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Lainà Maria, intro (Poesia n. 310, 12.15)

Incontrare Maria Lainà equivale a pensare Io mi trovo difronte a un magnete. L’ho conosciuta a Torino, lo scorso settembre. Stava seduta a tavola, lievemente obliqua, come una che vorrebbe essere altrove. Le ho detto “Che belle le sue poesie”. Mi ha guardata, senza l’ombra di un sorriso, di convenzione o di compiacimento, e mi ha chiesto, molto seria: “Perché?”. “Perché sono chiare e sono vere”, ho detto io, vergognandomi di non essere in grado di argomentare meglio in lingua inglese. Rimedio qui, nella mia lingua madre.

Avrei voluto dirle che le sue poesie sono chiare di quella chiarezza che è passata attraverso molto dolore. Si tratta di un chiarore distillato dal centro di una vita che ha sentito la propria materia sentimentale come un organo solido e caldo, di un organismo fisico. Volevo dirle che leggere la sua poesia è assistere alla sua lotta contro la tentazione di andare via dal mondo, di preferire al mondo un altro mondo, come si suole immaginare facciano i poeti: “C’era un altro suono / ma resistetti alla tentazione di ascoltarlo”. Volevo dirle che la sua attitudine mi pare quella descritta nell’aforisma di Edmond Rostand: “Io parto per strappare una stella al cielo e poi, per paura del ridicolo, mi chino a raccogliere un fiore”. La paura di Maria Lainà non sembra però essere quella del ridicolo, ma degli effetti psicotropi della bellezza su una sensibilità acuminata come la sua, secondo la ben nota lezione rilkiana: “Perché il bello non è / che il tremendo al suo inizio, noi lo possiamo reggere ancora, / lo ammiriamo anche tanto, perché esso calmo, sdegna / distruggerci. Degli Angeli ciascuno è tremendo.” Ma no, non è degli angeli che scrive Lainà: lei racconta le cose del mondo, le persone del mondo e i loro amori spesso insufficienti – e la grande fatica che facciamo per restarci vicini, con l’amore che ancora meritiamo, perché dolcissimamente piangono i morti con queste parole: “guardate com’è irreale la nostra bellezza / come innaturale la nostra bontà” – ma, soprattutto: “Ah, la gioia del giardino all’alba / là dove mi sotterrò il crudele padrone; / questa bellezza sa di mietitura”. Una bellezza finale, diremmo quasi terminale. La bellezza del raccolto, di ciò che farà pane dei nostri corpi, dei nostri morti e del nostro lavoro.

I vivi e i morti, spesso, in questi testi, si confondono, si stanno vicini come nella bellissima scena finale di Heimat, La festa dei vivi e dei morti, dove chi è andato si mescola a chi invece dispone ancora della propria carne e del proprio sangue. Ecco la tentazione estrema, il pericolo della poesia di Lainà: “Altrove, via dalla pallida realtà / come risplende l’uomo quando muore.” La celebrazione dello splendore della morte, la pulsione di morte, “una forte sensazione di piacere / come il remo che splende sempre più lontano”, questo amare le cose da distanze indicibili, come nella poesia di Roberto Roversi, 20 parole, magnificamente cantata da Mina: “Io ti amo da altezze incredibili”, “il sussurro di una beltà come deve uscire dalla terra” che Lainà vede, poco prima che l’altro scompaia. Ecco il canto del cigno dell’amore, che rivela il suo frutto più splendente e maturo alla fine, nell’effetto che ha fatto su di noi, nel suo averci saputi cambiare in profondità. Eppure, “ciò ch’è stato accadrà di nuovo”. Perché, infine: “Era d’estate, da una riva all’altra / lo dico anche se non hanno più senso le stagioni / così perché credo che un giorno qualcuno si ricorderà / che i giardini e i corpi devono avere sete”: la fiducia nell’ordine della natura, una qualsiasi forma di fiducia, nonostante ogni rischio e ogni paura, è quel che spinge ogni poeta a scrivere. Altrimenti, si resterebbe muti.

Dunque il fiore finale, che viene raccolto da secoli dalla poesia, ogni volta come se fosse l’ultima, è questo arrivare a cose fatte in una città che era ricca e piena di bellezza e ora è spopolata. Il poeta arriva e sosta, come un testimone che ricorda e che sa, e che immagina quello che non sa, che fa rivivere con l’immaginazione il biancheggiare delle ossa – e lo riforma nella forma della dolce impazienza dei baci, che follemente e innamoratamente pretendono di baciare la nudità del cuore – e il testimone è arrivato fin lì, si è fermato a vedere “la mollica nera” dell’anima. Della bellezza.

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