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Satisfiction (17.11.15)

Satisfiction 17.11.15 Maria Grazia Calandrone inedita. Verba manent. Una quasi cinica oggettività

Una quasi cinica oggettività, mi dice Maria Grazia Calandrone di questo scritto.
L’occasione è il film del regista francese Claude Lanzmann, Shoah, del 1985. Shoah è un film-fiume che dura nove ore e mezzo.
La meditazione traduce, ancora una volta, il saper ascoltare l’altro, la parola di chi non ha diritto di parlare, privato del corpo, dunque. Qui leggo la capacità di sopportare il fardello dell’altrui dolore, così esposto da non poter creare anestesia. Eppure, pur non registrando la vita che sboccia, ma la vita declassata a oggetto, questa meditazione, cruda e oggettiva, è etica, dunque vitale e splendida. Sopporta la responsabilità etica di una denuncia, perenne, forte, coraggiosa, all’umano. Si può dire solo quello che si può vedere. Il dolore è inimmaginabile. Non cessa di non dirsi completamente, parafrasando Lacan. E l’unico modo di raccontarlo è scegliersi da un punto di vista oggettivo: Io potevo guardare perché ero morto.
Comportamento: la scrittura è anche stile di pensiero. E ancor prima di essere poesia, messa in scena del linguaggio che da sempre ci appartiene, questa meditazione sembra ricreare un atletismo affettivo prima della vera corsa, un abbozzo, un progetto, è la reazione dell’anima poetica a contatto-scontro con il reale macabro, nauseabondo, con il monstrum, cera fusa immersa in gelida acqua. Il bestiale che non trova sosta e non può esprimersi e che avviene, ancora oggi, sempre. Corpi carbonizzati che diventano questa Parola.
Una grande lezione di umiltà, un’immensa lezione, ancora, di poesia e amore anche, e soprattutto, se l’oggetto è l’obbrobrio che non ha più parole umane da darsi né occhi che vogliano indugiare. Una riflessione amara, però: quando finirà il dolore? È una scelta il male, il bene è una resurrezione, ugualmente una scelta. Responsabilità: il passato non è trascorso invano: l’ultimo pezzo, se non ricordo male, è proprio un sogno nel quale io ero Primo Levi, mi dice infine la poetessa e io immagino che queste parole possano, come per contagio, riscattare l’oppressione di molti. Restare indelebili, più delle milioni di quelle anonime lapidi.
Gianluca Garrapa

Verba manent
meditazione sulle parole dei testimoni in Shoah di Claude Lanzmann, 1985
 
Non era il mondo. Non era l’umanità. Non sembravano esseri umani. Invece, siamo capaci anche di questo. È una scelta.
 
Quando abbiamo aperto le fosse piangevamo tutti per quella legna marcia fatta di uomini – figuren. Avevamo davanti uno strato secco, una pianura di corpi che si sbriciolavano. Noi
dovevamo macinare le loro ossa
e gettarle nel fiume: bisogna fare spazio ai morti più recenti, dicevano. Così
il fondo del fiume era un bianco deposito di polvere umana. In un attimo tutto il paesaggio.
 
Sed libera pueros a malo
 
Sono triste perché ho visto gli uomini camminare verso la morte.
Eravamo una massa che proseguiva ciecamente sui morti.
Eravamo noi stessi un omicidio di massa compiuto in parte.
Macinavamo chilometri e macinavamo corpi. Eravamo raggiunti dall’odore. Solo
certe donne non reggevano: le madri erano rotte dalla pietà
le madri non volevano che i loro figli
assistessero a tutta quella morte
data di proposito. Nessuna madre vuole che un bambino sopporti l’esperienza del male, io capisco: quei bambini venivano da un altro mondo, erano stati concepiti tutti
per fiducia e per gioia.
Se il corpo di una donna dice sì a un figlio è per la fiducia istintiva, bellissima, che il suo corpo ha nella bellezza del mondo, qualunque cosa lei ne dica. Per ciò, nell’evidenza
del male, alcune tagliavano le vene ai figli e poi si davano la morte.
 
Pausa. Respiratorio.
 
Un uomo spera, anche pigiato al buio del crematorio
con centinaia di altri che come lui
sperano, perché nessuno crede veramente al male.
 
Dopo che tutti erano stati pressati all’interno del Krematorium – circa 300 persone per carico – i cristalli bluastri di gas Zyklon (ciclone) B venivano spinti all’interno attraverso sottili fessure praticate sui lati ciechi del muro.
I granuli erano composti di polpa di legno o terra diatomacea impregnata di acido cianidrico.
Le esalazioni di acido cianidrico inibiscono la respirazione cellulare fino alla completa anossia, ovvero alla soffocazione delle cellule dei tessuti vivi. Il corpo che si è spento in questo modo si presenta rosso violaceo, livido, per l’eccesso di ossigeno inutilizzato dal sangue.
All’interno del Krematorium è buio, ognuno è solo nella circoscrizione sempre più piccola e deserta del proprio corpo.
Il buio amplifica il terrore. I nazisti provano piacere nell’annientare la compassione, ovvero le fondamenta della mia umanità, prima dell’animale del mio corpo.
I nazisti hanno bisogno della conferma che loro sono uomini e io no.
 
Pausa. Esperimenti su uomini vivi.
 
Questa è l’umiliazione insopportabile: mi hanno mostrato fino a dove posso strisciare per fame e terrore. Il male commesso da altri, il male fuori di me, era una visione incomprensibile che riuscivo a respingere. Istintivamente si è portati a negare quello che pure vediamo nitidamente.
Ma il contagio: il contagio è insopportabile. Il male dentro.
L’ossessione dei sopravvissuti è la quantità di male inoculata in se stessi, è la colpa per quello che noi stessi siamo stati capaci di compiere. Per il tozzo di pane che abbiamo sfilato dalle mani
del più debole. Per il triangolo di coperta che abbiamo fatto scivolare dalle spalle del nostro compagno, profittando del suo sonno cinereo. Così, diventavamo estranei a noi stessi.
Ma soprattutto, lo stato di ininterrotta violenza ha finito per suscitare in noi quello che veramente non perdoniamo. Più
che questa guerra sorda per le briciole, forse ancora pietosamente umana, sebbene fatta da uomini alti quanto fili d’erba, noi non ci perdoniamo
la nostra indifferenza verso il dolore e la morte degli altri.
Gli uomini per lo più sono sensibili. Se non lo sono, non li riconosciamo come uomini. Nemmeno più come creature vive. Nei campi di sterminio i fatti di eroismo e di solidarietà o di semplice compassione venivano immediatamente azzerati dalla uccisione del temerario. Dunque si era costretti in sé.
Le vittime umane erano indotte a non riconoscere come vittime umane le altre vittime umane.
Scomparsa la identificazione con il dolore dell’altro. Niente ci brutalizza più di questo ripiegamento primario. Niente ci rende più estranei a noi stessi.
Io non mi conoscevo in questa solitudine, in questa ermetica interruzione dell’anima. È una scelta. Alla quale siamo stati forzati. Ma è una scelta.
 
Pausa. Disposizione.
Ora i cristalli sono caduti a terra, dunque il fumo sale dal basso. Dunque i forti salgono alla cieca sopra i corpi degli altri per respirare.
Il carico impiegava circa 15 minuti a morire del tutto.
Ma tutti, per istinto, si gettavano verso le porte.
Il carico si dirigeva sistematicamente verso la fonte di luce.
Dunque quando riaprivano le porte del Krematorium la catasta di uomini e donne morti cercando aria e luce veniva giù come un precipitare di massi paonazzi da un camion che si fosse improvvisamente aperto per una buca nel terreno.
Molti restavano marmorizzati in posizione di sollevamento. 
 
Pausa. Apertura.
 
Dopo la caduta dei primi corpi si evidenziavano i bambini.
I bambini apparivano sempre alla base della valanga, sempre compressi sotto quella sconnessa piramide di corpi umani.
Spesso i padri erano montati al buio sui propri figli. Già quasi soffocati dall’angoscia e dal fumo, per respirare avevano premuto alla cieca i calcagni sulla faccia dei figli e i piccoli cadaveri presentavano delle lacerazioni. Alcuni riportavano sfondamenti del cranio o della cassa toracica.
Ma quasi tutti, grandi e piccoli, avevano ferite, perché nel buio avevano combattuto. I cadaveri perdevano sangue dalle orecchie, dal naso.
Lo sgocciolio del sangue dagli orifizi era il solo movimento in quell’asfissiato muro di corpi violacei.
 
Io potevo guardare perché ero morto, come ho detto. Prova.
Vieni a leccarmi il cuore, prova: rimarrai avvelenato.
 
Pausa. Sommossa.
 
Quando ha paura l’essere umano si svuota. Per esempio
quando sboccavano nello spogliatoio sotterraneo come una primitiva catena di morte, lì capivano cosa li aspettava: himmelweg, la via del cielo.
Ma una volta ci fu come un coro, il canto invase tutto lo spogliatoio: l’inno nazionale cecoslovacco e poi la tikka
e allora io improvvisamente decisi che volevo morire con loro, io d’improvviso per la forza del canto ritornai umano e finalmente
non compresi più la ragione della mia cieca
sopravvivenza
ma la mano di una delle donne mi fermò e la sua voce disse: no!, tu sarai il Testimone.
                                                                                                                                       Roma, 18 febbraio 2011
Nota. Nessun perdono.
 
A ogni apertura dei crematori si notava che intorno ai luoghi dove erano cadute
le pasticche di veleno rimaneva un vuoto irregolare. Noi
volevamo contrastare lo spreco di tutta questa bella carne che voleva vivere come l’albero
vuole vivere. Ma quelli erano impassibili: guardavano e basta
mentre la vita degli altri come cataste di alberi
bruciati vivi si consumava sotto i loro occhi e – sa, la legna umana brucia molto bene. Restano angoli di
    rigidità dove filtra il vento
e il fuoco prende
alle spalle e i tendini del mio collo si erano quasi
rotti a causa di uno sforzo per il quale il mio corpo non era fatto: la mia azione è
meccanica, secca, militare: io sono
come malato, in posizione di difesa tra mucchi
di spazzolini, occhiali
e capelli di donna stesi ad asciugare. Sì, in principio avevano pensato
di utilizzare completamente i corpi: i capelli venivano tessuti; della pelle facevano
paralumi e fodere
di poltroncine per gli alloggi
degli ufficiali. Un piccolo vezzo
di conservazione – sa, come del maiale, che
non si butta niente: neanche i denti, le ossa (era noto già allora che la complessione
umana reagisce come quella del maiale). Le nostre ossa
erano concime. Ma alla fine non si sapeva che fare di tutti
quei paralumi e così
ci bruciavano, con la pelle e tutto. Io
non potevo più credere che questo
fosse comunque umano. Dunque sono più cieco di un oggetto,
mi sono fatto
cosa: – spazzolino, matita, portafogli. Solo
in certe notti
io subisco quel buio senza uomini, io penso ancora:
sono l’ultimo ebreo, ora aspetto
mattina, ora aspetto i tedeschi, questa specie mortale.
 
Ecco. Vi vengo incontro. Di pari passo. Primo Levi. Häftling (pezzo) 174 517. Funzionante.
 
 
Roma, 16 marzo 2011

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