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Gli Scomparsi – storie da “Chi l’ha visto?” (Gialla Oro pordenonelegge, 2016)

premio Giuseppe Dessì
l’intervista del TG Videolina

finalista premio Lorenzo Montano
rosa premio Tirinnanzi
menzione d’onore premio Anna Osti

a quelli che hanno deciso di non tornare,
al mistero insondabile di quelle vite

Nota dell’autrice

Questo libro è dedicato ad alcune vite incontrate grazie al museo dinamico dello schermo televisivo.

Televisione, internet, realtà virtuale: mezzi nei confronti dei quali la scimmia nuda che siamo nutre sentimenti ancora sperimentali.

Ma Chi l’ha visto? ha raggiunto la parte di me più profonda e più viva – ovvero la rabdomante della poesia nella faccia più cruda della realtà – per due motivi:

1. il 26 settembre 2000 la conduzione di Chi l’ha visto? veniva affidata a Daniela Poggi. Il 27 settembre 2000 mia madre adottiva semplicemente moriva. Esiste una somiglianza che ritengo notevole fra mia madre adottiva e Daniela Poggi. Avevo accompagnato mia madre fino all’ultimo respiro, l’avevo lasciata andare. Ma lei era in televisione. Cosa non si fa per rimandare un lutto. In quei giorni aspettavo il mio primo figlio, Arturo, e sentivo la gioiosa responsabilità biologica di lasciarlo galleggiare tranquillo.

2. una certa pregressa confidenza con le scomparse, soprattutto con quelle per acqua – e questo per causa della madre naturale.

Un cortocircuito di notevole entità.

Ho sentito così il desiderio – meglio: la necessità – di raccogliere il richiamo di quelli che restano a quelli che hanno deciso di non tornare.

Nella gran parte dei casi ho dato voce al richiamo di chi resta ai morti per acqua – e poi alle voci, per forza di cose immaginarie, dei morti per acqua stessi. Si capisce.

Un esempio per tutti: Donatella Cordenons, figlia impeccabile di giorno e prostituta di notte, ripescata in stato di nudità dal canale convogliatore dei detriti che porta alla centrale idroelettrica del Ledra. Il suo assassino (sappiamo che si tratta di un maschio) non è mai stato identificato.

Al mistero insondabile della sua vita è dedicato L’altare della specie.

L’altare della specie

Era facile amarla ma era destinata
ad andarsene frettolosamente e insieme ad aderire
a certi preparativi che gli indizi rivelano
meticolosi. Di pomeriggio si prendeva cura del giardino
in silenzio. Non capivamo quello che pensasse, era
tranquilla. Oppure
trafficava su un notes. Tutte le notti – rivestitosi
l’ultimo cliente – comprava un dolce per la colazione della madre.

Nell’acqua viaggiano i rifiuti e vengono
trattenuti a intervalli regolari dalla grata sepolta
nel buio e nel silenzio che si formano molti metri sotto
l’aspetto superficialmente aereo dell’acqua
che dipende dall’attardarsi del sole alla sommità come una lacca
democratica, un getto straripante di ottimismo
anche nelle orticaie disossate dall’urto delle fabbriche.
Si chiama strada del canapificio e porta
in una mescolanza di fanghiglia e zolla
resistente all’imprimersi del cascame animale alla centrale
idroelettrica – è un sentimento interrotto, una deriva dei continenti e dei relativi disastri sommersi
nell’isola del corpo che finisce
alla porta del grande casamento: c’è soltanto un custode e controlla
l’andirivieni tra le due parti d’acqua e fiamma serpentina o forse
trasmigrazione.

La trovammo in uno strano abbandono
come se tutti scissi i legamenti:
quasi niente dell’acqua del canale
nessun cattivo pensiero
nessuna ironia
non una goccia d’acqua nei polmoni, neppure
diatomee – il corpo sostenuto da una luce critica
oltre il proprio abbandono – pulsava al sole come in preda a un’estasi.

25 ottobre 2004

I muschi pavimentano le primavere in Festival Poesia (Castelnuovo Rangone, 24.9.16) 

Era buio, quella sera – un buio
molto lento e tranquillo – dal quale apparve
la vecchia con lo scialle e la lunga gonna
nera. Disse se vuoi salvare
la tua bambina, lasciala digiuna
tutto il giorno, e la notte le devi
solamente parlare
della grande distanza del paradiso.
 
Di lei mi resta
il lapsus sulla lingua tra figlia e vita mia.

http://www.youtube.com/watch?v=hR9z2_Nz-Gw

Non avrai che la vita

Le scarpe non vennero ritrovate.
Ma la luce batteva coitale sul corpo della ragazza
cristallizzato nella testimonianza.
Tra gli occhi e il ventre
tracce di lavatoio – un percorso a ritroso per stabilire gli alibi.
Il portone risultò chiuso con molte mandate.

Ardeva come un’ostia nella materia
lacrimale del tardo pomeriggio – con il capo impigliato tra gli arbusti
e la pervicace ripetizione dei giri. Per cause sconosciute
non ha potuto compiere i suoi anni
qualsiasi funzione avessero singolarmente ma un immobile
addio alla bellezza del mondo
riscaldava la fibra che resiste
grido di gioia del corpo senza dolore.

Deposto il nome
 
Diceva sempre
ditele che la amo
e ditele che ho fatto tanta strada
per amarla.

Ditele che se uscivano
angeli e diavoli dalla sua bocca,
io vedevo soltanto la sua bocca.

Ditele che mi abita
per sempre.
Diteglielo, vi prego. Diceva sempre.

30 aprile 2016

[…]

Mamma, tutti i malati – tutti
i moribondi – ciò che era vivente perché respirava e ora soffre e ancora
resta unito – o durante
la severa scissione della morte:
tutti quelli che parlano ancora, la loro ultima
parola in vita è
quella – e io
la sento, la schiena china sul lavatoio dei corpi per debolezza, non più
per amore.

Il crollo anchilosato di una cosa

Annina, madre di Angela, una bimba di nove anni, entra in coma a causa delle percosse ricevute dal marito. Si sveglia “incapace di intendere e volere”: viene internata e la sua bambina viene data in adozione. La mamma invoca invano la figlia per trent’anni – dopo i quali, grazie all’intervento di una nipote che chiede aiuto ai giornalisti televisivi, le due donne sono finalmente una di fronte all’altra. La mamma non riconosce in quella donna adulta la bambina che tanto ha chiamato. lamammapiùbelladelmondo, versione teatrale della storia di Annina e Angela, è in Per voce sola (ChiPiùNeArt, 2016)

La vita oggettiva

Nella seconda strofa del testo sono rielaborate le prime dichiarazioni della nonna di Denise Pipitone, bambina di 4 anni rapita nel settembre 2004 e mai più ritrovata. All’epoca dei fatti la donna protestava di aver messo il pranzo sul fuoco come tutti i giorni, mentre Denise giocava in strada, come tutti i giorni, e di non aver distolto lo sguardo da lei per più di cinque minuti. Come tutti i giorni. Le parole disperate della donna, mentre la scagionano, manifestano la sua involontaria complicità: la regolarità delle azioni della vittima favorisce il delitto. Il malintenzionato impara le più minute abitudini dell’innocente e in esse studia il varco millimetrico per sferrare l’attacco.

Il medesimo ragionamento spiega la scomparsa di Romina Del Gaudio, avvenuta nel giugno 2004. La ultime tre strofe della poesia sono una libera trascrizione delle parole di Grazia, madre di Romina. Nonostante il corpo della figlia fosse stato inequivocabilmente identificato attraverso l’esame del DNA, la madre Grazia aspettava che Romina si affacciasse dalla porta di casa cantando. Come tutti i giorni. Riportiamo, dal sito di Chi l’ha visto?, il 27 aprile 2011: “La signora Grazia Gallo, madre di Romina, alla vigilia della riesumazione dei resti attribuiti alla figlia per poterli sottoporre a un nuovo esame del DNA, ha ribadito che secondo lei quelle ossa erano in uno stato incompatibile con i 47 giorni trascorsi, anche tenendo conto dell’esposizione alle intemperie.”

Non avrai che la vita

In questo testo si allude all’assassinio di Simonetta Cesaroni (Via Poma, agosto 1990).

La sezione Pietà include casi di cronaca più recenti.

Lo splendore della vita reale in “Nuovi Argomenti” (2.9.16)

Adele Mongelli, cinquantunenne ed egregia madre di quattro figli, si separa dal marito per vivere l’amore con Giuseppe Demarinis, di ventisei anni più giovane di lei, che l’ha completamente conquistata. Con Giuseppe, Adele vive quell’assoluto che scavalca le inezie dei dati reali e impedisce di porsi domande banali, cioè ovvie e concrete. Dopo oltre due anni di passione, rivestendosi dopo l’amore, Giuseppe improvvisamente rivela alla donna di aver deciso di interrompere ogni rapporto con lei, perché sta per sposare una ragazza con la quale è unito da quattro anni, e della quale esibisce la foto. Adele supplica non mi lasciare. Giuseppe è irremovibile. La camera da letto è debolmente rischiarata dal lumino dello schermo televisivo. Dopo aver colpito Giuseppe con 38 coltellate, Adele lo sveste, lo stende sul letto, si sdraia e dorme l’intera notte accanto al corpo di lui, che consuma da solo la propria lunga agonia. Al risveglio, la donna prepara la colazione alla figlia più piccola e la manda a scuola. Tornata in camera da letto, Adele si accorge di aver ucciso l’amato e, in stato di totale incredulità, immediatamente si costituisce.

Roma, 13 aprile 2016

  una anticipazione in “Nuovi Argomenti” (Mondadori, 2005)
una anticipazione in “Almanacco dello Specchio” (Mondadori, 2006)
una anticipazione in “Levania” (10.12)

in Nuovi Argomenti (2.9.16)
su Nazione Indiana (5.10.16)
su Le parole e le cose (7.10.16) con un’immagine di Silvia Camporesi

parla Rosa Della Corte, incriminata dell’uccisione del fidanzato Salvatore Pollasto
(in Interno Poesia, 24.10.16)

per acquistare

formato Kindle

Maurizio Cucchi, “TuttoLibri” de “La Stampa” (7.1.17)

motivazione premio Giuseppe Dessì: Maria Grazia Calandrone affronta, con la raccolta Gli Scomparsi, quello che definisce il “museo dinamico dello schermo televisivo”, ovvero la popolare trasmissione che da anni, col titolo “Chi l’ha visto?”, ha un grande successo di pubblico – e si attira peraltro qualche critica tra snobismi intellettuli e fondate perplessità sul merito di questa caccia collettiva a vicende privatissime, il più delle volte tragiche. Ma la poetessa non ha nulla di intellettualistico, e lo dimostra la sua attività multiforme di “randagismo interiore”, dunque può non curarsene. Lo fa anzi, per sua dichiarazione esplicita, con quell’atteggiamento “sperimentale” con il quale tutti noi, “scimmia nuda che siamo”, avviciniamo le realtà più o meno virtuali.

A distanza di quasi un secolo, ripercorre così una sua personalissima Spoon River che non ha più nulla della cultura in cui è nata la celebre “antologia” di Lee Masters, che tanto peso ha avuto nella cultura italiana, anche in quella pop: salvo beninteso la persistenza materiale, inevitabile, dei dimenticati, dei perduti, il paradigma della compassione che s’innerva su vite spezzate o in fuga, quasi a consacrarle nella loro unicità, e in ciò che rimane: lacerti di un corpo senza vita, la risacca dell’estrema distruzione, dal “mero impasto di midolla” alla “radiazione nera sul suo corpo”, dalla “ecchimosi a forma di cuore e precipizio sulla fronte” a quell’estremo “quasi niente dell’acqua del canale / nessun cattivo pensiero / nessuna ironia / non una goccia d’acqua nei polmoni”. È molto, è poco? Maria Grazia Calandrone ha sempre praticato se non un azzeramento una sorta di riduzione ascetica dell’io, o meglio una sua dissoluzione non in un’idea di realtà ma proprio nell’impatto, emozionale e fisico con l’accadere nella sua presenza, in una sorta, come è stato a ragione osservato, di “adorante preghiera pagana”. Per lei, e per la sua poesia, e per noi che la leggiamo, è tutto.

Ma andrà sottolineato come i versi di questo libro vadano ben oltre un generico esercizio di pietà: la scomparsa diviene una sorta di condizione assoluta, forse metafisica, l’interrogativo che i vivi rivolgono a se stessi tramite i segni di una dissoluzione reale, inevitabile e al fondo ostinatamente muta, “perché l’amore imita l’amore e non la morte”. Il dialogo con “tutti i morti e tutti i vivi” è all’insegna di una compassione che si volge all’inevitabile, all’ormai immutabile, al “non potersi più correggere”. E allora è questione di parole, di metafore, nel caso della poetessa di aggettivi, che sono una delle sue caratteristiche di sempre: mai esornativi, sempre spiazzanti, assi portanti di una costruzione metaforica che s’innerva nel mistero della sincerità.

Raoul Bruni, NON-FICTION IN VERSI (“minima&moralia” 17.1.17)

Quella della narrativa non-fiction è ormai una categoria abusata (in troppi hanno cercato di ripetere il successo di Gomorra di Saviano, con esiti quasi sempre deludenti); molto più rara e originale è invece un tipo di poesia che rielabori letterariamente fatti di cronaca senza scadere nel linguaggio scialbo del giornalismo narrativo. Ma a quale tipo di cronaca attingere? Un’ottima intuizione l’ha avuta Maria Grazia Calandrone, che ha pubblicato la scorsa estate la plaquette Gli scomparsi: storie da “Chi l’ha visto” (Lieto Colle): da decenni la famosa trasmissione di Rai Tre, pur con inevitabili alti e bassi, ha saputo portare alla nostra attenzione piccole e grandi storie, che hanno alimentato il nostro immaginario come una segreta epica letteraria, e che si prestano bene a essere riraccontate in versi.

Rosa Pierno,Carte nel Ventoaprile 2018, anno XV, numero 39

La scelta di una scrittura del tutto libera, in cui predomina il verso libero, che si vuole accampare tra cronaca giudiziaria e racconto dalla diretta voce dei protagonisti dei terribili eventi è, in realtà, immediatamente ricondotta alla voce autoriale: il linguaggio subito ci indirizza verso un’esposizione a tratti filosofica o lirica che denuncia l’artificio della voce narrante, o meglio rende tale voce dichiaratamente ‘attoriale’. La volontà di comprendere, di spingersi negli oscuri meandri esistenti in ciascuno di noi, è il vero oggetto di questi testi: ecco perché ascoltiamo invero la sola voce della Calandrone senza interruzioni. Indossare abiti altrui non è tout-court il modo per essere l’altro, forse quello per rivivere le proprie paure o fascinazioni, per affrontare le angosce personali. Il teatro istituito dalla carta e dalla penna rende fluida la scrittura di quest’ultima prova, catturante, capace di restituire la dimensione della perdita e del riscatto, del lutto e della relazione affettiva e di porgere il messaggio di chi è andato e di chi resta. Eppure parola, quando troppo piena narra d’altro, non della morte, non di quelle esperienze necessariamente afasiche.

Gilda Policastro in “L’immaginazione” n. 303, gennaio-febbraio 2018 – «La storia degli scomparsi sta in un pugno di parole», scrive Calandrone in un verso della sua ultima raccolta: e in effetti è proprio ciò che accade nel libro, che raduna storie non immediatamente riconducibili ai casi raccontati dalla trasmissione cui si riferisce il sottotitolo, da quelli più eclatanti e intrecciati alla cronaca italiana degli ultimi trent’anni (Emanuela Orlandi, Mirella Gregori, Roberta Ragusa) a quelli ormai quasi dimenticati (Adele Mongelli, Romina Del Gaudio). Casi che diventano familiari agli spettatori televisivi, mentre qui i primi scomparsi sono proprio i nomi, col risalto che si dà ai singoli momenti pseudoepifanici, gli attimi prolungati in cui piuttosto che accadere qualcosa non accade e la percezione si nutre di aspettative disattese o di speranze ostinate. Momenti e vicende che, come peraltro ci autorizza a pensare la nota in calce, si riferiscono anche alla biografia dell’autrice, già depositata nell’asciutta e insieme accoratissima testimonianza di Vivavox (2011): non a caso in molti passaggi del testo degli Scomparsi ci parla un “io” (così come nel resoconto autobiografico parlava una terza persona, a mischiare le carte). E dunque di questi nuovi testi, alcuni piuttosto lunghi e dall’impianto prevalentemente narrativo o teatrale, altri brevi e fulminanti come la preghiera laica finale, le parole chiave, le parole realmente messe a tema, sono due o tre.

La prima è «cielo», presente quasi in ogni testo, spesso con più occorrenze: il cielo è «incorrotto», «definitivamente limpido», «sommerso», «discende» o più classicamente «si oscura »: si tratta di un elemento che in qualche modo chiude, invece di aprire, al paesaggio o all’ambiente naturale (che si riduce peraltro a pochi altri elementi: l’erba, l’acqua, il vento), creando la cornice intima della storia che di solito si ambienta in un interno (camere da letto, cucine). Cielo che è parte di un contesto in cui, come in altro libro recente di Calandrone, Serie fossile (2015), gli elementi naturali, entro un orizzonte simbolico, recano tracce, corrispondenze, affinità tangibili con le vicende umane. Alla natura si associano di preferenza i cicli, le ricorrenze e dunque le inevitabilità, la necessità: una di queste è l’«amore», seconda parola tematica. Se la natura interagisce con l’uomo, con le sue azioni e sparizioni, l’amore è quell’aspetto della realtà a cui chi scrive dedica lo sforzo icastico maggiore, in un’ottica che non teme di apparire sapienziale: l’amore «spinge a indagare – fa essere feroci», «imita l’amore, non la morte», induce a una «santa schiavitù», è «un comandamento». Un’altra parola chiave non ricorrente come le prime due ma dal valore simbolico altrettanto forte è «scimmia» (riutilizzata anche nella note in calce): creatura di partenza di un a ritroso evolutivo, la scimmia randagia dell’esordio di quest’autrice (2003) viene riqualificata dalla sua nudità primordiale e dal suo essere quintessenzialmente umana («una pena di scimmie abbandonate»), di quell’umanità che non fa piacere pensare come antenata remota figurarsi come il ritratto dei momenti in cui siamo, oggi, meno presentabili.

L’ultimo elemento ricorrente sono i numeri, le date apposte ad alcuni dei testi che dicono di un tempo ultradecennale (la più antica, 2004, la più recente, 2016), entro cui accadono due cose, fondamentalmente: la sparizione di qualcuno, azione puntuale di cui si recupera una condizione antecedente di imminenza o di preparazione, prima del dilatarsi nella domanda perpetua. E, appunto, la domanda dopo la sparizione, l’attesa delle madri o degli amanti degli scomparsi, che non è epica ma sente di quotidiano, dimmi cosa mangi, nel posto in cui ti trovi adesso. Il quotidiano che ritorna in assetto spettrale in una delle poche vicende (in)nominabili, quella di Adele Mongelli, che accoltella l’amante e gli dorme accanto, sbrigando le faccende consuete fino al momento di realizzare l’accaduto e costituirsi («i colpevoli meritano il rispetto della condanna», aveva detto lapidariamente in un testo precedente l’autrice). Infine, c’è una parola che ha una sola occorrenza ed è però un vero sintomo della poetica della sparizione come prova d’amore: sta a chi rimane resistere, e, se del caso, «perdonare». Il per-dono riporta così, paraetimologicamente, la sparizione a un’azione compiuta per e non contro qualcuno. Nel «pugno di parole» che raccontano la storia degli scomparsi, rimane quella più carica di senso e al contempo misteriosa, l’enigma che è poi la cifra esibita di questo lavoro sin dal giallo di soglia. Con un autore caro a Calandrone, Milo De Angelis, si potrebbe concludere che «la terra appartiene a chi l’ha abbandonata»: nella dialettica tra chi si sottrae stando vicinissimo e chi resta eternamente vivo e toccabile nella memoria, la storia degli scomparsi è perciò rifondazione di un contatto intimamente umano, preludio a una rinascita.

IAM Italia Art Magazine (9.8.16) Le Storie degli scomparsi raccontate da Maria Grazia Calandrone di Giovanni Manzo

Ascolta / come mi batte forte il tuo cuore, recita un verso della poetessa polacca Wislawa Szymborska e viene spontaneo ricordarlo dopo aver letto quest’ultima raccolta di poesia di Maria Grazia Calandrone, Gli Scomparsi – storie da Chi l’ha visto? […] Questo sentire profondamente le storie degli scomparsi rende questo libro della poetessa romana speciale. Non sono loro gli ultimi a parlare ma lei, la poetessa, con una parola sussurrata accanto che viene da lontano. Un tessuto di voci si muove, voci che hanno detto, dicono e diranno, pronti a parlare o a tacere, attraverso la sua voce o il suo silenzio

(5.8.16) Vita vera, realtà virtuale e realtà poetica nell’ultimo libro di Maria Grazia Calandrone
Maria Grazia Calandrone tra i poeti contemporanei è forse la più conosciuta al grande pubblico. Un libro, questo della Calandrone, che attinge dalla vita reale, ma è anche un libro che mantiene intatto il modo di fare poesia della poetessa. Da qui vita vera, realtà virtuale e realtà poetica diventano una cosa sola.

(4.8.16) Gli scomparsi nella nuova raccolta di poesie di Maria Grazia Calandrone
[…] se pure è risaputo che la Calandrone non ama “abitare” nella sua poesia è altrettanto vero che il tema degli scomparsi la riguarda. E alla luce di tutto ciò questo libro ha una forza misteriosa, occulta. La poesia inonda la pagina, qualcosa di lei ritorna nelle vicende altrui, solo apparentemente lontane.

Un libro di poesie sicuramente da leggere per conoscere meglio un’autrice di straordinario talento.

Il sogno di Orez (4.8.16) LA LOGICA MISTERIOSA DEI CONTRATTEMPI
Dopo più di  dodici anni di attesa esce finalmente con LietoColle “Gli Scomparsi” di Maria Grazia Calandrone
di Bonifacio Vincenzi

[…] Ora, dopo più di dodici anni di misteriose vicissitudini Gli scomparsi esce con LietoColle in una collana importante, la “Gialla Oro”, condivisa con un’istituzione altrettanto importante, Pordenonelegge. Chissà, questi contrattempi avevano una loro logica misteriosa che probabilmente capiremo meglio seguendo il percorso e il destino del libro nei prossimi mesi.

Al di là di questo richiamo profetico la sensazione di trovarsi davanti ad un libro importante appare già abbastanza evidente.

“Questo libro – scrive Maria Grazia Calandrone nella “nota dell’autrice” – è dedicato ad alcune vite incontrate grazie al museo dinamico dello schermo televisivo. Televisione, internet, realtà virtuale: mezzi nei confronti dei quali la scimmia nuda che siamo nutre sentimenti ancora sperimentali. Ma Chi l’ha visto? ha raggiunto la parte di me più profonda e più viva, ovvero la rabdomante della poesia nella faccia più cruda della realtà. (…)”

Non è mai un’operazione facile per un poeta, anche di grande talento, calarsi nella cruda realtà. Al di là della naturale disposizione alla poesia, delle capacità espressive e delle forze intuitive nello scegliere, utilizzare e collegare le conoscenze, ci vuole una buona dose di coraggio che alla Calandrone certo in questo caso non è mancata.

Leggendo queste sue poesie ci sembra di stare profondamente immersi nella realtà di alcune vicende che conosciamo bene. In una sorta di miracolo di stile la sua poesia scivola sulla pagina silenziosa e “crudele” come crudele è la realtà, la vita, il destino; come crudele e implacabile è il corso del tempo che tutto muta, logora e sospinge verso l’inevitabile scomparsa.

Chi l’ha visto? è, in un certo senso, una trasmissione che ci è cara perché illumina spesso gli ampi spazi dell’oblio lottando contro questa nostra disposizione, molto “aiutata” in questi ultimi anni, bisogna dirlo, da poteri forti e occulti, a lasciarci tutto alle spalle velocemente. Non è certo un’oscenità affermare che la memoria collettiva di anno in anno si accorci sempre di più. Ci avviamo a diventare in un tempo non molto lontano esseri senza più memoria.

Paradossalmente i famigliari degli scomparsi sono gli unici che vanno controcorrente. Vivono, infatti, in una condizione di costante attesa e gli anni che passano, fino a quando il nodo del dubbio non viene definitivamente sciolto, rimangono accesi e vivi alleati del presente …

Di mattina alle sette / già stavo al brefotrofio / e mi hanno detto Non ci pensare, non tornare più, l’hanno portata / via, né morta / né viva. Io / mi sono messa a sedere/ sulla panchina, non mi sono più mossa / per giorni. // Gli oggetti (maneggiati, amichevoli /volumi sotto sequestro) parlano / di lei sempre più solitaria e felice: lasciava / gli orti di guerra tenendo / davanti agli occhi / niente, solo la foto. (La rete con il peso del glicine e il vento)

La luce della poesia di Maria Grazia Calandrone illumina esseri e vicende, si fa tempo che si rinnova, si fa vita sulla pagina. Ciò che lascia è la traccia che uno sguardo, spesso solitario, sentirà il bisogno di seguire fino alla profondità del suo  essere.

gazzetta di Napoli (3.8.16) Le storie in versi da “Chi l’ha visto?” nel nuovo libro di Maria Grazia Calandrone

Quando si parla di Maria Grazia Calandrone bisogna stare molto attenti. C’è nella sua poesia qualcosa di profondamente suo che si muove in luoghi (o non luoghi) lasciando una traccia da seguire molto utile al lettore per ritrovare e riconoscere molto di se stesso. Senza ombra di dubbio la Calandrone è ormai da considerarsi una delle voci più autentiche della poesia italiana di questi ultimi anni.
E quest’ultima raccolta Gli Scomparsi – storie da Chi l’ha visto (LietoColle 2016, Collana Gialla oro) lo testimonia in modo particolare.
“Questo libro – spiega la Calandrone in una nota –  è dedicato ad alcune vite incontrate grazie al museo dinamico dello schermo televisivo. Televisione, internet, realtà virtuale: mezzi nei confronti dei quali la scimmia nuda che siamo nutre sentimenti ancora sperimentali.”
E proprio su questi sentimenti ancora sperimentali che la realtà levigata della sua poesia le permette di esplorare nuovi territori seguendo la mappa nuova, diversa. Un percorso difficile che le consente di sfuggire al cliché del verso facile, ad effetto, per scavare a mani nude sulla crosta dura di un inconscio che ancora detta legge, alleato perfetto del dolore e complice occulto della Poesia.

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