Campana Dino, Preferisco il rumore del mare (Ponte alle Grazie 2019)
Che cos’è la realtà? è la domanda scritta fra le righe delle poesie di Dino Campana, un autore che sembra proiettare con evidenza cinematografica la propria esasperata, fosca, sensualissima sensibilità su un fondale di cose concrete, spigolose e salde come rocce.
Sappiamo che ciascuno di noi percepisce il mondo a modo proprio. Lo stesso accade ai poeti: alcuni – come Montale – vestono oggetti e paesaggio con sentimenti e riflessioni che appartengono al poeta, non al paesaggio, poiché il paesaggio di per sé esiste e basta, privo com’è, nella realtà, di sentimento e pensiero.
Questa prima specie di poeta sovrappone sé stesso alle cose con tale forza che altri poeti vogliono invece impegnarsi a contenere le emanazioni sentimentali o intellettuali del proprio io sulle cose reali, addirittura cercando di difendere la «cosa» dal proprio stesso linguaggio, nel tentativo di offrire al lettore la nuda realtà, il più possibile vicina al suo stato di pura esistenza.
Campana sceglie una terza via: copre il visibile, lo ammanta con la propria visione, come se il suo mondo interiore traboccasse più abbondante sul mondo dei fatti, fosse più evidente di quel che vedono gli occhi del corpo.
Eppure, non è un visionario.
La realtà appare infatti «rivelata» dalla sopraffazione di Campana, perché il punto di vista di Campana ci riferisce di un legame recondito e indispensabile, che per lo più ci sfugge, tra cosa e cosa, tra creatura e roccia, tra luna e gomito e fianco e filo d’erba e guerra e foce e colore di stella. E perché egli stesso pare assumere, a volte, «la dolcezza dei seppelliti», una dolcezza che ci pare – a bagliori – di intuire.
Forse pure Campana è arrivato, a momenti, a quel che Dante mirabilmente chiama «intelletto d’Amore» e che è la sola strada per comprendere il mondo.
La visione del mondo di Campana è un ininterrotto fluire di elementi, una mescolanza perturbante e felice di zone d’ombra improvvisamente illuminate dal faro di un’intuizione, raggiunta per metafore: «una forma nera cornuta immobile mi guarda immobile con occhi d’oro» o paragoni: «Avanti come una mostruosa ferita profondava una via». Altrove, le descrizioni sono gustose e chiare, leggibili e pianeggianti, per una quiete sempre provvisoria e lievemente brusca come «l’odore pirico della sera di fiera», tridimensionali per quanto sono esatte.
Altrove, ancora, l’eccesso è tutto fuori, attribuito alla natura stessa, allora «il poggio è troppo bello» e il cielo è «troppo azzurro», e infine è il mare a essere depositario di una «bestialità irritante».
Ma Campana sa benissimo che «ogni fenomeno è per sé sereno» e che «la mano irritata» che si sporge dal muro di terra dell’umano, la mano infebbrata, curiosa, tremante, insicura o fiera, tocca «la parte immota» delle cose, quel tanto di estraneità e indifferenza che la materia ci riserva, pur nello slancio della più viva e sincera nostra adesione.
Riflettere su Dino Campana significa dunque evadere dall’aneddotica del poeta invasato che strappa le pagine dai propri libri per sottrarle allo sguardo di chi non ritiene potrà mai comprenderle e uscire pure dall’automatismo di lasciar coincidere l’appassionato amore per la vita con l’illusione della conoscenza della vita.
Chiunque ami la vita, l’ama proprio perché sa che non potrà mai davvero possederla. E, come ben sentenzia la prostituta Jodie Foster in Ombre e nebbia di Woody Allen: «C’è un unico tipo d’amore che regge: quello non corrisposto». Se così è, raramente l’amore per la realtà fu meno corrisposto di quello che le portò Dino Campana: siamo in Italia, nell’Italia piccola di fine Ottocento. Campana nasce irregolare, tutta la sua energia non può essere contenuta nelle stringenti convenzioni della provincia italiana di inizio Novecento, ma le sue fughe giovanili, i suoi viaggi all’estero, gli valgono l’inizio di una serie ininterrotta di internamenti psichiatrici. Per fortuna scrive. Per sfortuna è così fiducioso da consegnare l’unica copia dei Canti Orfici a Papini e Soffici, sperando in una pubblicazione sulla rivista «Lacerba», ma il manoscritto viene perduto e Campana quasi impazzisce davvero, per lo sforzo mentale di riscriverlo. Ma stavolta lo pubblica a proprie spese. Il libro gli vale tre anni d’amore tempestoso con Sibilla Aleramo, che se ne dice «incantata e abbagliata insieme», perché i Canti Orfici è un libro pagano, onnivoro, ipnotico, sconnesso, eppure chiarissimo, nel suo pedinare con certosina nitidezza i processi mentali del suo autore – e il fatto che Campana abbia potuto ripercorrerne le tracce a memoria, a distanza di un anno, è la prova che fossero quelli, che fossero «veri» – ma, invece di conseguire un risultato stento, oscuro e autoreferenziale, inseguendo sé stesso Campana incontra il mistero del mondo.
Dino Campana è un anticipatore, un uomo dalle disperate certezze, un inquieto che ha inventato la libertà che sarebbe stata di molto Novecento letterario ma, negli anni che è durata la sua vita, la sua arte irrequieta non gli ha portato troppa fortuna, perché non sa di buono e di pulito come la pace, non risolve i conflitti, ma lascia in bella vista il perturbante, il barbarico, qualcosa di irrisolto che si torce in fondo alle parole, sempre lievemente intorbidate da lacrime di pianto e riso – non dimentichiamo le staffilate e gli affondi della sua bella ironia – o da una metafisica malinconia, ma si agita anche al fondo delle parole più chiare, «come un peso sconosciuto sull’acqua» di questa nostra esistenza che però spesso è «calida di felicità, lucente».
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