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Martini Giulia (1.16)

Giulia MARTINI, ventitré poesie
“Poesia” n. 311, gennaio 2016

Cosa ci viene a dire questa voce nuova? Che parola ci porta?

Ogni volta che sulla scena poetica si affaccia un giovane, con il suo inedito sentimento del mondo e con il suo pensiero sulla realtà, rivolgiamo a noi stessi questa domanda: quale mondo ci apre la sua visione del mondo? Dove vuole portarci?

Nel caso della silloge della giovanissima Giulia Martini, veniamo condotti all’interno di ventitré piccoli labirinti, ventitré piccoli mondi. Ci viene messo in mano un filo d’Arianna, tanto sottile da essere quasi invisibile, fatto di scarti bruschi di parole; è una piccola fune che ci guida a strattoni: ciascuna delle ventitré poesie apre e chiude un microuniverso fatto di specchi, di maniscalchi, anatre e ditirambi, frittelle e ottonari, pentole rotte, genitivi, acqua e olio, spaventapasseri, carrucole, civette, grani di sesamo, mandorle, bussole, lettere maiuscole e maionese maieutica.

Si tratta di blasoni metaforici, eppure tanto concreti: quella di Martini è una poesia estrosa, alimentare, quotidiana, campestre, divertita e carica di sé, una poesia che allittera e isola lettere dell’alfabeto e lettere del nome proprio, alludendo all’intero, come alla pagina intera alludono sempre le colonnine di “sillabe come gioielli” che ogni poeta depone, generalmente in alto a sinistra del foglio. In questo caso con discreta regolarità, a parte il fenomeno della numero dieci, dove, per due volte, si spezza il fiato, a interrompere le parole “malesse-re” e “Antarti-co”.

A Giulia Martini le parole piacciono proprio tanto, sembra che voglia mettercele tutte, sembra voglia infilare tutto il vocabolario nei suoi testi – o farne “antologia”. Proprio così: la numero ventuno, una poesia augurale, apparentemente d’occasione, rivela invece il metodo e l’intenzione con i quali Martini procede all’interno della lingua: le parole vengono scelte dal sacro silenzio delle possibilità, nel quale, insieme alle parole, risiedono anche “le scelte possibili”. Dunque quello che circonda le parole è lo stesso silenzio esistenziale che precede l’azione, è il silenzio nel quale si scelgono anche  forme e funzioni della nostra vita. Tirare fuori una parola da quel silenzio ha lo stesso valore di un’azione. Dunque gli apparenti giochi verbali di Martini sono giochi per adulti.

Con questa cognizione nella mente, seguiamo allora le sue formule di retorica e sintassi mescolate a ritornelli, a filastrocche infantili, di scuola elementare – e a onomatopee di telefonate interrotte. Così facendo, quanto più vediamo accostate parole e contenuti difformi, tanto più la sensazione di straniamento che proviamo leggendo, fa sprizzare qualcosa da ogni spazio bianco, da ogni intervallo. Da ogni pausa viene spremuto un senso che ci riguarda e ci guarda. Con parecchia ironia: “io ti firenze, amore, guarda / quanto ti arno e quanto ti disamo” o “giallisco, se mi diventi salvia / se mi diventi salva di crocicchio” e “non prendo / una piuma dal tuo piumaggio; ogni maggio / indichi solo a chi appartengo” – o, ancora meglio: “ma so te nell’armonica prima / della Prima armonica ruota”, un rotolare di cose grandi dove spira l’arietta dantesca della ruota armonica – ma riportata alla leggerezza di un Harmonic Mixing da DJ.

Il mondo che emerge da questo mondo poetico è, infatti, fondato sopra un sostrato denso di dizioni coltissime e di notazioni sull’esistenza, giocate con la leggerezza funambolica e con la libertà di un bambino. Martini sembra non porre limiti alla propria possibilità di utilizzare, in poesia, le nominazioni degli oggetti e dei contenuti culturali del mondo. Non appare corrotta dalla letteratura. Nella nota biografica, infatti, confessa la propria fatica di scrivere e la propria propensione a recarsi, in futuro, nei luoghi dove il linguaggio comincia a esistere. Ecco ancora il concetto di esistenza. Nel sacro indifferenziato del silenzio abitano tutte le possibilità. Come nelle cellule staminali totipotenti della placenta materna e dell’embrione. La poesia di Martini allude a quello stadio totipotente dell’esistenza, al silenzio che sta prima. Prima che il male di vivere corrompa lo stupore del quale siamo fatti.

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