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Giovenale Marco, Quasi tutti (CorSera, 14.9.18)

I frammenti di realtà caotici e creativi di Giovenale

Quasi tutti è un libro toccante e traboccante, nel quale sono compressi frammenti di senso dal concentratissimo peso specifico, aggregati apparentemente a caso intorno a un nucleo occasionale, non ricomposti. Quasi tutti riproduce la casualità caotica del nostro tempo: le frasi sembrano schegge di supernovae, riagglomerate dal caso in elenchi numerati. Altrove, in rettangoli lacerati di prose, spesso brevi come le strisce di lino di un sudario.

Quale corpo contengono queste frasi? Chi è morto?

Il tempo, io credo: Marco Giovenale ha la forza di sostenere i frammenti del contemporaneo senza la bussola della propria voce (per quanto possibile a un autore). Addirittura senza la bussola di nessun’altra poesia se non quella del reale.

Il ritmo è però inevitabile, ed è quello dell’ansia, del respiro spezzato, è il respiro severamente affannoso del nostro pensiero e del nostro tempo, intendendo qui con “nostro tempo” il tempo biologico delle nostre singole vite, di noi tutti davanti a uno schermo; intendendo il naufragio di ciascuno di noi dentro le ondate iridescenti di informazioni per lo più inutili, che buttano dallo schermo il vociare inumano della rete, il brusìo incessante e brulicante che erode la nostra capacità di attenzione: la poesia di Quasi tutti è sostenuta paradossalmente dall’ansia, segue le virate impreviste e improvvise della nostra attenzione compromessa, deconcentrata e decentrata, interrotta.

Quella di Giovenale è un’immersione weiliana (a maniche rimboccate, operaia) nella società, dalla quale sembra trarre anch’egli la conclusione di Simon Weil sulla necessità dell’attenzione. Questo, io credo, il senso della sequenza mimetica di informazioni con le quali Giovenale ci bombarda, simulando la nostra vita reale di internauti. La successione delle frasi non è qui ovviamente casuale come quella del web, bensì mirata, scelta affinché sia deflagrante perché carica di intelligenza. Così, il corale ironico, lacero e stonato dei molteplici sensi dissonanti, messi gli uni così vicini agli altri da sovrapporsi, scatena inevitabili reazioni chimiche, come scrive Zublena nella sua lucidissima, preziosa nota – ma può fare soprattutto da specchio al nostro vivo disorientamento, condizione talmente permanente nelle nostre vite che l’abbiamo dimenticata. Messi a contatto col caos, finiamo per non prestare attenzione alla nostra stessa disattenzione.

Ma Quasi tutti sciorina sotto i nostri occhi le strisce del sudario del nostro tempo. È un libro malinconico, politico, spesso addolorato, che mette in scena la solitudine stratificata della quale non ci rendiamo conto e la distrazione della quale siamo vittime e attori, pena l’esclusione dalla realtà. O meglio, dalla sua deriva virtuale.

Naturalmente il gesto di assumere in poesia la realtà verbale scoordinata, sconnessa, frammentaria e accatastata del web – o meglio, di permettere che anche la (propria) poesia (un tempo abitazione de l'”etterno”) venga trasfigurata dalla realtà del web, è gesto che consegue a una decisione politica: se la forma “eterna” si lascia modificare dai vettori incrociati della disattenzione, dichiara senza neanche doverlo dire la nostra perdita di eternità. Senza rimpianto, ma con un filo di malinconia.

Lo struggente accumulo di disparati (e disperati) frammenti di Marco Giovenale è così suggestivo e ci riguarda tanto da vicino da essere stato molto riutilizzato, sia da chi l’ha rielaborato in una propria forma narrativa fredda, o freddamente iterativa, sia da chi ha semplicemente copiato la procedura, che fu già dantesca, dell’eavesdropping, ovvero la trascrizione di frammenti di discorsi ascoltati nella vita di tutti i giorni, componendo un intero libro con materiali che a Giovenale sarebbero appena sufficienti per l’implosione di una sola delle sue perturbanti pagine.   

Questo per dire che l’intelligenza alla guida del libro è irriproducibile. Questo per dire che l’intelligenza di Giovenale è uno stile.

La domanda che facciamo alla fine è se questa sia ancora, o voglia ancora essere, poesia.

La mia risposta è: certamente sì, perché uno dei compiti della poesia è documentare parole e modi del proprio presente e Quasi tutti è evidentemente marchiato dal non-tempo che l’ha prodotto, senza però esserne un prodotto acritico, ma quasi archetipico. I frammenti deposti sulla pagina come in un luogo ancora protetto (o già la camera rettangolare di un museo), gli stracci verbali abbandonati, che hanno ricevuto l’onore di venire annodati (per preparare una via di fuga?) sulla pagina da Giovenale, sono strumenti antichi, ossa, relitti, oggetti del lavoro di una specie, la nostra, funi di stracci lasciate in bella mostra per gli archeologi del futuro, a testimoniare di un tempo che ci ha fatto paura.

Le cose sono solo come sono. Le cose sono sole, è così che le vediamo in queste pagine: cose e parole sole. Elenchi di reperti. La descrizione dei reperti-oggetti e delle relative parole non è distaccata né moralistica, tanto meno irridente o arrogante. L’ironia che a tratti emerge è l’ironia stessa delle cose e dei fatti, come annota ancora l’ottimo Zublena: Giovenale è consapevole di essere immerso nel flusso ininterrotto di informazioni interrotte che descrive. Ma assume il ruolo di testimone critico, non si lascia travolgere del tutto. Il giudizio è lasciato però nelle cose e il gesto autoriale sta nel portarle semplicemente sotto la luce bianca del faro museale. Uomo tra gli uomini del suo tempo, Giovenale raccoglie senza catalogare, non resiste alla realtà, ma ne asseconda e riproduce il caos affinché, lasciata a sé stessa, parli amaramente di sé con le sue stesse parole e scopra in questo specchio, forse, una goccia del proprio antiveleno.

Marco Giovenale, Quasi tutti, Miraggi Edizioni 2018

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