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Sebaste Beppe, Come un cinghiale in una macchia d’inchiostro (Aragno, 18)

La poesia di Beppe Sebaste è una sorpresa, di quelle che illuminano l’oggetto che contraddicono. In questo caso l’oggetto è il mondo: lo sguardo del poeta mette alla prova l’esistenza del mondo, ma, così facendo, anziché renderlo indistinto, lo amplia, mette a fuoco una zona invisibile che percepiamo, senza (fortunatamente) mai riuscire a pronunciarla definitivamente. Eppure, all’apparenza Sebaste raccoglie tracce di esistenze tridimensionali, annota bozzetti di vita quotidiana, l’occhio inquadra dettagli e panoramiche, spesso con documentazioni da manuale naturalistico e con obiettiva pazienza fotografica. Nonostante questa meticolosa accumulazione di “realtà”, l’esistenza del mondo viene deposta in un bagno bianco di silenzio, è circonfusa di una luce remota. Il segreto della prevalenza dell’invisibile, della morbida traslazione del mondo verso il bianco traslucido, è spiegata in parte nei versi riportati in copertina: la poesia “parla con / è parte della cosa di cui parla”: come dire che la poesia è nelle cose e compito del poeta è rivelarla, indicare la vena d’acqua sorgiva dentro e intorno all’oggetto nominato, “lo shining delle cose al loro posto”. Ma c’è di più: c’è che il mondo, a guardarlo da molto vicino, si scioglie come neve e noi naufraghiamo nella sua nostalgia. E allora, quella di Sebaste è poesia che cerca e crea legami, che racconta una vita (la vita) in maniera affettuosa e affettiva, è occasione di vicinanza tra naufraghi, che riescono a cantare insieme una commossa lauda all’esistenza mentre fanno politica o l’amore, perché còlti da un improvviso splendore – e soprattutto perché “niente è più intatto di una rovina” e anche questi versi sono frammenti, emersioni di senso che sporgono da un’acqua profonda e, attratti l’uno verso l’altro dal filo ininterrotto del libro, formano una delle possibili figure del mondo che cerca il mondo vero.

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