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Pagliarani Elio – Premio Pagliarani 2018

Teatro Valle, Roma, 5 novembre 2018 – foto Dino Ignani

Siamo di nuovo qui a festeggiare la poesia, nel nome di Elio Pagliarani.

E fare riferimento a Elio Pagliarani significa fare riferimento a un metallurgico della parola, a un poeta che ha messo in opera sul proprio banco di lavoro un contatto elettrico profondo tra poesia e realtà, tra poesia e politica.

Immagino un operaio saldatore, un metalmeccanico che metta vicini due grandi tavole di metallo per farne una, che chiamerà poesia.

Le due tavole fanno scintille, mentre fondono. Si ribellano, si oppongono, fanno i capricci. Perché la fusione indebolisce i legami della materia e la materia ha voglia di restare sé stessa, di restare compatta. La realtà vuole restare realtà, reagisce male al dubbio, preferisce restare insondata e fluire non vista, abitudinaria.  

E ugualmente si comporta la poesia, abituata com’è a venire irreggimentata in regole e statuti che resistono paradossalmente alla libertà, anche a quella di reinventare tutto, inclusi sé stessi e la propria lingua.

Pagliarani però non è uno scrittore solo, ma è da solo una moltitudine di stili, crisi, attriti e invenzioni. Dunque deve sprigionare da sé una temperatura altissima, trovare in sé, nel proprio sguardo sulle cose, il calor bianco che convinca la materia – la tavola della poesia e la tavola della realtà – a unirsi, a venire compresa, per trasformarsi ogni volta in nuova poesia: di lavoro, di mercemondo, del mercimonio quotidiano che ci lascia a stillare fuori di noi, d’amore e malinconia.

E il calor bianco è senza dubbio la «pietà oggettiva» della quale abbiamo parlato lo scorso anno, è quella che possiamo chiamare “intelligenza dell’altro”, il desiderio di comprendere gli altri fino a permettersi di dar loro voce, fino a diventare un «io condiviso», per dirla con Ballerini: un “corale”, insomma, alla prima persona singolare. Una scrittura “egopolifonica”, se così possiamo dire.

Ma è anche – e mai come oggi è necessario indicarlo – il calor bianco dell’opposizione. Fare opposizione non significa solo fare muro, significa gettare sabbia nell’occhio fisso dell’ovvio, insinuare il deragliamento di un dubbio sul binario della convenzione, arrestare uno scivolone con la forza di muscoli intelligenti, spesso semplicemente descrivendo fatti, cose, storie che non sono più innocenti, sono tutte macchiate e corrose d’ingiustizia e solitudine.

La Presidente del premio, Cetta Petrollo Pagliarani, che tra poco ci raggiungerà su questo palco, vi parlerà del permanente stato di opposizione della poesia e delle persona di Elio Pagliarani. Poesia e persona.

In questo momento storico e politico, essere all’opposizione significa anche fare quello che stiamo facendo, continuare a impiegare le nostre intelligenze per cercare di interpretare la realtà e per parlare alla realtà. Fare attrito. Non battere i piedi come i bambini. Non impuntarci come i muli. Non piegarci al linguaggio dell’avversario, ma continuare a indagare la vita e indicare quelle che secondo noi sono le scaglie di bellezza e intelligenza che insistono a durare.

Non è infatti vero che in Italia siamo tutti malati di paura, indifferenza e rancore o, dall’altro canto, disillusi o sconfortati, sopraffatti dal senso d’impotenza. Andrea Costa di «Baobab Experience» (la Ong che si occupa di assistenza ai migranti, data la totale assenza – anzi, ormai l’esplicita ostilità – dello Stato), scrive che «da quando è entrato in carica il nuovo governo, è aumentato il numero di volontari e anche quello delle donazioni».

Elio Pagliarani sarebbe senza dubbio stato per l’accoglienza e per la partecipazione attiva. In cosa consiste, infatti, il gesto di “opporsi”, all’interno dei versi di Pagliarani?

Si “oppone” il ragazzo di 17 anni che si mette a correre «come un matto» per sfuggire ai coetanei tedeschi, si “oppone” la ragazza Carla che, pur senza fantasia si «accarezza tutta», per fare una specie di inventario di sé stessa, si “oppone” la madre in Fecaloro «che in cinquant’anni che apparecchia la tavola / non l’apparecchia in ordine, negando l’abitudine», si “oppongono” pure le parole di fiducia degli Epigrammi ferraresi, contente di irritare.

Dunque “opposizione” è fuga, inventario di sé, meraviglia continua, negazione dell’ordine.

Ma è, soprattutto, fiducia nel fatto di avere un “dovere”, come è scritto nel frammento finale della Ballata di Rudi

«Ma dobbiamo continuare / come se / non avesse senso pensare / che s’appassisca il mare».

Cioè dobbiamo fare i finti tonti, gli idioti dostoevskiani, dobbiamo fare come il culo degli Epigrammi luterani:

«Contro le tradizioni umane non conosco esempio migliore del culo; non si lascia stringere, vuol farla da padrone e basta».

Ma perché dobbiamo «continuare», perché dobbiamo opporci, pure se «siamo in troppi a farmi schifo», chi ci obbliga? La risposta, a mio parere, è soffiata come una polvere – non d’oro, naturalmente, ma di ferroacciaio – sull’intero organismo della poesia di Pagliarani, e ne costituisce il tono e insieme l’ossatura, ed è il valore etico, che viene manifestato, oltre che dal contenuto, anche dal tono di un corpo poetico che non “dimostra” ma “mostra”, che procede per inciampi, tentativi ed errori, accompagnando molto da vicino, quasi da lettore, il cammino del proprio lettore.

Chi legge la poesia di Pagliarani può comprendere pienamente e in profondità pensieri e sentimenti di chi l’ha scritta, tanto sono chiari, onesti e ben meditati, può ripensare i ripensamenti e le contraddizioni dell’autore e dunque sentirsi a propria volta compreso e a propria volta capace di continuare.

Il lettore di Elio Pagliarani viene incoraggiato a «continuare» dalla mano di Elio Pagliarani, che sembra scrivere sempre accanto a noi, a un passo da noi, così vicina.

 

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