Malavasi Paola (Secolo Donna 2018)
Non posso scrivere di Paola Malavasi senza scrivere della sua vita. E della mia vita. Per cominciare, ho riletto quattro anni di corrispondenza quasi quotidiana tra lei e me. Ricordavo benissimo: coincidenza perfetta tra la mia amica, le sue dichiarazioni di poetica (quelle private identiche alle pubbliche) e la sua poesia. Paola intende la scrittura come restituzione di qualcosa di vivo: non incide nel marmo, ma raccoglie tra i palmi, per offrire e porgere. Esperienza. E l’esperienza dev’essere vissuta tanto più intensamente, in vista della futura trascrizione.
Credo di non farle torto, riportando alcuni brevi stralci tratti dalle sue lettere, spesso bellissime: «a volte mi piace la vacanza di vivere e basta», scrive – e questa affamata, a volte affannosa voglia di vivere compare, depurata, nella parte finale del lungo poemetto dedicato alla morte del padre, che apre A questo servono le lacrime: «un sogno / incantevole è sempre meno che la vita». A dimostrare subito come sia possibile affidarsi alle parole di Paola.
Ma riavvolgiamo il nastro: venerdì 25 gennaio 2002 una certa Paola Malavasi mi telefona per chiedermi un’intervista. Dice di essere riuscita a far passare il progetto di una panoramica di poetesse contemporanee, arditamente destinato alle pagine di un rotocalco cosiddetto “femminile”, «Gioia». Il fatto che abbia telefonato a me rende immediatamente evidente che il suo servizio non si limiterà a un elenco di poetesse facili o assodate, ma che Paola si sia messa in testa di esplorare gli infiniti e infidi recessi della poesia che si va facendo in quegli anni. Anni nei quali non do confidenza a nessuno, voglio scrivere mattamente e nulla più. Ma Paola parla di cose concrete e, soprattutto, si sente che è generosa perché ha il sorriso nella voce. Accetto.
E ancora, tanti anni dopo, non solo accetto nuovamente, ma mi sento grata verso chi mi ha chiesto di scrivere di lei, perché Paola non mi ha mai delusa: se l’umanità di un poeta mi delude, smetto di leggerlo e di scriverne, perché smetto di considerarlo poeta. Invece Paola per me è ancora, per dirla con le sue stesse parole, «farina che resuscita senza miracolo, e polvere era».
Del resto, il nostro inizio riassume molto della sua personalità e di quella che sarebbe poi stata la nostra amicizia: una sorellanza spirituale, oltre che poetica. Ricordo lo stupore gioioso e incredulo di entrambe, nell’incontrare chi aveva percorso lo stesso cammino, all’insaputa dell’altra, calcato le stesse orme sulle medesime strade. Dico di una coincidenza totale di vita e arte, sebbene Paola sia allora più avanti di me, in quanto – da insegnante – ha cominciato a svolgere la propria opera di diffusione della poesia nelle scuole, che io avrei intrapreso solo dieci anni più tardi.
Continuando a leggere la nostra posta, incontro alcune sue parole cristalline del gennaio 2004: «la poesia deve uscire dalla cerchia dei poeti, deve arrivare al pubblico. E noi, che siamo la nuova generazione, dobbiamo essere solidali, uniti nelle nostre diversità. E aiutarci». Paola crede alla comunità dei poeti. Forse perché, come scrive alla fine del libro, «la bellezza è indispensabile come la riproduzione» e non ritiene pensabile il sussistere di conflitto tra bellezza e bellezza, visto che la poesia, come le suggerisce di scrivere la sua bella ironia, è insieme «l’altro volto dell’astronomia e l’altro volto dell’arte culinaria». L’altra faccia di tutto, dunque. L’eversione di tutte le apparenze.
A questo servono le lacrime comincia con lo struggente ricordo di lei scritto dal suo compagno poeta Ennio Cavalli, dunque comincia con il diminutivo di Paola, Paolina, scritto per lei che – come tutti, come i gatti di Eliot – cercava il proprio vero nome.
E quando Paola prende la parola, lo abbiamo detto, comincia a scrivere della morte dell’amatissimo padre Angelo. E lo fa con una scrittura contenuta, a volte chirurgica, per timore dell’equivoco sentimentale, che però staglia una figura gigantesca, come sono giganteschi gli esseri amati, su uno sfondo popolato di storia e di storie. Storia umana, storia di specie e di generazioni. In Malavasi è fortissimo il senso del tempo, della storia globale e del discendere gli uni dagli altri. Si ha spesso la sensazione che, nella sua interpretazione del mondo, l’umanità sia una sola grande famiglia.
Altrove, infatti, la scrittura è empatica, quasi orale, le parole scivolano all’apparenza leggere, lasciando però tracce indelebili. La città di legno, per esempio, non si può leggere senza immedesimarsi, perché riguarda l’incredulità di ciascuno di noi davanti alla morte di una persona cara – e riguarda il dolore per il dolore che involontariamente daremo, a nostra volta morendo. Ancora una volta il tempo, la nascita come caduta nel Tempo, per riprendere una suggestione di Marina Cvetaeva.
Entrare nel libro di Malavasi significa dunque entrare in un mondo ombroso e insieme radioso, costellato di figure quasi fantasmatiche, ma insieme solide come legno. Un mondo fatto di contraddizione ardita, ovvero scritto da chi non ha mai avuto timore di sopportare la contraddizione, di vedere l’inferno e la bellezza di questo mondo, sapendo per sapienza originaria che ogni infingimento di pace è un seme di guerra e sapendo soprattutto che non sappiamo altro che quanto abbiamo affrontato.
La vita racchiusa – purtroppo definitivamente – nel libro, emerge lacerata dalle parole, tirate da una parte dall’amore assoluto (per il figlio) e, dall’altra, dal lutto (per il padre, che ormai è «quanto resta del mostro del lago»). E lo strappo continuo tra vita e morte è riassunto dai versi dedicati alla sabbia sulla quale invita il padre a scivolare: «La stringo in un pugno come una mano. / L’altra, in quella di mio figlio». Il corpo stesso di Paola si fa arco voltaico tra vita e morte. Ponte, diremmo. Anzi, diciamo senz’altro, se con la penna Paola incide una supplica: «Ti prego, padre, non dirmi che sei / terra» e se intende la crescita come un accumularsi di presenze nelle ossa e «invece quand’ero bambina, ospitavo solo me stessa».
Ma tutte le figure delle poesie, anche quella dell’autore, sono occasioni: se la scrittura è scrittura, l’esperienza viene limata fino al simbolo, al blasone, all’emblema; viene lustrata fino a quando chi legge può specchiare sé stesso in quelle parole, lucide e limpide come un laghetto montano. Ma dal fondo oscuro, pericoloso. Ovunque, infatti, si avverte aria di allarme, anche nella radiosità – pericolosa perché precaria, «sorretta da un niente più forte di me». Questo libro solare sente di fine, anche nel capitolo finale dedicato al figlio, quell’amatissima figura ibrida tra nuoto e nuoto, tra infanzia e maturità, per il quale la madre fa da apripista e che però protegge la fortezza della casa addormentata con il respiro. Ovunque è l’ansia della fine del bene e del bello. Perché dopo, chi sa.
L’ultima delle nostre lettere è mia, e porta la data del 17 settembre 2005, il giorno prima della sua scomparsa improvvisa. La mia ultima frase per lei è: «Ormai i miei morti li ho congedati tutti». La vita a volte ha un’ironia crudele.
Ma posso ancora immaginarla ridere. Ed già più di questo, già più del noto, già trasparente e indicibile, ovvero già completamente sé stessa. Ovvero già non più sé stessa.
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