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“Poesia” n. 319 (10.16) canti per i senza patria

in “Poesia” n. 319 – CANTI PER I SENZA PATRIA

queste mani tenevano la loro creatura sopra l’indifferenziato del mare
 
Secondo il più recente rilevamento sugli arrivi via mare in Europa, reso noto dall’Organizzazione internazionale delle migrazioni (Oim), il numero di rifugiati e migranti che, dall’inizio del 2016, ha attraversato il Mar Mediterraneo per sbarcare in Europa ha ormai raggiunto quota 288.005. Tra questi, 121.155 sono arrivati in Italia e circa 164.146 in Grecia. Il numero di morti e dispersi in mare è stimato in 3.171. I dati sono aggiornati al 4 settembre 2016.
Un poeta è profondamente coinvolto con le cose del mondo. Il suo compito è mantenere la memoria della comunità umana. Il suo compito è ricordare la grandezza possibile della nostra persona. “Quando entrano in gioco le pulsioni di auto-conservazione dell’io, il principio del piacere viene sostituito dal principio della realtà. Quest’ultimo […] mette in atto la temporanea sopportazione del dispiacere, come tappa nel lungo e contorto cammino verso il piacere.” (Freud) Il temporaneo dispiacere è vedere le cose come stanno, cioè che siamo creature sofferenti, crudeli e sole in misura variabile. Il massimo piacere, l’utopia del piacere, è la circolazione fluida dell’amore umano. Per ciò abbiamo inventato il paradiso.
Dato l’assunto che il poeta conservi in sé la memoria e lo slancio sufficienti per risuscitare anche negli animi più disillusi e oppressi il desiderio e il coraggio di sperare in una “comunità umana”, possiamo dire che la poesia risusciti l’utopia del piacere. E che, per ciò, sia la spina nel fianco, che ci ricorda come vorremmo che le cose fossero. Oltre il più quotidiano disincanto. Per ciò viene pensata tanto distante dalla faccenda umana: guardata con sospetto e rifiutata, perché riguarda il nostro sogno più alto e troppo pericolosamente amato, è il “seme fecondo e disperato” di De Angelis, incarna la nostra paura di illuderci come bambini. Per fortuna i poeti sono vivi, abitualmente adulti, e fanno le cose.
Questa excusatio non petita mi pare una premessa doverosa, che, mentre cerca di oltrepassarlo, documenta l’imbarazzo di chi scrive, di fronte ai risultati della crudeltà umana. Provo molto imbarazzo a fare poesia su tutte queste creature prese dal mare per colpa della parte peggiore dell’umanità, che è quella che osservo e ripudio. In primo luogo, dentro me stessa, quando la rintraccio: nella mia paura, nella mia volontà di prevalere, ma soprattutto nella mia indifferenza.
E allora, mi domando: dalle sponde di questo morto occidente, sotto la più leggibile paura, sale forse un rancore nostro, nei confronti di chi coltiva un sogno?
 
 
davanti al mare è questo orfanotrofio
senza utopia, la forza armata
 
di questa inespugnabile infelicità
che non ha più nessuno da aspettare
e invidia la vita
 
siamo noi gli ignavi, abbiamo vite
armate
per non riconoscere la nostra paura nella paura
degli altri, il nostro
respiro nel respiro
degli altri – il singolo respiro
nella massa di quel respiro umano che si gonfia e non basta
a fermare l’ondata
 
immagina che sia tua
la vita che chiede asilo
 
immaginiamo che sia nostra
la disperata utopia
di questo gigantesco
voler rinascere
 
immaginiamo siano i nostri corpi
questi corpi lasciati
a cadere nell’indifferenziato come orfani
 
l’assoluto abbandono della nascita di un orfano è senz’altro paragonabile all’abbandono nel quale è gettata ognuna di queste vite
che chiede di rinascere
 
quando sono i figli a morire, non esiste nemmeno la parola per dirlo. anche la liturgia, in quei rari, emblematici casi, si avvale di perifrasi : O Maria cum filio tuo mortuo…
 
biancore sovraumano di legno morto
– figlio mio
fatto di carne
umana
combustibile,
marcescibile
figlio mio
 
nel bruciare
del sale, riconosco il tuo odore di selva
e di laboratorio solare, quel profumo sensibile di pelle fresca e cotone
lavato – poi
per un attimo, riconosco lo sguardo dei tuoi occhi
che ho portato con me, in questa vita
che non arriva più
 
 
Roma, 24 giugno 2016

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