Categoria

profughi siriani: lo sguardo poetico più forte della disperazione (CorSera, 20.11.15)

 la poesia: un canto dalla zattera nella tempesta

Il poeta è un ingenuo o un arrogante? è la domanda che Alessandro Agostinelli pone dalle pagine de “l’Unità” del 4 ottobre scorso: “Chi scrive davvero poesia spesso si vergogna di essere definito poeta, perché come quell’Orfeo della canzone “giace morto stecchito per il mondo”. Allora pecca di ingenuità o di arroganza chi scrive poesia? Oppure ha ripiegato su un terreno meno esposto alla violenza delle intemperie attuali?”

Io rispondo che no, niente di tutto questo. Un poeta è profondamente implicato con le cose del mondo. Ma il suo compito è essere, con tutta la propria persona, controcanto al canto del mondo – e mantenere la memoria di un modo diverso di stare al mondo. Né superiore, né inferiore: diverso. E altrettanto umano.

In Al di là del principio del piacere, Freud scrive che “quando entrano in gioco le pulsioni di auto-conservazione dell’io, il principio del piacere viene sostituito dal principio della realtà. Quest’ultimo […] mette in atto la temporanea sopportazione di dispiacere, come tappa nel lungo e contorto cammino verso il piacere.” Credo che questo stia avvenendo al nostro macro io-occidentale: poiché si sente in pericolo, la società reagisce attaccandosi alla “realtà” (economica e formale) del mondo come a una zattera nella tempesta, reagisce spegnendo, temporaneamente, speriamo, il suo bisogno di bellezza.

Ma, su quella zattera, che per altri non è affatto metaforica, ci sono i poeti, quelli che vedono tempesta e maceria, ma compiono il quotidiano atto di volontà di tenere lo sguardo puntato altrove – all’oro, alla riva.

Un poeta si esercita ogni giorno a cercare i barlumi fra le macerie, a vedere (o intuire) la bellezza (il senso) del mondo, pure nella catastrofe. O a denunciarne la mancanza di senso. È una sua inclinazione naturale. Che coincide con il suo compito sociale. L’esempio di Paul Celan valga per tutti: Celan ha lanciato la sua parola verso il futuro, dal centro di un vasto orrore (la Shoah), affinché la sua fede nell’umano arrivasse fin qui: “per la parola porpora, che cantammo / al di sopra, oh al di sopra / della spina.”

E ancora: nel documentario Shoah di Claude Lanzmann c’è la testimonianza di un superstite, ex kapò: “una volta ci fu come un coro, il canto invase tutto lo spogliatoio: l’inno nazionale cecoslovacco e poi la tikka. allora io improvvisamente decisi che volevo morire con loro, io d’improvviso per la forza del canto ritornai umano e finalmente non compresi più la ragione della mia cieca sopravvivenza. ma la mano di una delle donne mi fermò e la sua voce disse: no!, tu sarai il Testimone.”

La vita come testimonianza. La poesia come testimonianza. A conferma, desidero citare il resoconto amarissimo Sfollati a Lesbos, che Antonella Anedda ha pubblicato, all’inizio di ottobre, su “alfabeta2”: Anedda è in viaggio, ha negli occhi la bellezza di Lesbos, a sua volta echeggiata in lei da tanta poesia greca. Ma emergono subito i primi segni di uno straniante, dolorosissimo altrove, che sta arrivando in silenzio. Dal buio dell’isola, emergono le tracce di un dolore che chiede casa in quella terra che pareva fatta di poesia e, intanto, trova casa nelle parole di un poeta: è il dolore dei profughi siriani, che Anedda chiama “sfollati”, perché noi possiamo identificare in loro il racconto di tante nostre biografie familiari: “Questa bellezza, questa pace non bastano e resta sempre ferma la stessa domanda: cosa rende gli esseri umani crudeli? Il fatto di stare in un’aiuola?” Ecco lo sguardo di un poeta davanti alla “concretezza dei bisogni, del cibo, della paura, ma anche della speranza e della spinta verso un’altra forma di esistenza, più forte della disperazione. Tutte quelle persone sembravano completamente sole, esauste, ma sostenute da qualcosa che non so definire se non come il coraggio dell’attesa.”

Ecco salire dalla zattera la voce del poeta – che forse parla al vento, ma parla: “C’è un’educazione, un rispetto verso la fragilità dei vecchi, dei più deboli che forse va ricostruita come si ricostruisce una casa distrutta, lavorando per trasformare la nostra durezza di sguardo, per scucire i nostri occhi cuciti col ferro, come se fossimo, e non possiamo esserlo, invidiosi.”

Perché Anedda parla di invidia, alla fine del suo articolo? Invidia dei benestanti nei confronti degli “sfollati”? Surreale. Ma chiediamoci se in noi non viva anche la volontà di umiliare la debolezza che l’altro ci espone, di affondare la lama del nostro benessere nel suo bisogno. Chiediamoci se l’odore del sangue e della miseria altrui non ci serva a esaltare, a contrasto, il profumo della nostra salute. E chiediamoci ancora (e qui ringrazio il mio interlocutore virtuale Alessandro Corradino per la sensibilità del confronto), se Anedda voglia anche insinuarci il dubbio di un’invidia paradossale, da parte di questo morto Occidente, nei confronti della vitalità di chi è spinto a una rivoluzione esistenziale, sebbene a causa di una tragedia immane. Dalle sponde di questo Occidente, sotto la più leggibile paura, sale forse un rancore nostro, nei confronti di chi coltiva un sogno?

Si tratta forse di invidia della vita, da parte della nostra inespugnabile infelicità borghese – che non ha più un futuro, né un Altro, da aspettare? Ecco lo scarto conoscitivo che il pensiero di un poeta ci permette di fare. Ecco il dubbio che insinua nelle nostre certezze.

Perciò io credo che la poesia sia utile e viva – e che agisca in profondità. I poeti sono emarginati, quando non irrisi, dal potere e dalla società borghese. Perché le loro parole non si possono adattare al discorso del mondo, né devono – come suggerisce Anedda (“È davvero una follia pensare una politica che sia anche poesia piuttosto che una poesia spesso desiderosa di emulare la politica?”) – simulare il discorso del potere, non possono venire valutate secondo il “successo” dei risultati di vendita, poiché esse servono a mantenere la memoria di un altro discorso. Ripeto: né superiore, né inferiore: diverso. E altrettanto umano.

E poiché penso alla poesia – insieme al discorso amoroso – come al discorso dell’eversione, sono senz’altro d’accordo con Agostinelli, quando suggerisce la necessità di portare la parola poetica e – ancora meglio – i vivi corpi dei poeti nei luoghi non destinati alla poesia. Fui infatti tra quelli – era il 2000 – che aderirono al suo invito di leggere le proprie poesie con il megafono: nei mercati, nei centri commerciali, dai balconi di Pisa. Una delle esperienze più significative e divertenti che abbia fatto con la poesia. Fuori dall’asfissia delle accademie. Nel mondo, qui e ora, ciascuno con la cosa che sa fare.

Se si rompesse l’universo della nostra lingua, che i poeti custodiscono,  scrive Agostinelli, vivremmo tutti una perdita di identità, di casa, “sarebbe come trovarsi di fronte al peccato originale”. Ma la parola comunicativa entra nel Paradiso come peccato: la prima domanda viene pronunciata nell’Eden dal serpente. La parola è esilio dalla conoscenza originaria. La quale è intuitiva, corporale. Il peccato originale è conoscere intellettualmente, è perdere (rinunciare) – parlando – (al)la conoscenza originaria. La poesia vuole farci riavvicinare a quella conoscenza. Intuitiva. Corporale. Dunque bisogna chiedere la viva voce dei poeti, i corpi dei poeti, chiedere che i poeti si mettano in gioco con l’intera propria persona, che non affidino solo al codice muto del libro la propria parola.

Massimo Recalcati, in Le mani della madre, oppone la qualità materna della cura all’”incuria assoluta” del discorso del capitalista. Le mani della madre salvano dal baratro dell’indifferenziato, perché trattengono nel loro amore la singolarità di una persona, la riconoscono come propria creatura, impedendole di precipitare nell’abbandono assoluto nel quale ogni vita è gettata nascendo. È l’amore che speriamo e al quale abbiamo diritto. Mi spingo a desiderare che la poesia renda al mondo questo servizio. Che serva a identificare, a indicarci la singolarità di ognuno, che sappia tenere i corpi nelle sue mani, perché non cadano nell’anonimato di una massa umana sofferente. Noi oscuriamo gli schermi perché i nostri figli – le esistenze singolari che noi proteggiamo – non vengano colpiti da tanto dolore. Ma (ancora Anedda): “Forse l’unica cosa che gli esseri umani possono fare è imparare e imparando cambiare, guardando davvero le persone negli occhi, una a una. È davvero impossibile che dalla consapevolezza di andare comunque verso la morte non riesca a nascere – almeno a tratti – almeno una volta – quella solidarietà di cui parlava Leopardi nella Ginestra?

Il compito del poeta, oltre a quello di tenere viva l’identità di un popolo conservandone la lingua è, più ancora, questo: svelarci la nostra meschinità, ricordandoci la grandezza possibile della nostra persona. Il compito del poeta è mostrarci che siamo ciechi, come gli invidiosi dell’inferno dantesco, che hanno le palpebre cucite con il ferro, affinché i loro occhi non gettino il proprio sguardo malevolo su niente. Gli invidiosi di Anedda siamo noi, che abbiamo vite armate per essere indifferenti (che, alla lettera: non attribuiscono differenze, non riconoscono identità, singolarità), per non vedere l’altro chiedere asilo, per non sentire il dolore dell’altro e lasciarlo precipitare. Nell’indifferenziato del nostro oblio.

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

www.mariagraziacalandrone.it © 2021 - tutti i diritti riservati - Realizzazione sito web: Bepperac Web di Racanicchi Giuseppe