Giovenale Marco, Maniera nera (Aragno, 15)
Nella tecnica d’incisione della maniera nera si procede a rovescio: per levare, anziché aggiungendo segni. Il nero è prima e l’incisore toglie strato a strato, fino alle ombre liquide o al bianco. Una tecnica lenta e faticosa, per lasciare che l’immagine – o, meglio, il legame tra la figura, vista o immaginata, e l’immaginazione dell’artista – emerga dall’indistinto. L’esattezza degli incisori nel riprodurre ombre è il preludio della suprema forma barthesiana del già estinto, la fotografia. Come le parole dei poeti, sempre postume all’oggetto che dicono. Cosa rileva dunque – o immagina – il poeta Giovenale, che cosa chiede al buio? Maniera nera è un volume di legami segreti fondati nel bianco. L’idea del libro risale al 2006, anno nel quale Giovenale fonda, con altri (altra cifra della sua poetica è la partecipazione), il sito gammm.org, che si occupa di scritture di ricerca. Le parole emergono come le parti – anche interne, psichiche – lucidissime e protese di un corpo intuibile, sommerso – e questo le rende insostituibili, come insostituibili sono le interpunzioni che le legano e separano, i neologismi e la melancholica ironia. Di questo libro non potremmo cambiare una virgola: Maniera nera è un’architettura perfetta, la camera chiara della scomparsa di tanto Novecento. La fondamenta invisibile ne è infatti il Novecento privato e interno alla scrittura precedente di Giovenale che, scavalcandolo, lo scavalca, qui, anche a nome nostro. Ma non ne è ancora il monumento funebre, lo scatto fotografico (del quale Giovenale è anche esperto); ne è piuttosto il bilico, il filo dell’equilibrista teso tra l’archeologia di «un paesaggio di tracce delle tracce» verso l’«aperto labirinto» del futuro, al quale ci si orienta seguendo suoni e segni di parole come una «lettura della luce».
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