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Battaglini Raffaella (alfabeta2, 23.12.18)

Raffaella Battaglini, tre vite interrotte (alfabeta2, 23 dicembre 218 )

E io sono la freccia è abitato da un tema, svolto in tre exempla: tre donne, tre storie. In comune, c’è solo la fine.

La prima è una poetessa dimidiata, a volte bionda e frizzante come uno spumantino giovane, a volte castana come la lana dei pullover: una figura poliedrica che rimanda alle tante persone raccolte sotto il nome Sylvia Plath. Raccolte e disperse nello stesso momento, come mostra la somma delle testimonianze, che non arrivano a comporre l’integrità di un essere, ma solo piccole parti, un prisma aneddotico, la cui superficie spesso riflette quasi soltanto il volto di chi narra.

La seconda donna, Marina, paga con la vita la propria sfolgorante bellezza e la propria libertà sessuale. La sua opera d’arte pare essere la sua propria anarchia. E immancabilmente, a cose fatte, verrà pronunciata la frase che tutti aspettavamo: «quella povera ragazza se l’è proprio cercata».

La terza donna è una riscrittura di Ingeborg Bachmann, spiata dallo sguardo timidissimo e innamorato di quello che, con orribile termine moderno, potremmo definire il suo stalker.

Tre donne che vanno anzitempo a morire.

E però non si tratta di vittime o di prigioniere, ma di figure-vita interrotte: la prima e la terza hanno già operato da vive un distacco, straziante ma autonomo, dalla vita, abitano da vive un altrove, creativo e insieme autodistruttivo. Le loro figure emettono radiazioni vitali – lacrime, rabbia, desiderio, sorrisi – alla fine ostruite: la prima e la terza per propria volontà (e così è davvero finita la vita di Plath e, ipoteticamente, anche quella di Bachmann), la figura centrale, per mano del più insospettabile dei colpevoli.

Il racconto centrale segue l’iniziazione di due proustiane «fanciulle in fiore», con tutti i turbamenti, le gelosie, i sensi di colpa e le controversie che accompagnano le educazioni sentimentali. L’oscura e sorridente preadolescenza ricorda l’aerea ripresa sereniana di Proust, appuntata anch’essa da un posto di vacanza: «Tornerà il caldo. / Guizza frattanto uno stormo di nuove ragazze in fiore / lasciandosi dietro un motivo: / dolcetto con una punta di amaro / tra gli arenili e i moli ritorna, non smette mai, / come ogni cosa qui / si rigira si arrotola su sé». Pure in Battaglini il transito delle fanciulle è il provvisorio umano che si rinnova, nell’immutabile impassibilità della natura, che sempre si richiude sul nostro passaggio. Le grandi figure che si stagliano contro il fondale dei racconti alla fine vengono ridimensionate, non sono che polvere transitoria: «Eravamo immersi in uno scenario primordiale, circondati da elementi primitivi e purissimi, che esistevano fin dall’origine del mondo. Noi, lì sdraiati, eravamo transitori; non c’eravamo prima, e non ci saremmo stati poi, quando tutto fosse tornato deserto e indisturbato come all’inizio dei tempi». Non siamo insomma che accidenti, nella maestosa pace della natura. O delle rovine, perché questo pensiero che, pur appassionato, guarda dall’alto le nostre esistenze, è simile al filosofo che contempla un intero paesaggio di rovine, provvisoriamente vive.

Ma in queste pagine lo stile è impastato a fondo con la forma e tira il lettore dalla parte dei vivi: la pregressa confidenza di Battaglini con la scrittura teatrale si manifesta negli affondi vivaci e composti, anche nella struttura, da scarti improvvisi e pieni di suspense. Battaglini simula il parlato e il fluire ininterrotto dei pensieri, la velocità e la frammentazione di discorsi diretti e indiretti. Nel primo racconto, in particolare, gli interventi dell’interlocutore non vengono registrati, viene offerto al lettore un monologo continuamente interrotto, dove lo spazio per l’intuizione di chi legge equivale a quella di chi ha scritto e la voce scrivente è la voce guida di un viaggio nei fatti che compongono una vita e dai quali si spera di poter dedurre la profondità della vita stessa, del femminile singolare che viene pronunciato, con tono chiaro e concreto, moraviano, sebbene del tutto privo dell’umor nero di Moravia. Battaglini è infatti un’innamorata del mondo e della vita, fa un uso pittorico delle parole per descrivere luce e odore del mondo, spesso s’incanta davanti alla bellezza (uno dei suoi personaggi lo confessa: «in realtà non stavo pensando a nulla, semplicemente m’incantavo a guardare le cose»), si tratti degli spigoli degli oggetti che si stagliano nella luce nettissima dell’inverno o del bronzeo provvisorio del tramonto: «la cucina è invasa da una luce rossastra, gli oggetti sopra il tavolo e la figura di Marianna si trasfigurano come in una pala d’altare, brillano dolcemente nel bagno d’oro brunito di quell’ultimo raggio», o del «nitore invernale» degli ospedali, «programmaticamente estraneo alla tiepida sera».

Il generoso amore per la vita di Battaglini si esprime nell’amore per la lingua che dice la vita, forgiata in frasi come «l’estate si spalanca senza misericordia», che ricorda il cielo «senza scudo di nuvola» di Antonella Anedda, o «l’odore profondo della terra», con l’aggettivo così viscerale e concreto o, ancora, la descrizione della casa della pseudoPlath come «luogo separato dal mondo da cui si dominava la vita».  

Ma, del femminile che abita il libro, viene detto soprattutto in un passaggio a mio parere cruciale, quando Battaglini descrive la fatica della ricostruzione di sé, l’impegno a ritrovare il vuoto che arresti la tempesta, la frana, il disastro amoroso. Bisogna dunque farsi vuoto, per ritrovare «casa», come scrive anche Bachmann in A un passo da Gomorra: «No, soltanto dopo essersi buttata tutto dietro le spalle, dopo aver bruciato tutto dietro a sé, solo allora sarebbe potuta entrare nella sua propria casa. Sarebbe venuto il suo regno e quel giorno lei non sarebbe più stata misurabile, valutabile secondo un metro estraneo. Nel suo regno valeva un nuovo metro. Non sarebbe più stato lecito dire: Lei è così e così, attraente, poco attraente, ragionevole, irragionevole, fedele, infedele, onesta o senza scrupoli, riservata o spregiudicata. […] Aveva sempre detestato quel linguaggio, ogni marchio con cui era stata bollata e per mezzo del quale era stata costretta a bollare gli altri – un vero attentato alla verità». Il regno della verità, dunque, secondo Bachmann, prevede un abbandono radicale. E il primo personaggio di Battaglini sembra mettere in scena la lezione di Bachmann, in un sorprendente intreccio di trama letteraria, vita e nuova trama letteraria: una poetessa, dunque una donna che ha preso la parola, viene comunque «bollata» dalla visione altrui, riletta dall’altrui punto di vista. Sigillata nella sua febbre: più che mai inconoscibile, più che mai fraintesa.

Infine, della pseudoPlath protagonista del primo racconto, Battaglini scrive: «non direi che sembrasse infelice – piuttosto, era come una stanza in cui avessero spento la luce». Più che dal vuoto della terra abbandonata (che, come abbiamo appena appreso, pare necessario), è dallo spegnimento, che deriva il futuro di queste tre donne, l’incombenza del buio sulle loro vite, portato dalla violenza altrui, ma anche autoindotto, voluto, in parte emancipato in un’arte, che non basta a salvare.

È forse la stessa Plath a suggerire un possibile motivo, in Mirror, testo datato 23 ottobre 1961, nel quale lo specchio dice: «Ora sono un lago. Una donna si china su di me, / cercando nella mia distesa ciò che essa è veramente. / […] / Ogni mattina è sua la faccia che prende il posto del buio. / In me ha annegato una ragazza e in me una vecchia / sale verso di lei giorno dopo giorno come un pesce tremendo»

Né Sylvia Plath né Ingeborg Bachmann si sono concesse di arrivare a consegnare allo specchio l’ipotetico mostro che sarebbero diventate. Entrambe gli hanno forse preferito il buio.

E io sono la freccia, come tutti i libri potenti, apre una visibile e continua interrogazione sul presente: le due figure femminili creative sono avvinte a un risucchio autodistruttivo, sviluppato in entrambe da un’occasione amorosa, come se entrambe queste donne intelligentissime avessero deciso di delegare a una figura maschile quasi materna la tenuta della propria persona. Nessuna delle due è riuscita ad agire come la Donna sola in cammino di Blaga Dimitrova, che non ha «messo il piede su alcuno / come su un ponte o un trampolino». La terza donna, l’unica che viva gioiosamente la propria sessualità, viene punita.

Fino a una spicciolata d’anni fa le poetesse (come Plath e Bachmann qui evocate, ma pensiamo, tra le nostre, ad Amelia Rosselli, Antonia Pozzi, Nadia Campana), hanno spesso pagato con la vita la propria adesione incondizionata all’arte. E oggi? Limitiamoci all’Occidente, perché in altri paesi la poesia ha ancora una funzione sociale, dunque il piglio realista salva forse le autrici dai gorghi delle interiorità. Ma una donna occidentale, può ormai vivere la propria creatività e la propria sessualità in maniera libera, senza dover mettere nelle mani di un amante la compattezza della propria identità, o pagare la libertà con la vita o con l’autodistruzione?

Possiamo infine considerare stabili alcune delle conquiste fatte dalle altre donne per noi, donne del loro futuro, o è necessario riconquistare – o almeno riconfermare – le posizioni a ogni tornata di generazione? La domanda è seria.

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