Istituto dei Ciechi (Milano, 28.3.17)
La parola “luce”
intervento per Letteralmente Festival all’Istituto dei Ciechi di Milano (28.3.17)
testi di Maria Grazia Calandrone tradotti in braille
la prima cosa che ho pensato, rispondendo alla provocazione delle parole di Goethe che mi è stata lanciata, è stata l’espressione di Freud in Introduzione allo studio della psicanalisi: “quando qualcuno parla fa più chiaro”
e Freud, come sappiamo, ha dedicato la sua vita allo studio e all’uso della chiarezza fatta attraverso le parole. tutta la psicanalisi ha origine da questa persuasione di chiarezza che si può fare grazie alle parole
ma le parole servono davvero a fare luce? credo di no, credo sempre più nei fatti
a meno che le parole non siano poesia!
allora si colmano di musica e di senso. la musica dà un senso ulteriore al senso delle parole. ma sono apparizioni momentanee
come scrive Jean-Luc Nancy, la poesia è l’irruzione dell’infinito nel nostro quotidiano
è eccessiva e scomoda, anche secondo Jeanette Winterson, che scrive della lingua dura della poesia:
“duro è il linguaggio della poesia. Ecco cosa ci offre la letteratura: una lingua che ha il potere di dire le cose come stanno. Non è un luogo dove nascondersi. È un luogo dove ritrovarsi”
nella storia della poesia che ci ha preceduti era tutto un imperversare di luce – in associazione al divino e all’amore – spesso mescolata al buio:
dal Notturno di Alcmane, pieno di pace naturale e di mostri immaginati “nel fondo cupo del mare” – da Jacopone da Todi (“amore, che dai luce ad omnia c’a luce”) e dal ragionamento di Cavalcanti – indagine su luce e scuritate – dell’amore come un’oscurità che viene da Marte, dunque Amore che è insieme Luce e Buio, perdita di sé – e la donna “fa tremar di chiaritate l’aere”, è luce in sé – ma luce che fa perdere il controllo
Quando l’amante perde il controllo e cade vittima della ferocia di Amore, assiste al crollo della propria integrità. Cavalcanti dà vita sulla pagina a una sorta di “teatro metafisico”, in cui recitano, personificati e astratti, gli «spiriti» (termine scientifico per indicare le diverse facoltà fisiche e psichiche dell’uomo) nei quali si è frantumata l’identità del poeta, la donna, e il tiranno Amore.
a Pasolini, che scrive Lo scandalo del contraddirmi, dialogo postumo con le ceneri di Gramsci, un legame che è anch’esso buio e luce insieme, la luce della storia che lo illumina, ma chiude amaramente con il verso “ma a che serve la luce?”. la stessa ambivalenza di Cavalcanti nei confronti del legame d’amore
Lo scandalo del contraddirmi
Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro te; con te nel cuore,
in luce, contro te nelle buie viscere;
[…] Ma come io possiedo la storia,
essa mi possiede; ne sono illuminato:
ma a che serve la luce?
dunque legami impastati entrambi di luce e buio
oppure, il Novecento ci lascia testi per così dire naturalistici: dal Posto di vacanza di Sereni, poemetto pieno della luce della foce – alle luci dell’alba livornese e alle marine aperte di Giorgio Caproni, alle luci del tramonto di Garcia Lorca – che non ha niente a che fare con il crepuscolarismo
nella poesia contemporanea, invece, la parola luce è usata con parsimonia, proprio per la sua evocazione spirituale
siamo e più che altro dobbiamo essere disincantati. siamo quelli che vengono dopo
stiamo cercando la nostra propria luce. che non può essere quella di Goethe, né – forse – quella della donna angelicata che porta alla divinità
solo Franco Buffoni ha intitolato un libro (che è lo sviluppo in prosa del suo Guerra, dedicato alla figura del padre) proprio con le parole di Goethe Più luce, padre – dove utilizza le parole di Goethe nella loro accezione illuminista – e conversa con il nipote Piero su Dio, guerra e omosessualità, secondo il modello di intellettuale ironico di Richard Rorty, un dialogo all’insegna della democrazia dialettica, in questo caso precisamente dialogante
e, fra gli stranieri, c’è Luce ovunque di Cees Nootebòom, poeta olandese uscito lo scorso anno per Einaudi – che, infatti, ha un raro e forte slancio verso l’eterno e l’infinito
ma che luce possiamo fare noi oggi? luce della ragione, luce dell’intelletto, tenendo alta la guardia delle parole?
la politica ha svuotato di senso le parole, le ha rese inaffidabili: ascoltiamo, leggiamo e siamo DIFFIDENTI
ma il nostro compito di poeti è ADOPERARE LE PAROLE COME PORTE DEL SENSO – ma non come cammino, bensì come INVASIONE come è appunto ben detto nel bellissimo libro di Jean-Luc Nancy La custodia del senso
POESIA COME IRRUZIONE DEL SENSO – CHE È UN ECCESSO DI “ESSERE” – CHE OGNI VOLTA RIPETE L’INFINITO
sembra che questi non siano tempi adatti allo spirito. ma forse sì
fare luce attraverso la parola non significa spiegare, significa SENTIRE E – SENTENDO – APRIRE VARCHI, accordare lo strumento della parola alla coscienza di sé
come dice Andrej Tarkovskij, il regista figlio del grande poeta Arsenji, in un bellissimo documentario di Donatella Baglivo: “la conoscenza ci distoglie dal senso della vita, perché andando in profondità perdiamo in ampiezza”
conoscere vuol dire, dunque, comprendere meno. anche nel senso di: includere meno cose, meno persone, meno oggetti, meno elementi naturali – nella propria visione
la luce illuminista che chiedeva Goethe agli inizi del 1800 ha dunque rivelato il suoi limite
natura, che è “la veste vivente della divinità”, come in Spinoza. “Come poeta, io sono politeista; come naturalista, io sono panteista; come essere morale, io sono teista; e ho bisogno, per esprimere il mio sentimento, di tutte queste forme.” Cristo: rivelazione divina del più alto principio della moralità
allora oggi dobbiamo recuperare la chiarezza dell’INTELLETTO D’AMORE del quale parla Dante nella Vita Nova e, nel Convivio, “amor che ne la mente mi ragiona”
cos’è questo intelletto d’amore?
un amore ormai emancipato dal suo oggetto:
si tratta precisamente di CONOSCERE ATTRAVERSO L’AMORE
Stefano Agosti: Dante prende nota sotto l’ispirazione di Amore che gli detta dentro, scrive sotto l’urgenza di una pulsione
conoscere l’altro e conoscere il mondo, accorgersi dell’esistenza di qualcosa fuori di noi. amare un altro significa accorgersi che esiste e, come scriveva Simone Weil, accorgersi che un altro esiste ed è diverso da noi è la cosa più difficile e ardua (“Nessuno ha amore più grande di colui che sa rispettare la libertà dell’altro”)
ma l’altro ci restituisce il dono, perché L’ALTRO È L’INIZIO DEL MONDO
amando un altro e, dunque, lavorando ad accorgerci che un altro esiste, pian piano ci accorgiamo che anche il mondo esiste, che tutto il mondo esiste
non trovo altra strada, per la nostra contemporaneità, che non sia questo “intelletto d’amore” – che diventa apertura e accoglienza. nei fatti, sto parlando di fatti. perché le parole della poesia sono sentimenti e dunque sono FATTI
fu Lucrezio (I sec. a.C.) a paragonare i mattoncini che compongono le cose alle lettere che compongono le parole. poesia dunque come cosa concreta, che può condurci per mano verso questa memoria collettiva, che è il senso della collettività umana
preparare i ragazzi attraverso la poesia significa preparare il futuro del nostro paese a conoscere se stesso attraverso il sentire: la poesia è la strada maestra per sorprendere noi stessi conoscendo i nostri sentimenti meno ovvi, fino a scoprire il seme della nostra irripetibile persona – per poi scoprire gli altri e il mondo fuori di noi
questa conoscenza di sé è indispensabile a essere creature – e dunque amanti, genitori, figli, lavoratori, cittadini – responsabili
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