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Quel rumore della vita che non vogliamo più ascoltare (CorSera, 28.3.16)

CorSera 27ora 28.3.2016

Quel rumore della vita che non vogliamo più ascoltare

È cominciata così: con il divieto inflitto ai bambini di giocare nei cortili dei palazzi. Ne ho provato una grande solitudine, come per una perdita privata: per me il rumore dei bambini ha la stessa dolce allegria del frinire delle cicale in campagna d’estate. Aprivo di proposito la finestra sul cortile, per ascoltare i tonfi delle loro pallonate, le loro guerre, i serissimi insulti e le contestazioni e le risate, improvvise e contagiose. Ovvero il rumore della vita che cresce, il nostro stesso rumore biologico, la conferma della salute, ovvero del futuro, della nostra specie. Adesso, quando apro la finestra, c’è il silenzio di un mondo disabitato. Disabilitato a vivere.

Purtroppo questa direzione fatale continua con l’interdizione all’accesso dei minori di 5 anni in taluni ristoranti. Un proprietario di esercizio alimentare così motiva la propria decisione, a “la Repubblica” del 19 gennaio scorso: Ce l’ho con i genitori che non sanno educare i propri figli. Io quando andavo da bambino al ristorante con mio papà, lui mi diceva ‘stai buono, se ti muovi ti spacco le gambe’”.

C’è da complimentarsi con quel genitore, c’è davvero da prenderlo a esempio. Siamo nei territori pericolosi del tramandare il danno di generazione in generazione.

Così, mi chiedo: a quando le zone dedicate ai bambini accanto al recinto dei cani?

Sulle rive di questo cinico Occidente in agonia muoiono solo i profughi, ovvero quelli che sono stati costretti dalla realtà a coltivare un sogno, che troppo spesso noi contribuiamo a trasformare in un incubo. Perché io credo che questo nostro cinico Occidente provi anche una sotterranea invidia, nei confronti di quella massa viva e piena di bambini che si sposta, per inseguire l’utopia di un futuro.

Noi non sogniamo più, non moriamo più, non sporchiamo, non piangiamo in pubblico, i nostri figli non possono più giocare per strada, non urliamo, se non nel traffico o negli accessi improvvisi di così detta “follia”, ovvero quando la massa dei desideri compressi esplode e ci travolge. Come la natura si riprende la terra organizzata dal risibile ordinamento umano con terremoti e maremoti che ci sforziamo invano di prevedere, così avviene di noi e della nostra struttura “sociale”, quando una necessità negata ci devasta, rendendoci “pericolosi”.

Un paragrafetto a parte merita il mal d’amore. Gli amanti sono irrisi o compatiti, sono figure scomode e antisociali: organismi non più funzionali e produttivi, creature ormai non più nobilitate dall’ampiezza del loro sentire, ma svilite al ruolo di ossessi, di malati d’illusioni, di affetti dagli affetti. Inefficienti. L’innamorato è un ostacolo nel fluire sociale, vive un tempo che è fuori dal tempo ordinario e da quella che abbiamo deciso di chiamare “realtà”. L’innamorato ricorda che “realtà” è un nonnulla nel tessuto spaziotemporale, un punto di intersezione qualunque su un piano cartesiano, dove le assi sono “tempo” e “spazio”: “realtà” è il risultato dell’incrocio di un determinato tempo con un determinato luogo. Questa memoria è pericolosa. Perché è viva e vitale come il rumore dei bambini.

Ascoltiamo il rumore di fondo dell’Occidente. Traffico. Bombardamento di notizie che dimentichiamo, immediatamente dopo averle ascoltate. Non abbiamo abbastanza compassione per compatire tutto quello che dovremmo compatire. Nemmeno noi stessi. Così, in questo frastuono, il solo rumore che non vogliamo ascoltare è il dolce, violento, sfrontato, disordinato, destabilizzante, maleducato, commovente: rumore della vita.

Della nostra, per prima.

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