifiuta inconsciamente il ruolo eroico del figlio, lo lascia segretamente inerme, lascia – per errore apparente – una minima parte vulnerabile in lui, la crepa attraverso la quale passa la morte velenosa del suo bel corpo. Anche il nome di Deidamia viene significato come annuncio dell’assenso futuro di Maria: “Dei-Dama, ancella del dio, secondo un’etimologia sonora e simbolica”.

Come non pensare alla bocca spalancata nel tremendo, esterrefatto urlo muto di Susanna Colussi Pasolini ai piedi della croce, ne Il Vangelo secondo Matteo?

Sarà allora una donna a fare chiaro, anche qui, alla fine del Piccolissimo compianto: l’amore della sposa Deidamia fa sapere ad Achille che il corpo amato è diverso da quello di chiunque altro.

Questo è quanto fa l’amore: restituisce all’amato la propria fragile unicità, eversiva e insopportabile, desiderante. È spesso più facile condursi da eroi attraverso il proprio breve tempo, portare con sacrificio e rettitudine il proprio dovere sociale, che essere amati. Essere amati vuol dire essere stati tanto nudi e coraggiosi e veri da aver accolto il proprio bisogno di essere amati, di riposare nelle braccia di un altro – ai piedi di un altro (“quella mattina venne, / e si tenne accanto ai miei piedi, come sempre scalzi”), è assumersi il rischio della propria integrale vulnerabilità.

È assumersi il rischio di non respingere, di non essere soli, di non essere autarchici e autosufficienti come è Achille, così compreso da Pentesilea, la naturalmente bellissima regina delle Amazzoni, quando, pur guerreggiando, si specchia in lui: “Solo la sua solitudine mi spaventava. / Solo da quella, mi difendevo, dal confrontarla / con la mia, ma ora.”

Nell’eroe eroico resta esposta solo una parte piccola, incontrollabile: alle spalle, nel basso di sé: il tallone, una zona invisibile e quasi irraggiungibile, nel grande corpo altrimenti armato, mascherato, ingessato e irriconoscibile, nel gran corpo assorbito dal corpo sociale.

L’amante e l’amato consenziente sono invece perfetti, per la loro imperfetta e unica nudità. Rivendicano in silenzio la propria identità, la propria salvezza.

La persona incompiuta di Achille emerge dunque, da queste poche pagine, almeno consapevole dell’io scorsoio e soffocante della sua faticosa, protettiva, collettiva perfezione eroica, si presenta a questo tempo nostro rinnovata, con una scucitura luminosa, con un’incrinatura nuova nella corazza – lustra come una tenaglia – della sua spaventosa, disperante solitudine.

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