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Kavafis, Konstantinos (AlfaDomenica, 1.11.15)

Passano le navi di Kavafis (AlfaDomenica, libri 1.11.2015)

La poesia di Kavafis è poesia della contraddizione: del desiderio e del disincanto, cioè parola che in sé fa deflagrare gli opposti. Dice di storia minima, come spiega bene il traduttore Nicola Crocetti, nella sua splendida, concreta e onesta introduzione, che rende conto degli onori e delle detrazioni che nel tempo sono cadute sulla poesia di Kavafis, creatura dalla vita anonima, che pare non esistere al di fuori della propria parola, come uno qualunque dei protagonisti della sua stessa poesia, che celebra meschinità e grandezze di personaggi minori.

A Nicola Crocetti va riconosciuto il coraggio di aver ridato voce italiana alla voce di Kavafis, mezzo secolo dopo la mirabile traduzione di Filippo Maria Pontani. Ha potuto osarlo, perché Crocetti ha onorato le proprie ascendenze materne, appunto greche, attraverso decenni di pubblicazioni di letteratura greca contemporanea. E ha dedicato la propria vita alla poesia degli altri. Queste due specie parallele di fedeltà, hanno ottenuto come risultato la cura onesta e calorosa delle parole del poeta, qui tradotto per Einaudi. L’ironia e la dignità del traduttore si fondono in potente simbiosi all’ironia e alla dignità del poeta tradotto, che mai, pure nella disperazione, si lascia andare al patetico lagno dei malati d’amore e desiderio. Forse per ciò Kavafis è il poeta del Novecento più tradotto nel mondo (perfino in lingua maori!), perché affronta il suo mal d’amore e la propria disillusione con ironia e nitore. E anche perché, come afferma lo stesso Crocetti, “amici e ammiratori, come E. M. Forster, C. M. Bowra, W. H. Auden, hanno concorso a far conoscere Kavafis nel mondo anglosassone, l’unico che veramente conti ai fini della diffusione planetaria di un nome, di una figura, di un’opera.”

La poesia di Kavafis appare tutta popolata di adolescenti e ragazzi bellissimi, dalle chiome scomposte e profumate, dai corpi che hanno aromi di gelsomino. La sua parola coincide spesso con la memoria di corpi, mancati o perduti, che tornano carne e sangue grazie alla voce, che sgorga copiosa.

Benché il poeta ricordi spesso il giudizio morale contemporaneo sulla propria tensione desiderante, sugli amori omoerotici “che la morale odierna chiama osceni”, rivendica anche le “poesie sul piacere esclusivo, orientato / verso amori sterili che il mondo disapprova”, magari consumati solo in sogno, o da febbri che al pervasivo demone amoroso non importa se siano o meno letali.

E dice degli inganni della passione, che non ci fa sentire estraneo chi in effetti lo è. I falsi piani dell’affettività umana, come le commoventi pietre false dell’incoronazione di Giovanni e Irene, preludono – ma, nella cronologia biografica, seguono – all’esplicita Fiori finti, dove i fiori di smalto e metallo hanno la qualità d’essere incorruttibili, dunque sono indiretta invocazione all’immortalità. Sguscia infatti, trasversalmente al libro, una insofferenza dolorosa contro l’invecchiamento di questo corpo vivo e desiderante. Ma anche questa, come ogni altra disperazione, è corporale e storica, non cede mai alla lamentazione querula e sentimentale: ogni parola riporta in pagina l’atmosfera e i colori di una classicità appena rinnovata dalla determinazione di luoghi e oggetti estranei al mondo dell’antica Grecia – ma il presente appare come traslucido, incastonato in temi e modi della cultura che lo ha preceduto e che il poeta sente più reale del reale.

E intanto Kavafis esce sempre più allo scoperto, è sempre più chiaro, la sua scrittura si fa più esperta, spiccia e sicura di sé – non perché abbia la cura stilistica di evitare se stessa e le proprie sovraesposte enfasi iniziali, come sostiene Kutsurelis, ma perché ogni scrittura inevitabilmente si asciuga insieme all’organismo che la scrive e alla biografia che la produce e, intanto, fa esperienza del mondo, ne decifra sempre più profondamente la fenomenologia. Kavafis agisce sotto gli occhi dei suoi lettori una sorta di ininterrotto allenamento al realismo, ma il suo è un atteggiamento psicologico e umano, non un esercizio di stile.

Egli non smette infatti di interrogarsi intorno al valore della parola poetica: consolazione nell’esilio, contraddizione in tempo di guerra – ma contraddizione necessaria e implacabile: “in tutto quel tumulto, in quel disastro, / l’idea poetica insiste ad affacciarsi” – e anche parola originata dal contatto “illecito” dei corpi – e poi strumento che, provvisoriamente e come può, “con Fantasia e Parole”, lenisce la ferita dell’invecchiare. In una delle Poesie nascoste del 1891, aveva scritto con parole esplicite: “Non credete solo a ciò che vedete. / È più acuto lo sguardo dei poeti. / È un giardino di casa per loro la natura” – e ancora, nel 1897: “Io non sono incluso / nel totale. Questa gioia mi basta per sé sola.” Sopra tutte, sul tema, vogliamo ricordare la bellissima metafora prosaica della creatività Le navi, dove è scritto: “Un’altra cosa è doppiamente triste. Ed è quando passano certe navi enormi, con ornamenti di corallo e alberature d’ebano, con grandi vessilli bianchi e rossi spiegati al vento, ricolme di tesori, le quali neppure si avvicinano al porto, vuoi perché tutte le merci che trasportano sono vietate, vuoi perché il porto non è abbastanza profondo per accoglierle.” La superficialità del mondo, che non è vasto abbastanza da accogliere la visione dei poeti, viene cantata in ogni luogo del libro, ovunque Kavafis si occupi della gestione della cosa pubblica, amareggiato e amaro, disgustato dai giochi di potere della storia maggiore, fatta di intrighi e di omicidio, di morti ingiuste e verità e dolori inconfessabili. La contraddizione tra lo slancio interiore del poeta e la realtà, che ben vede e denuncia, è feroce. E allora, “se mai un giorno accadrà – mentre sediamo pigramente a guardare la luce o ad ascoltare il silenzio – che per avventura ci tornino all’udito della mente alcune strofe entusiasmanti, non le riconosciamo a tutta prima, e tormentiamo la memoria per ricordare dove le abbiamo già udite. Dopo grandi sforzi, l’antico ricordo si ridesta, e rammentiamo che queste sono le strofe del canto che salmodiavano i marinai, belli come gli eroi dell’Iliade, quando passavano le grandi, magnifiche navi, e proseguivano verso… chissà dove.” Questa è la voce che i poeti abitano, scrive Kavafis, e che il mondo pare essere troppo angusto per contenere. È un tema che lo ossessiona fin dalla giovinezza: comincia con il dialogo del 1886 tra il poeta e la musa che lo conforta, passandogli per vero il mondo di gioia e amore che egli canta, perché è così che sente, nonostante la sfera della terra sia “infida, fredda e oscura”. E allora “quanto mondo resterà / perduto dentro di te”, calamaio. Quando il poeta sarà andato via.

Dunque questo di Kavafis è anche, fortemente e soprattutto, un libro di perdita: di occasioni amorose, sfuggite a causa di pregiudizi o di altrui disamore, è lo stesso – e di parole che rimarranno chiuse nei calamai o portate lontano da fantastiche navi che abbiamo solo intravisto passare, senza coglierne musica e senso, se non forse – chissà se, dove e quando – a distanza di anni. Ogni parola di poeta è una consegna al futuro. E la fortuna di Kavafis nel mondo e nel tempo sta a confermarlo, secondando quanto scritto da lui stesso in una sua speranza – o profezia, Il Reggimento del Piacere: “Quando il tuo funerale passerà, le Forme create dai tuoi desideri getteranno sul tuo feretro rose bianche e gigli”.

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