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Un altro mondo, lo stesso mondo (Aragno 2019)

Una riscrittura del Fanciullino di Giovanni Pascoli

Premio Speciale della Giuria del Premio Letterario Internazionale Carlo Bo-Giovanni Descalzo 2019 per Saggio critico letterario sulla poesia del Novecento

 quarta di copertina di Andrea Cortellessa:

[…] A una poesia per adulti, che oggi si rivendica, sin dall’inizio lei ha contrapposto una poesia adulta che si rivolge alla nostra infanzia perenne, al nostro «luminoso stupore».

L’ingombro dell’innocenza

Prendi un bambino. Mettilo seduto davanti a te.

Chiedigli di abbandonare il suo piccolo gruzzolo di scienza.

Pretendi la sua «antica serena maraviglia», che puoi tradurgli in «innocenza».

Chiedigli di stupirsi mentre lo osservi, al nobile scopo di annettere la sua beatitudine al sereno stupore degli avi.

Per questo primo esperimento, prescindi dal tempo storico, dove il nostro bambino contemporaneo figurerebbe come postremo e biodegradato affluente della ricca specie dei maraviglianti che, all’alba del mondo moderno, sfasciava a pallonate i vetri delle case. Le scaglie di quei vetri rilucevano sotto i tappeti a distanza di mesi, rifrangendo i gesti di stizza e le variegate invettive delle massaie. Nessuna prevenzione antinfortunistica (ma li mortacci vostra, me so’ sgarata ‘n dito!). Nessun parafulmine contro le maledizioni scagliate a fior di labbra (ve mannerebbi ar gabbio, a te e a la beduina che t’ha mess’ar monno!). La schiamazzante, scimmiesca, anarchica specie infantile fu infine emarginata dai cortili condominiali e messa in condizione di non infrangere. Sollievo generale. Percepito innalzamento dei livelli di razionalità sociale.

Ma tu ignora il presente. E pretendi da lui la sua innocenza.

Come suona perversa, quest’ultima frase!

E come ti rivela la tua stessa contaminazione!

Con automatismo pavloviano, pensi alla metafora sessuale intorno all’innocenza – e al delitto ai danni della stessa. Sei imbibito dalla coscienza di azioni criminose portate a danno dell’infanzia. Riprova.

Chiedi a lui bambino di essere innocente, innocente in sé, senza darti nulla, né conto di nulla. Tu, semplice spettatore della sua maraviglia. Chiedigli di dimenticarsi di te, di non sapere.

Il bambino dà segni d’impazienza, non capisce che vuoi, nasconde le mani sotto il cavo delle ginocchia, sbuffa educatamente, dondola i piedi, cerca con gli occhi il conforto di una simulazione controllabile della realtà: uno smartphone, una play, una qualunque teca bidimensionale, un sarcofago pieno di estinti che saltuariamente riviviscono. In Occidente. Altrimenti: polvere, terra battuta, estinzioni protratte per tutto il tempo a oggi umanamente misurabile. 

[…]

Poesia: l’anarchica fiducia di essere nel discorso

Mi piace partire dai fenomeni, per comprendere. Se voltiamo la testa per osservare la storia della poesia fino al tempo che ci ha immediatamente preceduti, intravvediamo poeti fabbricatori battere i pugni sul banco sociale, prendere la parola a nome di altri, lavorare febbrili, mossi dal desiderio di restituire voce ai “senza voce” scrivendo versi critici, incendiari, civili – allegorici o testimoniali che siano.

La letteratura contemporanea, ove si ponga a specchio della dominante sociale più amara, sospetta invece della possibilità stessa di identificazione, di estensione dello sguardo fuori di sé, sorride disincantata o addirittura imbraccia il fucile, se tra i versi di un altro vede sventolare il vessillo romantico della compassione. Il problema sociale e l’inconscio collettivo social (che non è il «reale», ovvero «ciò che resiste al potere dell’interpretazione» secondo la definizione di Jacques Lacan, ma una porzione sperimentale di «realtà», un continuo test sulla «realtà» possibile, un incessante e capillare sondaggio sul limite verso il quale la psicologia delle masse può essere spinta) esistono prima che la letteratura li intercetti: abitiamo una collettività frammentaria, apparente e occasionale, priva di senso della comunità e di coscienza di classe. Precari, oppressi dal disordine del lavoro o dalla sua disperata ricerca, non abbiamo tempo per estroflettere l’intelligenza, né per lasciarla sprofondare nei brucianti sconfinamenti della materia umana allo stato libero.

Abbiamo subìto il furto primario del tempo e, dunque, della solitudine.

La solitudine della conoscenza è adesso la solitudine degli orfani.

Essere orfani della conoscenza vuol dire essere orfani del mondo.

Il potere – come il potere usa fare, fin dal remoto divide et impera – ha seminato paura e diffidenza lungo gli anni, in una capillare opera di destabilizzazione ha ancora una volta inventato e propagandato nemici immaginari, affinché il popolo spaventato abdicasse all’autodeterminazione e si lasciasse rincuorare dall’immaginario di un capo che riempie di sé la lacuna di un principio “paterno e patriottico”, dove legge e violenza combaciano fino a coincidere. Un popolo spaventato e senza immaginazione è funzionale al potere. Il Priapo gaddiano insegna che il nostro è un popolo cui piace essere battuto.

Ma dove sono i poeti? Come scrive Bertolt Brecht «non si dirà: i tempi erano bui / ma: perché i loro poeti hanno taciuto?». Compito dei poeti è solo quello di descrivere le cose come sono? O non è anche necessario al mondo che essi, pur chiarovedenti e antivedenti, generino però anche utopie, insistano a posare sulle abitudini della maggioranza uno sguardo eversivo e non convenzionale, allo scopo di seminare dubbi? Dove sono le prime scintille di un incendio, che si producono accostando blocchi fino a quel momento estranei di conoscenza?

Le neuroscienze documentano che l’uso continuo di parole modifica la materia fisica del nostro cervello, mutando le connessioni neuronali. Ma l’umore sociale sembra aver contagiato i poeti, e questo è ovvio, poiché essi sono anche testimoni del proprio tempo. Ma possono davvero limitarsi a questo? Non è forse l’emissione del canto fuori-tempo-e-luogo, la saggia bestialità che Pascoli colloca a scossoni nelle pliche vocali del fanciullino, a risuonare più in profondità nell’umano? Se riduciamo la poesia a un affilato copiaincolla della cosidetta «realtà», ovvero della catena ininterrotta di formalità fabbricata per distrarci dall’ansia della morte, che finisce però per avvolgerci come la spira di un serpente e allontanarci dal vuoto (libero) che siamo, se facciamo anche della poesia un calco del meccanismo inceppato delle relazioni, temo che essa non risulti “utile” a nessuno e niente. Dovere dei poeti credo sia tenere il radar puntato alle «somiglianze», non alle mode. Se i poeti restano avvitati e avvinti alla propria esclusiva, elitaria identità, la loro parola avrà sempre meno forza rivoluzionaria. Premuti dalla pressa della «realtà» (che, naturalmente, non esiste) e dall’illusione dell’identità (che, naturalmente, è fluida e cangiante), i poeti non aggiungeranno una parola alla parola sociale già detta, i loro versi non ubriacheranno neanche loro stessi. La poesia che parla del mondo, paradossalmente non riguarda più il mondo.

A mio parere, il mandato sociale del poeta è quello di esercitare un’identità fluida, così da consuonare col trauma altrui e con le altrui gioie e glorie; il suo ruolo è lavorare per la comunità, contro lo schiacciamento dell’immaginazione e dell’identità sul falso piano della «realtà», ora contro l’attuale dominante politica di parlare per sé. «Se ho scritto è per pensiero / perché ero in pensiero per la vita», dichiara Antonella Anedda.

Adeguare la propria scrittura alla diceria della solitudine sarebbe un tradimento essenziale, un tragico disamore nei confronti dell’umano, vorrebbe dire aderire al tremendo realismo cinico e senza sogni funzionale al capitalismo (secondo la lucidissima lezione di Realismo capitalista, pamphlet nel quale Mark Fisher analizza il presente istantaneo e senza memoria nel quale viviamo, inconsapevolmente complici della sola legge del profitto), vorrebbe dire rinunciare a considerare il vuoto elementare al centro della vita, rinunciare a comprendere che l’esistenza stessa della materia è possibile solo grazie alla relazione dinamica tra particelle, rinunciare a colmare la distanza tra la «realtà» (l’abitudine) e il «reale» (la discontinuità, l’irriducibile, quello che non può essere dominato) e tra sé stesso e sé stesso poeta, ovvero tra sé e il sé plurale che, grazie alle parole, conosce, osserva e supera la propria pur splendida inezia, per contribuire alla sollevazione delle leve che scardinino la «superficie» di piombo degli anni e delle mode.

I poeti non indicano il muro che vediamo tutti, ma l’infinito che sta oltre.

La lectio dell’ultimo decennio pare una diligente rovina di sé. O l’estremo singulto della sopravvivenza, l’illusione che, senza coltivare illusioni, possiamo eludere la parte di dolore che ci viene assegnata col nascere.

Ma Pascoli lo scrive chiaramente: il fanciullo non s’illude e non vuole illudere.

[…]

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