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Zattoni Matteo (9.16)

 Matteo Zattoni, Lo slancio dell’inizio
“Poesia” n. 318, settembre 2016

Lo slancio dell’inizio compone, riga su riga, una piccola epica privata, descrive da vicino il millimetrico eroismo di ragazzini nei banchi scolastici, quando la realtà è ancora una creta malleabile, perché le persone in sviluppo – e dunque i loro punti di vista – sono ancora materia cangiante: “Sarebbero trascorsi anni, sarebbero morti / e risorti. Cioè cambiati”. Il codice d’onore è però un punto fermo: ciascuno possiede la propria etica e la propria virtù, ciascuno è paragonabile a un eroe omerico: per fantasia, coraggio e impetuosa percezione del mondo. Gli adolescenti sono commoventi per lo slancio, che i più pudichi rivestono di apparente, smagato disincanto: se li guardiamo in trasparenza, vediamo il bambino accucciato dietro gli sguardi torvi; dentro quei corpi in crescita intuiamo il nucleo di eroismo infantile senza io né mondo, la “cavalleria piumata” di Zattoni, il residuo calante del vivere mitico e del pensare magico dei bambini.

Conservare quel mondo di bellezza e pluripotenzialità, pure nella coscienza analitica di quella che per convenzione abbiamo deciso di chiamare “realtà”, è una delle più grandi fatiche e dei più grandi doni che un essere umano possa fare a se stesso.

Lo slancio dell’inizio è dunque quello della preadolescenza che si muta in adolescenza, è l’ingombro del corpo che eccede e che cresce e crescendo si spacca, piega alla norma la sua esuberanza. Matteo Zattoni intercetta il principio di una metamorfosi, individua e inquadra, con i suoi versi piani e concreti, il momento dal quale si perderà progressivamente intemperanza e si guadagnerà in profondità e pazienza. Un momento che a volte non finisce mai, ma del quale viene qui identificato lo scricchiolio iniziale.

Lo ricordiamo tutti, quel passare dalla totipotenza infantile alla necessità di prendere una forma e una direzione. In ogni giorno della nostra vita, davanti a ognuno degli infiniti bivi quotidiani, noi scegliamo. Tra il bene e il male, tra un amore e un altro, tra un piatto di spaghetti e una frittata. Scegliamo di “cadere. Non decadere”. Perché, in ogni istante, la vita diventa, inesorabilmente, quel che si è fatto. Come scrive Szymborska: “qualunque cosa io faccia, / si muterà per sempre in ciò che ho fatto”.

Questo cammino irreversibile sulla retta del tempo fisico (almeno quello è certamente retto, salvo legittime divagazioni e inversioni amorose: si vede che sei felice, sembri ringiovanito di dieci anni!) indurrebbe a divenire naturalmente “infelicemente sterili / nella norma” e condurrebbe con inattesa facilità ad “abdicare / alla gioia”. Nel peggiore dei casi.

Ma il drago sulla schiena di un ragazzo che “ti affascinava più di tutta / la mitologia classica”, lo stereotipo della troppo amata che incrudelisce e irride, un suicidio abbozzato con pudicizia estrema, i pomeriggi nei quali le righe delle pagine e i vocabolari sono disposti ad arginare l’inquietudine, come anestetici e dighe contro l’ansia al cospetto del reale, tanto mobile e multiforme: sono questi gli scenari di vita in formazione che Zattoni presenta.

Istantanee, sferiche e perfette, mai slabbrate, irripetibili. E tridimensionali per profondità.

Leggendo la sequenza dei testi di Zattoni sembra di sfogliare un album di polaroid: si sente il tempo, si sente l’irripetibilità dell’istante, del fenomeno e dello scatto con il quale il fenomeno è stato fissato sulla carta sensibile, che in questo caso è quella tipografica. Ma l’effetto è quello di una serie di fotogrammi unici, come se il poeta fosse riuscito a racchiudere in una bolla di parole esatte alcune luccicanti schegge di tempo. Racchiudere, non rinchiudere, non imprigionare, perché la vita raccolta in queste pagine è comunque respirante, mobile, luminosa, di una sua luce remota, fioca come una lucciola, ma inequivocabilmente: viva.

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